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LA SCOMPARSA DI ETTORE E ANDROMACA, di Ignazio Apolloni

 

     Lo avevo conosciuto che era quasi un imberbe, uno di quei ragazzotti di buona famiglia mandati a frequentare le nostre scuole a Ginevra. Nella più prestigiosa, che non dico per modestia, io vi insegnavo metempsicosi e metafisica dopo essermi guadagnato una tale reputazione internazionale da essere richiesto – cito a caso – persino dall’Ecole des hautes etudes di Parigi. Si presentò con una sacca in mano e uno zainetto, calzoni alla zuava, baffetti incipienti e qualche brufolo in viso. Lo notai subito, gli posi la prima delle domande ma mi parve piuttosto restio, a dire il vero. Spiaccicò alcune parole, per me incomprensibili in quanto di una lingua (l’italiano) a me totalmente sconosciuta perché peraltro mista a un greco sicuramente classico se non arcaico.
     “Sono Giorgio De Chirico. Un giorno sentirete parlare di me quale inventore di un genere di pittura nient’affatto praticato. Son qui per frequentare i suoi corsi di metafisica e non provi a inocularmi il germe della metempsicosi perché con me non attacca”.

 

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