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NINO ARRIGO: "La terra e la morte" e "La luna e i falò", di CESARE PAVESE

 

 


Nel poemetto del 1945 La terra e la morte, la complementarietà tra mito e logos – che costituisce la cifra più significativa della poetica pavesiana - sembra radicalizzarsi in direzione della tautologia simbolica. In tutte le liriche che lo compongono Pavese attua una totale identificazione della donna con la natura, e in particolar modo con quegli elementi che nel suo immaginario simbolico rappresentano i luoghi dell’autenticità: la collina, la vigna, la campagna, il mare; dove si svela l’Essere nella sua condizione originaria precedente la “deiezione”. Quello del poeta è lo sforzo disperato (lo stesso espresso nel Mal di mestiere) nel tentativo di dare una voce al nulla, di raccontare il silenzio delle origini, di esprimere, tramite le parole, la Parola, di svelare il mistero. La donna, la campagna, sono infatti in Pavese le figure tipiche del selvaggio, già qui inteso come “possibilità aperta”.  Il carattere metalinguistico del poema è quanto mai esplicito, esso costituisce

il tentativo disperato di parlare “al” mito parlando “del” mito, cioè di definirlo per ricrearlo ogni volta come un “primum” aprioristico, mettendo a nudo la drammaticità di uno sforzo linguistico che trova nell’infinita scambiabilità degli attributi e nell’equivalenza fra sostanze e qualità la sua forma e la sua materia. Un’operazione affetta dal male della cattiva infinità, ma che non rimanda all’ineffabile, bensì alla realtà tautologica dell’essere prelinguistico, del quale si può dire soltanto: “è com’è”.

 

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