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DODICESIMA LETTERA APERTA A VIRA FABRA, di IGNAZIO APOLLONI

 

 

 

    Gentile signora
    Mi permetta di essere sincero, scevro come sono da qualsiasi forma di ipocrisia. Non si inalberi, la prego. Non la prenda come una reprimenda (mi perdoni il linguaggio aulico) ma gli è che mal sopporto i lunghi silenzi: e lei ha superato ogni limite. Le ho scritto lettere appassionate o semplici biglietti dai luoghi più impensati, e lei zitta era e zitta è rimasta. Ho fatto la stessa cosa da città e fazende in cui avevamo speso parte delle nostre vacanze (tra trastulli o semplici scoperte di luoghi ameni; allietati dal vocio e fru fru di cardellini) idem con patate (mi perdoni questa volta il linguaggio pedestre). È mai possibile, mi sono detto, che non trovi il tempo di vergare quattro righe in tutta fretta, fatte magari più di scarabocchi che di parole sensate per rassicurarmi sul suo stato di salute, tanto per dire? Posso capire che da voi manchino i classici carta, penna e calamaio; le buste intestate; la buca delle lettere; un tabaccaio per la vendita dei francobolli; la ceralacca per rendere più preziosa la lettera – e il plico ove alla lettera si volessero aggiungere foto – però non neghi che padroni dell’etere come siete se realmente voleste non possiate farvi vivi mediante il bip bip. Come dice? Non sa a cosa alluda; non ricorda di avere mai sentito pronunciare simile suono (se è un suono); ancor peggio, non farebbe altro oggi che maneggiare testi sacri e certamente i bip bip poco hanno a che vedere con essi?

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