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IGNAZIO APOLLONI: DETECTIVE STORY

 

 

DETECTIVE STORY


UNA VACANZA ANDATA STORTA

 

Non avrebbe potuto giurarci ma uno dei suoi più forti desideri era stato quello di prendersi una vacanza e volare a Barcellona. Ne aveva letto in questa o quest’altra rivista illustrata lasciata in anticamera da vari clienti venuti alla Patterson o alla Ferguson per chiedere consulenze se non veri e propri interventi risolutori. Poi però, dopo un’istantanea accensione di desiderio, aveva accantonato l’idea del viaggio – anche perché non avrebbe saputo con chi intraprenderlo non avendo ancora avuto, a quaranta anni suonati, una compagna fissa. Finalmente nel suo orizzonte era apparsa “una stella” (come lui la chiamava, poeticamente ma in sordina perché lei non intendesse tradurre quella espressione in sentimento prodromico a qualcosa di più serio che non un semplice date). Da segretaria, Lara divenne un’accompagnatrice fissa, nelle poche occasioni lasciate a Jeffrey dalle lunghe e snervanti sedute con i committenti e successivamente con i pedinamenti; stesure di rapporti; spedizione per posta (se la questione aveva il carattere del top secret) oppure per wire (come loro tecnicamente chiamavano la trasmissione di messaggi via Internet). Fu così che step by step lei si conquistò un posto di riguardo nella sua vita ed ebbe ad accompagnarlo a Venezia nel loro primo viaggio all’estero finito per lui in un fiasco se non proprio in un abbaglio simile a quelli provocati da un colpo di sole.
Fecero in fretta le valigie. Il biglietto fu acquistato a distanza (ecco qua i numeri della mia carta di credito!), senza perciò nemmeno muoversi per andare in agenzia. Stessa cosa per la prenotazione dell’albergo (il Meridien, sulla Rambla, ci si può scommettere). Lara è una pila elettrica. Al massimo lei aveva toccato in gioventù le rive del Maine o le montagne verdi del Vermont. Atmosfere da sogno, con una amica naturalista che non fa che esaltare paesaggi e villaggi in un tentativo di spogliarli da bruttezze e brutture, presenti anche là, sebbene in misura minore di quante non ne possa contare New York. Non le parve dunque vero: ricevere l’invito – tutto spesato – a ritrovarsi in quel di Barcellona con il “suo” Jeffrey (segretamente amato). Fu lui ad andarla a prendere in aeroporto, a bordo di una limousine con tanto di mazzo di fiori in mano e autista con berretto. Doveva aver visto il film Pretty Woman. Come che sia a Lara sembrò una proposta di matrimonio; per lui invece un gesto di galanteria possibile solo in quanto aveva chiuso in bellezza l’ultimo caso, con un tasso di incasso veramente molto elevato.
Un’operazione finanziaria, di quelle che sconvolgono i mercati con ampie perdite e profitti. Una notizia falsa sull’andamento dell’economia negli U.S.A. Gli effetti rimbalzano subito su tutte le borse, compresa quindi anche quella della City. In questo momento il Jefferson (niente a che vedere con il famoso presidente antischiavista) è a Londra per ridare fiato alla succursale in crisi di identità per mancanza di un capo carismatico. Vengono a trovarlo una quindicina di speculatori. Ne sceglie uno. La promessa è che gli farà sapere in tempo della prossima notizia falsa, uguale e contraria alla precedente e pertanto in grado di fargli recuperare quanto ha perso. Jeffrey a Wall Street sa su chi contare. Una telefonata. L’intesa sul prezzo. Non passano due giorni ed ecco l’aria che tira. Arriva la notizia, prima telefonicamente e subito dopo via email perché ci sia il riscontro e la certezza pretesa. Fatalità però, per la differenza di fuso orario, la notizia arriva prima alla sala stampa. Una seconda fatalità vuole che il committente in quel momento dorma sicché a raggiungerlo ci pensa, con qualche minuto di anticipo, il Jeffrey: questa volta non proprio detective privato ma dalle amicizie influenti. Troppo tardi per una forte scommessa sul rialzo di quel particolare titolo. Lui, ad ogni modo ha fatto la sua parte; pretende e vuole il compenso.
Da parte sua il committente si rifece – questa volta per le informazioni attendibili fornite proprio dal famoso detective. Minacciato di farlo arrestare il propalatore della prima notizia falsa sborsò al sig. Dillinger (il committente del Jeffrey) non solo quanto egli aveva perduto ma altresì quanto pagato al Nostro, seppure in misura fortemente scontata.
E andiamo a Barcellona. Città tentacolare.
Quei servizi la descrivevano come l’ultimo caposaldo dei repubblicani ad avere ceduto all’esercito di Franco, detto il Caudillo (ma chi era costui?). Anarchici, i suoi abitanti, e chi sa che non fossero anche atei, secondo certe dicerie: cosa però smentita da una magniloquente costruzione dedicata alla Sacra Famiglia; a forma di castello in aria; fortezza in pietra calcarea, ma solo perché la struttura portante doveva reggere delle guglie che secondo il progettista avrebbero dovuto raggiungere i duemila piedi di altezza. Bizzarrie in quasi tutti i palazzi vuoi nel Quartiere Gotico e vuoi nel quadrilatero esterno, spaccato da una diagonale solo in parte destinata a smussare gli angoli. Tali bizzarrie, costruttive ed ornamentali, pare debbano attribuirsi all’artefice del Modernismo (da qualcuno chiamato Manierismo), l’architetto Antoni Gaudì. Aveva preso subito piede in città. Gli imitatori (detti anche epigoni) ci si erano calati a capofitto per la smania dei committenti di distinguersi; mostrare un carisma molto maggiore di quanto già non fosse; finire nelle cartoline illustrate e nei molti volumi già stampati in carta patinata e a colori. Era stata la dimenticanza di un cliente della Ferguson, in quel di Londra, a potere concedere al Jeffrey di saperne di più, visivamente, di questa Barcellona (anche un po’ pacioccona, fuori porta). Aveva comunque accantonato il progetto per le ragioni già dette: il susseguirsi di continui incarichi di prestigio e perché non avrebbe saputo con chi andarci. Finché all’orizzonte apparve Lara, la stella. Armatevi dunque e partite. Partirono. Ed ora sono appunto a Barcellona, mischiati alle centinaia di migliaia di turisti alla ricerca di un pezzo di paradiso contornato però da stranezze e originalità bizzarre come quelle del Parco Güell.
Per chi non si sia mai affacciato alle sacre sponde di questa città tutta batuffoli sui quali appoggiare la testa e sognare; o per chi sia innamorato di mercati fantasmagorici quanto a colori e fuochi di artificio è bene si sappia come c’è da sentirsi girare la testa al solo girovagare (non proprio oziare perché ne manca il tempo e le occasioni) tra ramble e calle. Dappertutto un invito ad entrare in una caffetteria o cerveçeria (mica perciò un invito ad entrare e pregare). Ce n’è di tutti i gusti (Lara e Jeffrey si diedero ai bagordi, finendo con l’uscire a quattro zampe in più di un caso). Ci sono i musei da visitare; la teleferica su cui salire per vedere da vicino ciò che offre il Montjuic.
Non se ne persero una, i due. Un giorno al Museo della fondazione Mirò; un altro al Museo di Arte contemporanea a tentare di leggere, tra i segni di tale Renet Rossell, il nuovo corso della storia dell’arte dopo le ultime avanguardie. Ovvio che né l’uno né l’altra – digiuni come chi abbia scelto il deserto per sottrarsi persino alle tentazioni di cibo ed acqua – sappia distinguere un cardo puramente selvatico da uno simile trattato però con vernici e colori. Piuttosto si lasciarono conquistare, e bevvero a sazietà succhi di frutta esotica – come i mandarini fuori stagione – appena spremuta e tenuta sotto una coltre di ghiaccio tritato. Affranti ma mai sazi – proprio alla stregua degli imberbi nel loro primo viaggio di istruzione – la sera si butteranno sul letto senza il benché minimo cenno di augurio per una serena notte. Che infatti più che serena si preannuncia gravida di altre emozioni immaginate alla luce dei molti riflettori che sul far della sera cominciarono sin dal loro primo giorno di soggiorno a illuminare monumenti e piazze, luoghi di ritrovo e luoghi di perdizione per chi non abbia il senso dell’orientamento.
Furoreggiarono, Jeffrey e Lara. Scattarono più foto che a Venezia. Ritrassero moltitudini e facce sconosciute messe in posa davanti o a lato di uomini-statua (quali appunto in posizione statuaria e quali mordaci al punto da indicare il piattino dove depositare monetine e anche meglio se biglietti di banca). Era tutto un frou-frou quel che scorreva loro intorno; un enorme luna park; un luogo dove perdersi e ritrovarsi. Ci sono mamme che cercano disperatamente i loro figli (e finiscono col trovarli con un barattolo di pop corn in mano e la cannuccia che pesca dentro la bottiglia di coca cola). Occhi intenti ad osservare il cielo in mancanza di un qualsiasi oggetto da conservare in memoria tra tanto affrettarsi senza sapere dove esattamente sia il prossimo luogo cult. Un po’ dappertutto la febbre sale, secondata dalla temperatura perennemente in aumento (la nostra coppia ha scelto il mese di agosto, il Termidoro come lo chiamarono i rivoluzionari post-Bastiglia). Errore grave, imperdonabile. Si vedrà in seguito quanto tale scelta sia stata esiziale. Nel frattempo però c’è ancora una stradina o un monumento; un edificio architettonicamente pregevole; una fontana; una banchina o navi in arrivo e in partenza. Già che ci siamo perché non fare una capatina in fondo alla Rambla: là dove si erge la colonna alta e svettante, sulla quale – in posa da navigatore che sa cosa c’è al di là dell’orizzonte – trovasi il celeberrimo Cristoforo Colombo?
Ci andarono sul far del tramonto, spinti dal vento di libeccio. Per l’occasione avevano arrotolato le vele e adesso le tengono sotto il braccio. A tratti vengono spazzati via e giusto perché si afferrano l’un l’altro o si aggrappano alla catena provvidenzialmente a portata di mano non finiscono in acqua. Era stato il Jeff, il solito Jeff, il più navigato tra i due, a fermarsi da un ferramenta; contrattare sul prezzo; attorcigliarsi alla vita una catena di dodici metri, sufficientemente resistente a venti fino a 40-45 nodi. Non appena dunque le folate si fecero più forti il Nostro srotolò la catena di acciaio; ne mise un capo in mano a Lara; si fecero entrambi il segno della croce – tra lo stupore di tutti gli altri turisti presenti sul posto per ammirare la statua di Colombo, o perché accorsi in quanto richiamati da altri in vista di ciò che presumibilmente sarebbe successo. Ed infatti è successo.
Quando il libeccio ebbe a raggiungere la velocità di 50 nodi non ci furono più santi che tengano; la catena sfuggì di mano a Lara (poco male perché finì a terra, lei e la vela che teneva sotto braccio) mentre per il repentino stacco il Jeff cadde in acqua con tutto quel peso (dato dalla catena e dalla vela). Fortuna che in loco, proprio dove finì il volo di Jeff c’erano dei sommozzatori al lavoro. Non fosse stato per loro qui sarebbe finita la vacanza-premio del più sfigato investigatore privato di tutta la storia dell’opera buffa, più che gialla o noir.
Ma torniamo a Barcellona, città dalle mille e passa risorse: una delle quali è la musica catalana, tutt’affatto diversa da quella castigliana, almeno a parole. Stasera si esibisce Marta Robles alla chitarra (voce di Paula Dominguez) impegnata nell’esecuzione di alcuni momenti del Flamenco sotto il titolo La revelació. Trenta minuti di musica al Palau: un autentico tempio del buon gusto e del bon ton di un tempo, caratterizzato da un lampadario da brividi dovesse cedere la catena che lo regge: più o meno ciò che stava per accadere a Jeff. Lara è digiuna sia di lampadari di quella portata che di musica etnica tipica del popolo spagnolo e di quello andaluso. È rimasta al country, essendo vissuta fin oltre la pubertà nelle vaste distese del mid-west tra mucche e buoi; wagons carichi di migranti diretti all’ovest; mungitrici meccaniche; cow boys (e per ultimo – per effetto dell’emancipazione voluta dal femminismo – cow girls). Nulla dunque sa di ballo fondato sui colpi di tacco (anche meno sa di bajadere) o di languori. Già che ci siamo, si dice, andiamo a sentire. In fondo dura mezz’ora. Uscì dal teatro con tale senso di rivincita, su tanti anni passati all’oscuro, da volere persino comprare il dvd dalle stesse mani che avevano suonato così abilmente la chitarra; ed anche per incantarsi a quella voce (la voce di Paula Dominguez) che l’aveva ricondotta all’epoca dell’emigrazione dei suoi antenati verso un nuovo continente: quello scoperto appunto dal genovese Cristoforo Colombo.
In verità nel Palau ci andarono perché fiaccati dalla calura estiva sempre più in aumento a causa anche – a detta dei meteorologi – della presenza a Barcellona di tutti quei turisti (un milione e passa) in perenne movimento. Fiato caldo dunque dappertutto in strada. Meglio cercare riparo in un posto fresco, sia pure per effetto dei condizionatori in funzione. C’è pure che al fresco vengono le idee; si riattizza l’istinto (di conservazione in alcuni; professionale in altri). Jeffrey da qualche giorno è fuori allenamento, gli ci vuole uno scossone per farlo uscire dal torpore. Ci aveva provato con la vela, acquistata e tenuta sotto braccio non si sa mai: un sospetto, il desiderio dell’avventura, l’occasione di vedere dall’alto la città e magari scoprirci il punto debole – tutte le città ne hanno uno, costituito dall’aggregazione in una piazza o piazzetta; stradina o vicolo di malfattori. Basterà un colpo di vento, di quelli giusti e navigherà alla ricerca di quel punto. Malauguratamente il vento giunse a puntino ma con tale intensità da non dargli il tempo di aprire il paracadute. La conseguenza è stata quel tuffo nelle acque del porto – piene di nafta come tutte le acque di tale tipo – e meno male che quasi ad attenderlo c’erano quei sommozzatori di cui si è detto.
Lo spettacolo sarebbe stato noioso, un’autentica perdita di tempo, non fosse per l’aria fresca che tira in teatro. Niente perciò sonnecchiare, zufolare con il solo uso delle orecchie e della mente che emette suoni conosciuti. È ciò che sta succedendo a Jeff, assorto nei suoi pensieri più che impegnato ad ascoltare la musica (lui la prende per zigana mentre siamo in presenza di vero e proprio flamenco). Il tempo comunque ad ogni modo scorre; è quasi sul finire il concerto (meglio chiamarlo concertino). A un certo punto il risveglio, la presa di coscienza mentre Lara è in estasi per quel qualcosa che non capisce, abituata com’è al rock, ma di cui avverte il fascino della lontananza. È sembrato a lui (lui sta per il nostro investigatore) di avvertire di tanto in tanto, durante i trenta minuti, un aumento o una diminuzione di intensità della voce o delle note emesse dalla chitarra. Niente di strano perché bisogna pur modulare il canto (è l’esecuzione che lo impone) e di necessità lo strumento gli deve andare appresso. Tutto qui? No, perché al Jeff queste variazioni sembrano piuttosto una anomalia. Ecco dunque che si torce sulla poltroncina alla ricerca della fonte del mistero. È certo, ci potrebbe giurare: l’amplificazione o l’attenuazione dei suoni proviene da un qualche strumento elettronico presente in sala. “Qui qualcuno ci marcia” si dice. “Starà provando, sulle spalle di questi due ignari, la potenza dell’elettronica a distanza. Con il rischio però di mandare tutto a carte quarantotto”.
Non aveva torto. Un rapido sguardo di qua e di là, ed ecco che si accorge, anzi scorge il malandrino. Ha in mano una tavoletta. Sembra semplicemente stia giocandoci, il fatto però è che a tratti la voce della cantante quasi rimbomba; le note della chitarrista sono alterate (talvolta in peggio, talvolta in meglio ma in modo evidentemente innaturale). Naturalmente nessuno degli spettatori nota la differenza: chi va a teatro già pregusta; non c’è nulla che possa disilluderlo; le discrasie saranno colte dal critico di professione sempreché non gli venga vietato dalla testata per cui lavora. Jeff è sicuro. Gli sono bastati pochi secondi. Questo qui o è un falsario oppure in infiltrato. Sicuramente lavora per qualche multinazionale. Facciamo che io lo seguo.
Ultime note del concerto. Pubblico che repentinamente si alza. Si alzano pure loro. Si mettono in fila. Stanno quasi per raggiungere il tizio. Il tizio – da schietto professionista del crimine – sgattaiola, si infiltra tra una coppia e l’altra. Raggiunge l’uscita poco prima di loro ma con un tempo sufficiente per sfuggire alla presa. Quando loro sono finalmente fuori, del falsario (ma sarà un falsario? o non piuttosto un incaricato di verificare il funzionamento dell’aggeggio che aveva poggiato sulle gambe) più nessuna traccia. Svanito nel nulla.
Jeff non è tipo che si arrende. Passeggiando la sera prima per le vie e viuzze del Barrio Gotico è finito – lui e la sua pupa – prima in rue Escudellers e quindi Plaça de George Orwell. Non ha dubbi, è il ritrovo della malavita. Fa perciò finta di guardare le vetrine dei negozietti ed intanto scruta, osserva, annota. Fotografa persino, mentalmente, i visi più caratteristici. Adesso che ci pensa, è sicuro. Quello lì era seduto in una delle sedie del bar della piazzetta. Cincischiava, giocherellava con qualcosa come un Ipad, e intanto chiacchierava amabilmente con gli altri tre seduti pure loro al bar con una birra gelata in mano. Forte era stata la tentazione di Jeff di dire alla sua bella: fermiamoci a prendere pure noi una birra. Stanno per farlo quando arrivano prima di loro, ad occupare l’unico tavolo rimasto libero due individui di quella stessa specie. Meglio filare via. Filarono via.
Giunti in albergo il Nostro tirerà fuori dall’apposita valigetta il PC. Sta per scrivere il messaggio quand’ecco che gli appare quello in arrivo. Dice: “Ricevuta commessa. Cercasi falsario. Dovrebbe trovarsi a Barcellona”. Seguono i tratti del viso; l’età approssimativa; colore dei capelli; probabile abbigliamento quand’è al lavoro; ricompensa. “Sta testando uno strumento di alta precisione inventato dal nostro cliente per l’accentuazione e comunque miglioramento di voci e rendimento di strumenti concertistici. Né noi né il nostro committente ha fin qui allertato la polizia. Vogliamo che sia tu a predisporre il piano per la sua cattura, dopo l’individuazione che ne avrai fatto. Per noi è una questione di prestigio (e in verità non solo). Per te, a questo punto, un gioco da ragazzi”.
Sarebbe stato davvero un gioco da ragazzi non fosse che dovrà scoprirsi il covo, il luogo dove tiene il corpo del reato: anche meglio se lo si coglie sul fatto. Breve consultazione con se stesso e Jeff ha la soluzione pronta: è il Palau, questa volta non il ridotto ma il teatro nella sua forma più smagliante. È previsto un concerto di musica catalana, chitarrista il più grande interprete di questa musica, titola il New York Times. Il costo del biglietto non è uno scherzo ma ne vale la pena. Detto fatto dalla reception gli confermano l’acquisto. La posizione è più che panoramica, secondo richiesta. Da lì si può controllare tutto, persino se qualcuno ha un cerino acceso in mano (nell’atto di accendersi di nascosto una sigaretta). Puntualmente i due sono sulla prima rampa di scale là dove c’è la maschera e il controllore dei biglietti. Jeff vuole controllare una a una le persone che entrano per individuare già da subito il suo uomo. Gli scorrono tutti sotto il naso. Almeno tre hanno le sembianze richieste, uno solo però con la pelle olivastra. Dovrebbe essere lui. Durante tutto il primo tempo non succede nulla, l’acustica è perfetta, l’esecutore in gran forma, non c’è bisogno di prove di alterazione dei suoni; niente test perciò. Grande è la delusione del nostro investigatore finché il colpo di scena.
Atto secondo. Il chitarrista, tale Manuel Gonzales, è giù di corda, nel senso che le corde non rispondono perfettamente ai suoi comandi. Il pubblico per fortuna non se n’è accorto ma chi è stato comandato di seguire per filo e per segno l’esecuzione sì. Eccolo dunque tirare fuori l’aggeggio (in inglese gadget) non ancora collaudato dalla casa produttrice e men che meno brevettato. Comincia a maneggiare quella sorta di padellino; i suoni adesso escono forti e chiari. La prova del fuoco può dirsi avere avuto l’esito sperato; può pertanto mandarsi il messaggio convenzionale. È quello che fa il nostro (la Lara totalmente assente da tutta questa manfrina). Jeff si allontana alla chetichella dalla sala. Va in quella che un tempo veniva chiamata il fumoir. Apre il suo PC e comincia a digitare. “So chi è, ce l’abbiamo fatta! Adesso dò la notizia alla polizia, dopo però avere offerto le mie credenziali. Spiattellerò ciò che so; darò le prove dell’incarico da me e solo da me ricevuto”, e via di questo seguito.
Perdette una buona mezz’ora. Quando è pronto per rientrare in sala il concerto è già finito, la folla defluisce, il tizio manca all’appello.
Era successo che mentre lui telegrafava, via internet, al suo capo la polizia catalana (più furba pare di quella castigliana) leggeva, riga dopo riga ciò che lui andava scrivendo e di corsa si fece trovare all’uscita della folla. Non ci volle molto a individuare il falsario, coglierlo con le mani nel sacco (in verità le mani erano in tasca, nel sacco c’era l’Ipod); arrestarlo. Il nostro eroe quindi rimase con un palmo di naso e non fu nemmeno menzionato il suo apporto nella stampa locale o in quella nazionale. Ricevette comunque i complimenti del suo capo e un premio da parte del committente, sebbene misero: un viaggio per due, tutto spesato, all’isola di Santa Lucia, albergo di lusso per personaggi in voga. Malgrado tutti gli insuccessi collezionati la fama di Jeff adesso è consolidata. A dargli una solida mano sono tutti i racconti che su di lui sta scrivendo l’autore.