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GIUSEPPE ADDAMO

 

LETTERA AL FRATELLO


Ti scrivo alla prima luna di novembre
di questo millenovecentocinquantotto
al colmo dei miei trent’anni: qui, dove
ora abito, c’è una nebbia azzurra, pesante,
solo le rane cantano e il sole è chiuso
in una tomba di sonno, spento suggello
di secca ceralacca medievale. Un vento
leggero muove la nebbia, cancella
i contorni delle case e fa di questa mia
d’affitto un’isola che solo un vocìo
confuso, là dove s’indovina il prato,
lega a una continuità di terre,
a una presenza di uomini che ora
parla del prezzo della legna che sfuma
nelle stufe. Ti scrivo e sono qui immerso
fra carte e libri, vi soffoco dentro:
leggo nei giornali una geografia
di bufere, dicono di croci segnate
dietro l’orecchio e di peli di gatto
nero passati sulla fronte di moribondi
isolati; dicono di vigne bruciate
dal gelo nella «bassa», di muri di ghiaccio,
di valanghe; dicono che a oriente
gioca la sua danza il napalm,
che nei perimetri atomici, sotto
la cenere nuova, nella nuova geografia
del Pacifico, seminano il pane.
(Ignorano che fra il tritume dei coralli,
negli atolli atomizzati, più villoso
nereggia il frumento; che il sottosuolo
coloniale segna sismi dove scarpe
chiodate affondarono secoli di orme;
che i popoli nuovi scrivono libertà
coi meridiani). Leggo che sul deserto
piove sale e le bianche mascelle d’asino
sono tappe alle oasi e segnano la via
dei palmizi dietro gli ossari, le sfingi
e le dune d’oro. Dicono che i pastori
smettono di piantar tende  per trivellare
pozzi con l’acciaio blu; che l’ancora
dei mercanti imputridisce dove le navi
armarono il coro degli schiavi.
Dicono anche i giornali che a Melika
Khene «gli arcangeli dellira»
hanno bruciato il sesso, non la coscienza.
E ad occidente un altro impero frana
sulle miniere dissanguate, ma i sussulti
sulle Alpi non scuotono il letargo
dei suicidi. La storia spezza i suoi
sigilli e per tutti la speranza s’apre,
l’entusiasmo si accende di ridare
la malva e l’alga al palombaro, ai figli
sorriso e pane, e il frutto del campo
al contadino e non più i monili dissepolti
a una Cleopatra d’occidente. E’ il vecchio
discorso sempre interrotto e sempre
fra noi ripreso, la parola ha mani
e anche il colore è gesto, canzone torbida
è l’acqua che battezza il sesso
alle ricurve mondine e pianto agli occhi
delle case, nel Polesine dai periodici
ritorni. Vidi persiane verdi a Prato
ove un’antica religione insegna
una pietà che distrugge; a Pianòro
vidi mura vaiolate di mitraglia,
e l’acqua sale ancòra a neve e sale
il prezzo dei biglietti per una carità
di soccorsi senza piedi. Non meravigliarti
dunque se  Peachum sceglie il monopolio
della compassione, se prende in appalto
le elemosine e fa un’industria della carità:
non chiedermi perché il corvo è nero.
Alcuni si sdraiano sulle trazzere
di Partitico, altri altro privilegio
non ebbero che di sbagliare – e il rancore
onde la pelle è terra, patria e calce:
così le braccia che furono ruota, canòa.
trivella, tornio e ali (le braccia
che sono oro e pane) spesso valgono
appena un ridicolo peso di piombo
omicida. Leggo, e anfratti improvvisi
tagliano il mio sangue plebeo intriso
di polvere e sudore: fra fame e
fame s’interruppe nel tempo, nel sale
del pianto, il corso pigro del nostro
sangue plebeo: ricorda i pomeriggi
arroventati della nostra infanzia
cariata, al cielo che si apriva di spari
e di guerra, quando il mare bruciava
ad Augusta come petrolio, noi s’inseguiva
con lunghe pertiche i pipistrelli
per crocifiggerli ai muri e all’odore
di calce viva di calce spenta li bruciavamo
neri e innocenti – perché spesso il colore
è da solo un’imputazione, è condanna,
se a Faubus sono indifferenti le distinzioni
fra bestia e uomo; ricorda la nostra casa
silente, l’ombrello a riparare il letto
dalla pioggia, gli scarafaggi brulicanti
nella fumosa cucina fra travi che la tela
del ragno lega; e l’altra luna sulla soglia
e le nenie dei carrettieri e la lucerna
che dondola infinita nella piana di Catania.
Ora i miei figli sanno che il ferro
è la luna e l’abitano i cani; i draghi
delle loro favole stanno a guardia di tesori
affondati negli spazi astrali e hanno
i nomi scientifici di leggi fisiche
contro le quali su razzi di fuoco
combattono uomini caparbi, gli alberi
che essi conoscono metallici crescono
e senza frutto solo sui tetti, come antenne,
e il loro grillo parlante gracida
col nero ventre del telefono appeso
al muro: ma ignorano che cani e generali
non si confessano mai abbastanza
e contano su di noi perché lo sceriffo
arrivi puntuale e quando rossa ride
sui banchi l’anguria spensierati
vi incidono la giocosa sete. Ma la nebbia
si gonfia, si fa fumo, cresce in flora
incredibile a costruire case assurde
dalle oscillanti finestre, senza fondo:
strana forma che il mondo a volte
assume e ci rende stranieri in terra,
abitanti di un intero pianeta
ma in esilio ancora nell’emisfero
senza sole, protesi alla terra sepolta
ci attende e illune come i monumenti
di Atlantide. Così la vanga che altri
lasciarono, altri riprendono con laica
speranza che una generazione infine
segni il possesso di tutto il sole
possibile.Ma si fa tardi: la caffettiera
mi ha parlato tutta notte – al nostro
Jonio le vele dei pescatori tornerebbero
a quest’ora a portarmi il sonno e qui
i fiumi lentissimi risalgono
alla fonte, infinitamente rientrano
nella terra gli alberi e io mi preparo
alle mie dimissioni quotidiane.
Ho qui amici dai nomi semplici, simili
al mio e al tuo, ma altri ne ebbero
fantastici; nomi coi quali non se stessi
chiamarono, ma grandi speranze e nascosero
un grande coraggio; scontarono in quei nomi
pazienze troppo lunghe, la vergogna di tanti;
una primavera di dignità ebbero quei nomi…
E quando le paure caddero e sulle macerie
si spense il fumo, il volto delle case
riprese le vecchie fattezze, l’antico
delirio ripeté le sue bestemmie e parve
col tempo vanificata la speranza
e altro non esserci stato che quella
stagione aperta come le vene di altri
dai fantastici nomi. Ma la disperazione
è ancora una presenza – come a  Firenze
la «Galileo»: così la pioggia di dieci
inverni ha cancellato le epigrafi
perché la pietra pronunci più definitive
le parole perdute e la lettura del mondo
sia sempre più possibile. Perciò non possiamo
più aspettare le navi di Nemi uscir
per lago a cercare l’America, né possono
più bastare le parole, i muri di menzogna,
le statue fredde di pietra e per silenzio:
ho acceso fuochi anche d’estate, anche
di giorno ho acceso lumi, come il baco
ho secrèto dalla mia vita solo una prigione.
E se altre carte ho ora aggiunto alle carte
 - anche se per noi furono tutto –
è perché non sia muffa tutta la vita
e rosa dai tarli la mia cenere,
e voglio uscirne, aprimi un varco
fra le parole, affollate a ogni sguardo
le strade di oggetti, di personaggi,
di nemici, compromettermi col mondo,
impegnare il mio sangue e i passi
e l’aria bere che altri bevono e bevvero.

 
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