LETTERA AL FRATELLO Ti scrivo alla prima luna di novembre di questo millenovecentocinquantotto al colmo dei miei trent’anni: qui, dove ora abito, c’è una nebbia azzurra, pesante, solo le rane cantano e il sole è chiuso in una tomba di sonno, spento suggello di secca ceralacca medievale. Un vento leggero muove la nebbia, cancella i contorni delle case e fa di questa mia d’affitto un’isola che solo un vocìo confuso, là dove s’indovina il prato, lega a una continuità di terre, a una presenza di uomini che ora parla del prezzo della legna che sfuma nelle stufe. Ti scrivo e sono qui immerso fra carte e libri, vi soffoco dentro: leggo nei giornali una geografia di bufere, dicono di croci segnate dietro l’orecchio e di peli di gatto nero passati sulla fronte di moribondi isolati; dicono di vigne bruciate dal gelo nella «bassa», di muri di ghiaccio, di valanghe; dicono che a oriente gioca la sua danza il napalm, che nei perimetri atomici, sotto la cenere nuova, nella nuova geografia del Pacifico, seminano il pane. (Ignorano che fra il tritume dei coralli, negli atolli atomizzati, più villoso nereggia il frumento; che il sottosuolo coloniale segna sismi dove scarpe chiodate affondarono secoli di orme; che i popoli nuovi scrivono libertà coi meridiani). Leggo che sul deserto piove sale e le bianche mascelle d’asino sono tappe alle oasi e segnano la via dei palmizi dietro gli ossari, le sfingi e le dune d’oro. Dicono che i pastori smettono di piantar tende per trivellare pozzi con l’acciaio blu; che l’ancora dei mercanti imputridisce dove le navi armarono il coro degli schiavi. Dicono anche i giornali che a Melika Khene «gli arcangeli dellira» hanno bruciato il sesso, non la coscienza. E ad occidente un altro impero frana sulle miniere dissanguate, ma i sussulti sulle Alpi non scuotono il letargo dei suicidi. La storia spezza i suoi sigilli e per tutti la speranza s’apre, l’entusiasmo si accende di ridare la malva e l’alga al palombaro, ai figli sorriso e pane, e il frutto del campo al contadino e non più i monili dissepolti a una Cleopatra d’occidente. E’ il vecchio discorso sempre interrotto e sempre fra noi ripreso, la parola ha mani e anche il colore è gesto, canzone torbida è l’acqua che battezza il sesso alle ricurve mondine e pianto agli occhi delle case, nel Polesine dai periodici ritorni. Vidi persiane verdi a Prato ove un’antica religione insegna una pietà che distrugge; a Pianòro vidi mura vaiolate di mitraglia, e l’acqua sale ancòra a neve e sale il prezzo dei biglietti per una carità di soccorsi senza piedi. Non meravigliarti dunque se Peachum sceglie il monopolio della compassione, se prende in appalto le elemosine e fa un’industria della carità: non chiedermi perché il corvo è nero. Alcuni si sdraiano sulle trazzere di Partitico, altri altro privilegio non ebbero che di sbagliare – e il rancore onde la pelle è terra, patria e calce: così le braccia che furono ruota, canòa. trivella, tornio e ali (le braccia che sono oro e pane) spesso valgono appena un ridicolo peso di piombo omicida. Leggo, e anfratti improvvisi tagliano il mio sangue plebeo intriso di polvere e sudore: fra fame e fame s’interruppe nel tempo, nel sale del pianto, il corso pigro del nostro sangue plebeo: ricorda i pomeriggi arroventati della nostra infanzia cariata, al cielo che si apriva di spari e di guerra, quando il mare bruciava ad Augusta come petrolio, noi s’inseguiva con lunghe pertiche i pipistrelli per crocifiggerli ai muri e all’odore di calce viva di calce spenta li bruciavamo neri e innocenti – perché spesso il colore è da solo un’imputazione, è condanna, se a Faubus sono indifferenti le distinzioni fra bestia e uomo; ricorda la nostra casa silente, l’ombrello a riparare il letto dalla pioggia, gli scarafaggi brulicanti nella fumosa cucina fra travi che la tela del ragno lega; e l’altra luna sulla soglia e le nenie dei carrettieri e la lucerna che dondola infinita nella piana di Catania. Ora i miei figli sanno che il ferro è la luna e l’abitano i cani; i draghi delle loro favole stanno a guardia di tesori affondati negli spazi astrali e hanno i nomi scientifici di leggi fisiche contro le quali su razzi di fuoco combattono uomini caparbi, gli alberi che essi conoscono metallici crescono e senza frutto solo sui tetti, come antenne, e il loro grillo parlante gracida col nero ventre del telefono appeso al muro: ma ignorano che cani e generali non si confessano mai abbastanza e contano su di noi perché lo sceriffo arrivi puntuale e quando rossa ride sui banchi l’anguria spensierati vi incidono la giocosa sete. Ma la nebbia si gonfia, si fa fumo, cresce in flora incredibile a costruire case assurde dalle oscillanti finestre, senza fondo: strana forma che il mondo a volte assume e ci rende stranieri in terra, abitanti di un intero pianeta ma in esilio ancora nell’emisfero senza sole, protesi alla terra sepolta ci attende e illune come i monumenti di Atlantide. Così la vanga che altri lasciarono, altri riprendono con laica speranza che una generazione infine segni il possesso di tutto il sole possibile.Ma si fa tardi: la caffettiera mi ha parlato tutta notte – al nostro Jonio le vele dei pescatori tornerebbero a quest’ora a portarmi il sonno e qui i fiumi lentissimi risalgono alla fonte, infinitamente rientrano nella terra gli alberi e io mi preparo alle mie dimissioni quotidiane. Ho qui amici dai nomi semplici, simili al mio e al tuo, ma altri ne ebbero fantastici; nomi coi quali non se stessi chiamarono, ma grandi speranze e nascosero un grande coraggio; scontarono in quei nomi pazienze troppo lunghe, la vergogna di tanti; una primavera di dignità ebbero quei nomi… E quando le paure caddero e sulle macerie si spense il fumo, il volto delle case riprese le vecchie fattezze, l’antico delirio ripeté le sue bestemmie e parve col tempo vanificata la speranza e altro non esserci stato che quella stagione aperta come le vene di altri dai fantastici nomi. Ma la disperazione è ancora una presenza – come a Firenze la «Galileo»: così la pioggia di dieci inverni ha cancellato le epigrafi perché la pietra pronunci più definitive le parole perdute e la lettura del mondo sia sempre più possibile. Perciò non possiamo più aspettare le navi di Nemi uscir per lago a cercare l’America, né possono più bastare le parole, i muri di menzogna, le statue fredde di pietra e per silenzio: ho acceso fuochi anche d’estate, anche di giorno ho acceso lumi, come il baco ho secrèto dalla mia vita solo una prigione. E se altre carte ho ora aggiunto alle carte - anche se per noi furono tutto – è perché non sia muffa tutta la vita e rosa dai tarli la mia cenere, e voglio uscirne, aprimi un varco fra le parole, affollate a ogni sguardo le strade di oggetti, di personaggi, di nemici, compromettermi col mondo, impegnare il mio sangue e i passi e l’aria bere che altri bevono e bevvero.
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