Corrado Calabrò, Una Vita per il suo verso, Poesie (1960 – 2002), Milano, Mondadori, 2007* Il mare immanente di Calabrò
«Sono nato sulla riva del mare; certi autunni le mareggiate giungevano fino alla soglia della nostra casa ai bordi della spiaggia. Per me è difficile capire come qualcuno possa non nuotare, così come non ci passa per la mente che uno non sappia camminare». Più che ogni cosciente dichiarazione di poetica, oltre ogni raffinato gioco verbale della critica più scaltrita, valore definitorio della poesia di Corrado Calabrò possiede l’incipit dell’Attesa del mancante, premessa dell’autore, esplicitamente comunicativa e programmatica, alla collezione delle prove liriche più significative di un quarantennio di atttività letteraria. Risulta infatti immediatamente isolato il leitmotiv primario del libro, il mare, verso il quale confluiscono, armonicamente rifusi da sapienti costruzioni di forma, poli tematici altri, tutti correlati dalla macrometafora dell’infinita acqua. «Seguivo con lo sguardo le navi che, lasciato lo Stretto, rimpicciolivano sempre più fino a venire inglobate nella distesa liquida.[…]Avrei voluto seguirle a nuoto o in barca a vela spingendomi fino alla soglia che segna il limitare a un nuovo giorno». Dunque anzitutto viaggio e intenzione di viaggio, il mare di Calabrò, stato naturalmente mobile, condizione indefinitamente cangiante dell’anima, che si popola di un repertorio fittissimo di oggetti poetici, di figure del mito sospese nella loro eterna verità, di immagini icasticamente rappresentative di realtà esterne ed intime al cuore. Perché la natura di Calabrò interagisce con l’io lirico, ne è parte, grazie pure ad una antropizzazione degli enti fisici, cui è funzionale l’assidua aggettivazione (valgano esemplificatrici espressioni quali «la lunga pazienza del mare», «il regolare respiro del mare», «la fronte di vergine aliena» della luna, «il mare risucchia il suo sonno», «E tutto il cielo sento allontanato,/per sua natura avido e intento»). Nella forza semantica degli aggettivi, in massima parte deverbativi, dunque attivamente agenti, indicanti l’azione della natura umanizzata, la prima peculiarità dello specifico poetico dell’autore, che, in virtù di una pregevole sensibilità descrittiva, disegna, nello spazio breve del frammento come nella strofe lunga e narrativa, immaginifici pannelli paesaggistici, naturali e dello spirito. «Il mare a quest’ora secerne/elaborate correnti,/più calde, più amare di sale./A chiazze quaglia la luce/nell’arsura rifratta/del mare assopito,/spolverato di canfora/e confetti indorati/raggrumato all’intorno, gorgogliando,/in zolle farinose/brulicanti di pulci di mare.[…]Disossato, sento/nel dormiveglia la bava del mare/avventarsi ansimante all’arena/ai miei piedi e poi sgusciare/via riversata lungo il lido». Il rapporto simbiotico uomo-natura si spinge fino all’assimilazione dei due termini, specie quando il verso abbraccia l’altro grande nucleo concettuale della poesia di Calabrò, l’amore, che percorre quale tema centrale o trasversale l’intero percorso, come si evince dalla regolare allocuzione diretta ad una interlocutrice del discorso poetico. Dalla gamma integra delle facce del sentimento, specie nei ripetuti malinconici distacchi, affiora il senso frequente della complessità degli scambi interpersonali, mentre, in filigrana, traluce l’urgente denuncia dell’usura implacabile di passioni prima titaniche. «Io non so com’è stato:/senza volerlo, inavvertitamente/abbiamo stemperato/quasi fino allo spasimo la voglia./E ormai/è come se tra noi/fosse interposto un vetro/che disseziona il tuo dal mio respiro». È il motivo classico del tempus fugit, congiunto alla percezione moderna della precarietà del rapporto umano; spie nette ne sono le brucianti relazioni ossimoriche, impiantate anche entro il limite corto del sintagma («quieta amorosa insofferenza»), o del componimento epigrammatico, che consta anche di un unico endecasillabo: «La penuria di te mi affolla l’anima» (Ressa), la cui assolutezza rimanda all’ungarettiana poeticissima definitività. La volontà di problematizzazione del reale si coglie del resto fin dal titolo escogitato alla silloge mondadoriana, Una vita per il suo verso, che rivela, nella sua ipersemanticità, l’assenza di una lettura univoca dei propri universi lirici. Assecondare il verso delle contingenze della vita, viverla finalizzandola all’arte, considerarla nell’accezione poetica dell’esistere: tutti sensi complementari in seno all’itinerario sostanzialmente unitario di Calabrò. Volendovi rintracciare, a dispetto della fondamentale continuità tematica, evoluzioni interne, si noterà certamente, tra il primo e l’ultimo ventennio, uno spostamento dall’autobiografismo alla misura universale dei contenuti cari al poeta. Dall’andamento affabulante, dal racconto delle avventure del proprio spirito, dall’animismo, dal senso panico di una natura che allude al soggetto, Calabrò si evolve verso la dimensione più squisitamente gnomica, che approda puntualmente alla sentenza esistenziale. Si definisce con una una maggiore consapevolezza logica anche il macrotema del mare, rivissuto ora quale luogo ideale, astratto e metastorico, dove presente e passato si livellano. Si assiste ad una amplificazione della metafora; alla «vita/dalla sopravvivenza sorpassata», dove la figura etimologica nascondeva il senso di scacco, subentra il calcolo razionale del rischio insito nel viaggio epico dell’esistenza e dell’amore, e insieme lo slancio propositivo, la sfida strenua allo stesso avvincente mare, poiché «È una scommessa tutta da giocare/fino alla sua estrema inconseguenza./La cosa più penosa è far le mosse/sulla battigia, invece di nuotare». Acuitasi l’insofferenza del confine, la dialettica fuga-nóstos si risolve più nettamente nell’ansia tracotante di mare aperto, nella nostalgia del miraggio. Mutano anche gli scenari sociali e temporali, e alla natura onnipresente si affiancano, nei versi più recenti, motorini, garage, autobus, fattori anche linguistici di evoluzione, partecipanti dunque all’indefessa ricerca stilistica di Calabrò. Per tale via il poeta giunge ad attingere ad un regesto lessicale amplissimo, traboccante di preziosismi e comprensivo dei vari linguaggi settoriali, dell’informatica, della medicina, perfino della navigazione e dei formulari mediatici. Illeso il tono dell’ironia, che investe l’intreccio di vita, amore e mare, come si coglie in Se non sei tu l’amore, in cui il poeta afferma sottilmente il sentimento attraverso la sua stessa negazione, apostrofando la figura femminile «angelo scanzonato, incauto e beffardo». E perdurante la cura quasi barocca delle strutture metriche, con l’impiego delle misure esatte, antiche e contemporanee, e degli artifici retorici, con la insistita ricerca di fonici effetti nelle mille riprese allitteranti, nelle anafore, come nel gioco delle figure di pensiero (emblematica Cavillature), nelle meravigliose metafore naturalistiche o amorose che cantano la «marea refluente della tua tenerezza». Evidentemente ricettivo delle più variegate risonanze letterarie, dalla classicità greca e latina alla tradizione italiana (come non riandare al foscoliano mare amniotico?) ed europea tutta, il dettato di Calabrò si mantiene sicuramente interno alle coordinate formali della poesia novecentesca. Ad esiti soventemente espressionistici conduce il sostrato linguistico di matrice ermetica, che non compromette però la comunicatività sintattica dell’enunciato, grazie anche alla predilezione della similitudine sull’analogia e sulla pur frequente metafora. Ma non nell’abilità indiscussa dell’artificio illusionistico formale, non nella discussa collocazione di Calabrò nella mediterraneità lirica, va cercato il pregio di Una vita per il suo verso. Suona nitido nel timbro personalissimo di chi ha attinto al mito e alla storia per ricreare una favola nuova della vita e dell’arte. Elisa Mandarà *Una recensione di Elisa Mandarà alla silloge di Calabrò è già apparsa, in una versione differente, non integrale, sulla pagina culturale del quotidiano “La Sicilia”.
|