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STEFANO VILARDO

 

CATTEDRALI


I

Pietra e cemento. Roccia,
solido granito. Cumuli e cumuli
di macigni, aspri, grevi
anche alla memoria più attenta.
Crepe che diramano in vene d’acqua.
Laghi.
Si aprono caverne primigenie,
sontuose come regge
alte
come ardite cattedrali gotiche.
Colonnati, cupole, antichi
stillicidi, concrezioni calcaree,
cristalli, orridi abissi
insondabili
come occhi puri di fanciulla.

Chi cerca? Chi prega? Chi
ottusamente implora tra queste plaghe
deolate dal vento, tra questo
roveto d’immagini simboli segni,
palinsesti corrosi dal tempo, codici
indecifrati e indecifrabili?
Chi
con querula voce pretende
risposte che nessuno possiede
certezze impossibili sogni?
Il dubbio
che tesse altri dubbi, che scava
e sconvolge è la nostra sola certezza.
Il dubbio che affascina e abbacina
che ricrea e distrugge ancora
risibili inganni, altri
più futili ancora, ancora più amari,
in una rincorsa sfrenata
che sempre ci umilia
e ci lascia più arido il cuore.

II

Picco pietra cemento. Roccia
che dirupa su mari di fragile vetro.
Nebbie che avvolgono mattini
odorosi di timi nepitelle e origani.
Umidi voli di leggere gazze,
perlacei sopori, soffusi lucori
che ingemmano felci e pruni
e pini e gli eucalipti alieni.
Affardella il vento o srotola
soffici tappeti giallo-oro
fuoco di tramonti.
Infuria
con voce d’uomo
irrompe
per gole scoscese, per dirupi
che frangono vecchi equilibri,
enimmi di statica burbanza.
Forse è la roccia che si incrina
alla furia dei venti e delle piogge
a creare fantasmi alla memoria.

Forse è la vita stessa
che declina immagini e sogni
e desideri in promiscua attesa.
Forse è il dolore, la gioia,
la paura o l’orrore per l’inconoscibile,
che ci sospinge, come uccelli
di passo a miti cieli,
in cerca d’equilibri più sicuri,
di zone chiare, di gioiosi annunci.

 

 IL MARE É IL MARE


Il mare è il mare, così
i prati gli alberi le foglie
e queste nubi che svenano
tramonti, altri, lontani,
riboccanti di luce, di antichi
odori, di semi alati,
arcobaleni alti, inverecondi.

Tessono tenaci ragnatele
i ricordi, i rossi accesi
come ferite infette,
gli ocra maliziosi,
i casti azzurri e i verdi
e i rosa e i grigi. L’infinita
varietà dei grigi:
gravidi di tempeste
o di perlacei stupori,
albe dorate, attente
alle flebili voci
che vibrano nell’aria
e danno vita alla vita.

E gridi di calandre,
il pigolio sommesso delle pernici,
lo zirlo dei tordi, il tubare
indiscreto delle tortore,
il vanitoso schiamazzare delle gazze
dal becco forte,
avido di putride carogne.

Si alzano nebbie, gonfie,
mollicce come umidi veli
appena sciolti dai venti
che si rincorrono allegri
sulle tenere ariste.
I mandorli inquieti.
Il carrubo altero
che dà riparo ed ombre.

Il mare è il mare, così
i prati gli alberi le foglie…
ed io
otra cosa no soy
que esas imàgenes
.



 

 
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