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FIORE TORRISI

 

(Da una cronaca)


Presenze non determinabili,
oggetti d’uso impossibile,
paziente circuito d’un satellite, corrotto
l’interno dei momenti,, tutto va a sgranarsi,
pensiamo a noi stessi, saremmo già sconfitti
nel vuoto, deformati, come una bottiglia
investita dal vento micidiale,
piastra annientata sul muro di una roccia
una macchina per scrivere
o una porta disossata stampò la sua essenza
nell’universo, via gli occhi, via la mano,
informe ombelico nero, il sesso vermicolato,
e tutto depone nell’aria come un suono
che non ha corde, come una zattera
che non ha legami, disseminata sulle onde,
istante e immagine turpe di anime che furono
e sono schianto, che non furono, che sono
spie d’una strage che urla il suo terrore,
via il mento e le mascelle, via i diti, il segno del ginocchio,
via l’osso navicolare, la testa del femore,
via il desiderio, l’insegna della comunicazione,
l’identità del verbo, la speranza.


(I complessi)


Avrò giorni come questi, e bruciori di stomaco,
e un trotto di ronzini di là dai vetri,
e un perpetuo anfanare di motori
sul sovrappasso, e la sera un calare fulmineo
e  lacerante di saracinesche.
O avrò una grande casa silenziosa
con i dipinti di Holbein?
Biblioteca, soffitto, attizzatoio,
e un’armatura carolingia, una clessidra antica,
un giardino coi bersò, e muffe verdi
di leoni smorzati. Avrò una dormeuse.
Avrò una moglie, dei figli, una madre. Ed avrò un padre.
Mi uncinerà le carni il suo rimprovero,
lo schiocco tagliente sullo stivale di cuoio
del suo frustino di cavalcatore.


(I gatti)


L’amore dei gatti cominciava ogni giorno
sulle tegole rotte irsute di muschio nero,
un lungo miagolare, un litigio a sbuffi e a graffi,
poi la corsa del maschio, il morso fermo sulla nuca,
e quell’arrampicarsi senza arrivare mai.
Bambino, morivo dal freddo, ma volevo capire
fino a che punto il messaggio era violenza
e la violenza irriducibile capriccio.


(Ritorno in città)


Sento l’anulare rodermi,
più volte mi sono stropicciato chiedendomi il perché.
La verità è che incaglio le mie dita
nelle fessure dei palazzi sbocconcellati.
Sento l’aria peciosa nelle nari,
il vento arsiccio e unto delle macchine,
mi ritorna l’ansia del rifiuto,
quella che è sui muri pustolosi
delle case già vecchie in pochi anni.
Per un istante rivivo la smania per un volto di donna
quasi in attesa dietro i vetri. Ma poi
questo misero verde ammuffito
e il colore atroce delle serrande
mi dicono che l’io nella città
è un pezzo di bottiglia a perdere in un acervo
di cosche annerite di carciofi.

 


Non so sognare, questa è la verità.
Cosa tanto facile quando era per nulla.
Resto sorpreso a guardare le tue fughe segrete
e uccido più le mie; resto di qua del farnetico,
di qua delle nubi rosate, di qua dell’antica siepe,
e non so dirti “fai bene”. Ma va bene
ciò che sai fare in una frana d’ingombri,
la tua libertà in un anglo di tetri capitoli,
la tua scioltezza tra fili roventi, incombenti.
Ti guardo sorpreso. Tu dici che sono
l’uccello del malaugurio.


(Il probando)


Ti ero vicino, lo sapevi,
appena due passi ne frusto corridoio,
scostavo la porta, eri là, potevo toccarti.
L’odore sfatto della zucca gialla
penetrava in me dal refettorio tetro
nella tua casa tiepida di cera.
Anche a me avevi dato, (controvoglia,
penso) uno scapolare con un rosso
cuore dipinto a gocce che inchiodava
il mio cuore infedele, quello vero,
al tuo sguardo di legno fiordaliso.
Ero così vicino, le ferite
delle mani nervili erano secche
come roventi. L’apostolo incredulo
le aveva toccate con un dito,
e anch’io potevo farlo perché ti ero
così vicino, ma tu lo sapevi,
ero della bassura,
ero di questo mondo senza requie.

 
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