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MIMI KHALVATI

 

 

NOSTALGIA

  

E’ una notte buona per la nostalgia, disse lui.

Sentivo che qualcosa mi mancava, un’eco di notti

che dobbiamo aver condiviso in

vicoli diversi, una casa lontana

 

a cui la pioggia lo fece ritornare, o le nuvole,

o quella luce particolare che vien dopo la pioggia.

Avevo nostalgia di parole, le ultime parole

di una poesia che leggevo sul treno.

 

Oggi è mancata la luce. Ho acceso

tre candele, mangiato agnello e letto

a lume di candela. La bellezza di tutto ciò

era troppo solitaria e così mi sono coricata.

 

Poi ha piovuto. Nel buio alla luce del giorno.

Sono rimasta a letto finché  non ho sentito

uno scatto e delle voci. Quando la luce è tornata

è stato come un gioco di prestigio -

 

eccole là le creature animate

della mia vita che avevo ritenuto

oggetti inanimati. Ed io ero quella evocata

dal loro sogno di un pianeta oscuro.

   

SCRIVENDO A CASA

  

Per quanto indietro io vada con la memoria, ‘casa’

suonava come un alone vuoto. Non svuotato, ma visibile

come un luogo cerchiato su una mappa, monocolore

in un disco bianco. Tutt’attorno le solite

in un disco bianco. Tutt’attorno le solite

siepi d’alloro, il crinale, il ponte, il campo di

hockey. Da un lato, il melo selvatico con il suo

sedile tutt’attorno, il cui nome mi disorientava, il che

non sorprendeva, visto che tutti tranne me

sembravano capire cose come questa, dare per scontato che

le ‘mele’ non si possono mangiare e il ‘selvatico’* si possa piantare.

 

Scrivere a casa significava scrivere dentro quel cerchio, soprattutto

alla Mamma. Mamma aveva una pelliccia bianca

e in questa incorniciato il suo volto appariva stanco e spettrale.

Sto benissimo, sono contenta, scrivevo,

e lo pensavo veramente. Cogliendo in qualche punto di quella cornice

 

un volto troppo distante, troppo perduto, per preoccuparsene.

E perché preoccuparsi? La preoccupazione, come la vergogna,

dovrebbe stare a capo chino dentro i sogni. Scusa scusa scusa

non posso scrivere più ciaociao con affetto Mimi

scrivevo a Mamma dopo solo quattro righe.

 

Non c’è alcuna ironia in tutto questo. Avevo sei anni.

Fin dall’inizio, casa era uno spazio vuoto a cui inviavo

parole. Tracciata la mappa del mio mondo, cercavo

di fissarne i significati. Non per me, ma per segnare

i punti salienti che qualcuno potesse seguire: le Coccinelle, il Giorno

 

della Rimembranza, i film, un incontro di hockey tra i papà,

                                                          [una commedia intitolata

Scarpette fatate, le scampagnate, le esercitazioni antincendio, le nuotate.

Persino la morte di un re. Quando il mio compleanno?

Scrivevo al tempo stesso, tralasciando il verbo ‘è’,

troppo fiera del punto interrogativo da poco imparato, per notarlo.

 

Mia madre conservò tutte le mie lettere per dieci anni

e poi me le ridiede. Forse mai la toccarono,

erano indirizzare alle mie orecchie solamente

perché allora io non la conoscevo o mai le chiesi se

ci capiva qualcosa, se i miei accenni

al piccolo mondo di una scuola femminile in Inghilterra

avessero un qualche significato. Erano gli anni cinquanta. Suez,

 

Mossadegh, cardigan bianchi, sandali Clark. E,

sotto il melo selvatico, mettendo radici,

parole in una bocca aggricciata da un frutto aspro e selvaggio.

 

 

    

 

 

* Melo selvatico è in inglese espresso da sostantivo composto crab apple (crab=granchio; apple=mela): da qui il gioco di parole sulla difficoltà di piantare un crab ovvero un granchio.

 
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