ANGELO SCANDURRA |
CANNETO Il vento essicca la gola alla notte rompe l’ala al fringuello, parla ancora di lei. La gabbia stringe ancora lo sguardo ha pareti bucate di ossa; verrà l’allegria. Nel sonno sentirai ruote falciare serpenti, parole strozzarsi nell’attimo. Ma sarai lì, dove il mare non ha più confini, a gridare ti amo. Urlerai la cosciente follia che non è novembre, non è campagna di sogni: è tempo. Tempo di ansie bruciate nei fienili tempo di voli avvinti al ruscello. Ami il tuo fascio di luce. Non hai più un quadrato di stelle. Il profeta urlante nel petto non ha più parole di fuoco. Lei, senza vestiti, è rimasta al di là del canneto; bisognerà aspettare l’autunno per coprire il corpo di foglie. La farfalla ha tinto di sangue il raggio che colpì nidi di merli. E ancora la mano di lei, con venature di sole che sapevano tutto, con nodi di pianto tolti alle aurore. Amerai fino a notte inoltrata. Il gufo canta e tocca un tempo di cose passate; nell’impatto muore ogni uomo. Non potrà rattrappire la mano che sfiorò il corpo, non potrà gelarsi la bocca che parlò di sospiri, non potrà bagnarsi lo sguardo che infuocò un’esistenza; soffocherai il sole che fionda nel mare con la gelosia d’amante, con la forza d’uomo innamorato. E sarà tempo di cenere. Ruoteranno le stagioni. Ma sarai sempre lì, dove il mare non ha più confini. La mano alta verso il cielo, aspettando l’autunno battere nel canneto. Dinosauro Il dinosauro viene ogni notte dai laghi fino alla rupe col corpo di carne cruda con urla taglienti; non c’è palmo di cielo senza stelle putrefatte, non c’è ala di vento per frenare il brontolio dell’onda. E piango per te, fratello, che non hai la speranza della morte. Anche il volto di lei non ha più il raggio dell’ignoto: è catena di sangue nel cuore del mattino. C’illuderemmo che un abbraccio avrebbe infranto il presentimento; la pupilla strozzata, prigioniera nell’arcobaleno del rimpianto non s’illuminò di nuova vita. Il corpo di stagioni assolate ebbe risvolti ritrovati nelle vene con sguardi sperduti, con visi induriti dall’attesa, senza il tempo di un bacio, di una parola, per consacrare un grido di vittoria. Sì, noi, sempre e ancora noi, bocche accecate di verità, corse di cavalli nelle gambe; e poi loro, sempre loro e ancora loro, e poi gli altri, sempre gli altri e ancora gli altri. Ma vivrai fratello, fino a quando carni avranno battiti di cuore. Sai, sulla collina è rifiorita l’acetosella, il passero è morto avvelenato. Vedessi il viso di Adriana: anche lei, sperduta, accecata; e corre, corre, la gonna sulle ginocchia il seno traballante, mi si stringe al petto e piange; anche lei senza morte. Ho paura fratello, il dissolversi delle parvenze rovina la vita prima dell’addio, e piango per noi, per tutti quelli come noi, che non avranno mai una morte.
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