"NEL LUOGO DELLE TAVOLE" DI GIOVANNI OCCHIPINTI |
di Giovanni Occhipinti
Una voce recitante accompagnava le danze su musica di scuola debussyana. Schierate sul palco, fanciulle alte e sottili, perfettamente classiche e in piena osservanza e armonia col rapporto tra i corpi e lo spazio fisico. La più bella delle danzatrici al centro, nel ruolo di Chrisia. Appare e dispare, dolce sensuale complice altera infelice sfuggente. Possiede una perfetta gestualità plastica, così che l’azione figurata rende bene emozioni e sentimenti del personaggio rappresentato. Pane, dio del vento d’estate tremano al tuo cospetto le ombre tonde degli ulivi. A te voglio dedicare canti pastorali come nei boschi della Panfilia, sulle rive del Melas e sulle sponde dei laghi e sulle alture del Tauro. Sposto insieme a Selenide la cesta dei fiori e l’anfora del latte. Ora ella caccia le cicale e coglie fiori e immerge mani e volto nell’acqua del ruscello poi corre a sdraiarsi sull’erba e socchiude gli occhi. Le labbra carnose si aprono lievemente al vento. Con lei intonerò canti pastorali, dio del vento d’estate, Pane. I piedi nudi calzano la polvere. Selenide, lavami i piedi alla sor-gente e profumali di viole con le tue calde mani. Se verrai con me ti donerò sandali d’argento e camicie dorate e gioielli. Usci-remo la notte a lume di luna, slaccerò per te il duplice nodo che chiude la mia cintura. Sempre mia madre mi diceva di non ascoltare le parole dei giovani e che è meglio giocare con le vergini e con loro intrecciare danze d’amore, anche se aggiungeva che prima o poi, una sera, qualcuno sarebbe venuto a prendermi sulla soglia di casa, con un corteo di timpani sonori e flauti amoro-si... Una volta fui incantata da un albero alto e frondoso e io mi ar-rampicai sul suo tronco, nuda, e scivolando sulla corteccia liscia e bagnata, strusciavo con i sandali i rami che si flettevano ed emettevano suoni di dolore e insieme di piacere. Avvolta nell’ombra delle foglie, celata dai folti rami ho lasciato penzolare i piedi. L’albero, vivo, godeva alle carezze del vento che ne penetrava le chiome e il vento vorticante ancora tornava ai rami e li infilava sbattendole con le sue folate. Gocciole d’acqua per la pioggia della notte, dapprima ristagnate sulle foglie, ora sci-volano e sul mio corpo e sulle guance sono lunghe e impalpabili carezze. Io mi avvinghio a lui e sbianco nel volto e fremo. Premo le labbra sul velluto della sua corteccia... Antonio Maria de Rubeis non finiva tra sé e sé di apprezzare la coerenza stilistica della partitura e la poetica espressioni-stica intensamente rivissuta; andava rivalutando l’affresco di inevitabile fascino ampio e sfaccettato, soffermando l’attenzione sugli arpeggi a due mani tremanti da cui si libravano, con toccante invenzione melodica, trilli multipli a ricordare i suoni del bosco, degli antri, degli stagni, del vento, del fiume; ma anche i silenzi del cielo. I silenzi del cielo. Del cielo: le sue parole nascoste e lontane. Lontane, nel suono dell’arcano. Fuori cominciava a cadere una pioggia leggera e Fernande affrettando il passo, così da precedere Antonio Maria de Rubeis, rifletteva sul fatto che non sarebbe bastato tutto il Novecento per cancellare i tabù che affliggevano le figlie di Saffo. Alla sua mente affioravano gli affanni e i piaceri che avevano tormentato ed esaltato l’esistenza di Sidonie-Gabrielle Colette, la scrittrice che aveva conosciuto il piacere lesbico con la marchesa di Morny che Apollinaire aveva assolto dalla perversione definendola una “monella”. E insieme a lei, Fernande pensava anche ad Annie Vivanti, decadente chanteuse e poetessa che sarebbe piaciuta a d’Annunzio se non fosse stata l’amica di Carducci, al quale però nascondeva gli amori saffici. Soprattutto, Fernande si soffermava su un’altra donna infelice e godereccia. Che “monella” Gérard d’Houville, poetessa e sua amica di incontri occasionali. Qualche volta andò a trovarla in una camera appositamente arredata del suo bordello. Camuf-fava nello pseudonimo maschile la sua condizione di lesbienne. Per l’anagrafe era Marie Louse Antoinette e per la cronaca amica di d’Annunzio, anche se per poco: “Les lesbiennes pensava si accompagnano ai maschi che amano il boudoir sadomaso, ma sognano, naturalmente, incontri appassionati con altre lesbiennes”. Il passaggio dalle nuvole cupe del temporale al crepuscolo, non era stato avvertito dalla coppia. Poco distanti, indifferenti al clima rigido della sera, Julie o Juliette o Janette venne a piazzarsi sotto la luce fredda e misera di un lampione e amò lesbicamente e a lungo un cliente non più giovane. Sul tipo dell’androgino, Fernande ricorda l’aspetto della Fernande Olivier ritratta da Picasso al posto delle prostitute dei bordelli parigini. Ragazza eclettica, preferisce donarsi en plein air piuttosto che sentirsi marcire nell’atmosfera avvelenata e stantia di un bordello. E quando può, arrotonda prestando il suo corpo come modella o controfigura di modella. Per un certo tempo aveva condiviso, ma soltanto da comparsa, la vita bohémienne e dandy del povero Modì o Dedo, come qualche volta lo chiamava. In vena di confessione, diceva di non aver potuto tollerare, di lui, l’abitudine furiosa di possederla prima di ritrarla o, come precisava, di deporre il suo corpo sulla tela. Questa “manìa” del pittore, come la definiva Fernande, le dava un senso di irritazione e di fastidio: Aveva un forsennato bisogno di appropriarsi del corpo per immortalarne l’anima sulla tela.
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