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"NEL LUOGO DELLE TAVOLE" DI GIOVANNI OCCHIPINTI

di Giovanni Occhipinti

 


    Al Théâtre Michel di Parigi Fernande e Antonio Maria de Rubeis presero posto nelle poltrone riservate alla stampa. L’archeologo, come era stato convenuto con la direzione del teatro, avrebbe scritto un pezzo per “La Vie Parisienne”, periodico al quale collaborava solo negli eventi straordinari. E quella sera, rappresentare la vita e gli amori di Chrisia di Mitilene attraverso uno spettacolo di teatro-danza, messo su da notizie e documenti forniti dalle sue ricerche in collaborazione con Bertina, era davvero un grande evento che riportava alla luce della civiltà del Novecento aspetti della cultura e della vita della grecia arcaica.

    Una voce recitante accompagnava le danze su musica di scuola debussyana. Schierate sul palco, fanciulle alte e sottili, perfettamente classiche e in piena osservanza e armonia col rapporto tra i corpi e lo spazio fisico. La più bella delle danzatrici al centro, nel ruolo di Chrisia. Appare e dispare, dolce sensuale complice altera infelice sfuggente. Possiede una perfetta gestualità plastica, così che l’azione figurata rende bene emozioni e sentimenti del personaggio rappresentato.
    Antonio Maria de Rubeis non finiva di manifestare il proprio entusiasmo per la grazia flessuosa delle danzatrici e la vorticosità incalzante e frenetica tutta scosse e sussulti secondo il motivo ascendente e discendente del flauto di Pan. Proprio come nelle Baccanti dei vasi greci, dalla femminilità arcana e sensuale. Tenerezza crudeltà passione erano rappresentate tra simbolismo esoterico e purezza classica, insieme a un coinvolgente fascino esotico.
    D’accordo con Fernande, Antonio Maria de Rubeis notava una qualcerta malizia o puberale ingenuità di Chrisia nella in-terpretazione musicale dell’amplesso: per esempio, il ritmo incessante ostinato sincopato che accompagnava la concitata gestualità della danzatrice e, come per contagio, delle altre. Nello stesso tempo però si sentiva come inebriato da un oppio che rende pigri e voluttuosi i pensieri. Diceva di trovare apprezzabili l’esecuzione scenica recitata e mimata e il fascino sensuale dei recitativi; trovava anche bene articolata la partitura per due flauti, due arpe e celesta.
    Di Chrisia, o meglio della danzatrice nel ruolo di Chrisia, Antonio Maria de Rubeis avrebbe volentieri accarezzato il volto, ora solare ora intenso, ora forte cupo misterioso. Lo eccitavano certe situazioni erotiche da romanzo di Gustave Droz, sia pure nella tradizione sonora della Grecia e nello stile molto mediterraneo che non poteva assolutamente a suo dire rinunciare alla gestualità geometrica e dalle linee perfettamente greche.
    Insieme alla voce recitante, dal gruppo coreografico si levavano con levità nenie e canti primordiali.

    Pane, dio del vento d’estate tremano al tuo cospetto le ombre tonde degli ulivi. A te voglio dedicare canti pastorali come nei boschi della Panfilia, sulle rive del Melas e sulle sponde dei laghi e sulle alture del Tauro. Sposto insieme a Selenide la cesta dei fiori e l’anfora del latte. Ora ella caccia le cicale e coglie fiori e immerge mani e volto nell’acqua del ruscello poi corre a sdraiarsi sull’erba e socchiude gli occhi. Le labbra carnose si aprono lievemente al vento. Con lei intonerò canti pastorali, dio del vento d’estate, Pane.
    I lunghi capelli ci ricoprono se ci chiniamo a immergere le dita nell’acqua verde dello stagno e i seni sono simili a calici di ja-cinto. Lenti cerchi si dipartono allargandosi dalle cosce divarica-te. Ecco, le abbronzo al sole, sollevando la camicia di lana bian-ca, le mie solide cosce smaltate d’avorio.

    I piedi nudi calzano la polvere. Selenide, lavami i piedi alla sor-gente e profumali di viole con le tue calde mani. Se verrai con me ti donerò sandali d’argento e camicie dorate e gioielli. Usci-remo la notte a lume di luna, slaccerò per te il duplice nodo che chiude la mia cintura. Sempre mia madre mi diceva di non ascoltare le parole dei giovani e che è meglio giocare con le vergini e con loro intrecciare danze d’amore, anche se aggiungeva che prima o poi, una sera, qualcuno sarebbe venuto a prendermi sulla soglia di casa, con un corteo di timpani sonori e flauti amoro-si...

    Una volta fui incantata da un albero alto e frondoso e io mi ar-rampicai sul suo tronco, nuda, e scivolando sulla corteccia liscia e bagnata, strusciavo con i sandali i rami che si flettevano ed emettevano suoni di dolore e insieme di piacere. Avvolta nell’ombra delle foglie, celata dai folti rami ho lasciato penzolare i piedi. L’albero, vivo, godeva alle carezze del vento che ne penetrava le chiome e il vento vorticante ancora tornava ai rami e li infilava sbattendole con le sue folate. Gocciole d’acqua per la pioggia della notte, dapprima ristagnate sulle foglie, ora sci-volano e sul mio corpo e sulle guance sono lunghe e impalpabili carezze. Io mi avvinghio a lui e sbianco nel volto e fremo. Premo le labbra sul velluto della sua corteccia...

    Antonio Maria de Rubeis non finiva tra sé e sé di apprezzare la coerenza stilistica della partitura e la poetica espressioni-stica intensamente rivissuta; andava rivalutando l’affresco di inevitabile fascino ampio e sfaccettato, soffermando l’attenzione sugli arpeggi a due mani tremanti da cui si libravano, con toccante invenzione melodica, trilli multipli a ricordare i suoni del bosco, degli antri, degli stagni, del vento, del fiume; ma anche i silenzi del cielo. I silenzi del cielo. Del cielo: le sue parole nascoste e lontane. Lontane, nel suono dell’arcano.

    Fuori cominciava a cadere una pioggia leggera e Fernande affrettando il passo, così da precedere Antonio Maria de Rubeis, rifletteva sul fatto che non sarebbe bastato tutto il Novecento per cancellare i tabù che affliggevano le figlie di Saffo. Alla sua mente affioravano gli affanni e i piaceri che avevano tormentato ed esaltato l’esistenza di Sidonie-Gabrielle Colette, la scrittrice che aveva conosciuto il piacere lesbico con la marchesa di Morny che Apollinaire aveva assolto dalla perversione definendola una “monella”. E insieme a lei, Fernande pensava anche ad Annie Vivanti, decadente chanteuse e poetessa che sarebbe piaciuta a d’Annunzio se non fosse stata l’amica di Carducci, al quale però nascondeva gli amori saffici. Soprattutto, Fernande si soffermava su un’altra donna infelice e godereccia. Che “monella” Gérard d’Houville, poetessa e sua amica di incontri occasionali. Qualche volta andò a trovarla in una camera appositamente arredata del suo bordello. Camuf-fava nello pseudonimo maschile la sua condizione di lesbienne. Per l’anagrafe era Marie Louse Antoinette e per la cronaca amica di d’Annunzio, anche se per poco: “Les lesbiennes pensava si accompagnano ai maschi che amano il boudoir sadomaso, ma sognano, naturalmente, incontri appassionati con altre lesbiennes”.
    Ricordava di averne accennato in qualche occasione al suo illustre amico italiano, dopo che questi le aveva parlato della “scandalosa” Rina Faccio, meglio nota come Sibilla Aleramo. Probabilmente gliene aveva parlato  al solito Café des quatre vents, dove spesso trascorrevano il tempo tra caraffe stracolme di birra e vino, e dove ora si stavano recando.

    Il passaggio dalle nuvole cupe del temporale al crepuscolo, non era stato avvertito dalla coppia. Poco distanti, indifferenti al clima rigido della sera, Julie o Juliette o Janette venne a piazzarsi sotto la luce fredda e misera di un lampione e amò lesbicamente e a lungo un cliente non più giovane.
    Tante prostitute, e non solo loro si lasciò sfuggire Fernande come parlando a se stessa tradiscono la loro identità sessuale per sopravvivere. Accolgono il maschio ma pensano a un corpo di donna, loro, così abili nel gioco della seduzione ignorato dall’uomo.
    Maschiette dai capelli corti aggiunse l’amico, dandole un buffetto e sorridendole maliziosamente, con tanta finta joie de vivre, ma in verità desiderose di emanciparsi dalla cultura maschilista.

    Sul tipo dell’androgino, Fernande ricorda l’aspetto della Fernande Olivier ritratta da Picasso al posto delle prostitute dei bordelli parigini. Ragazza eclettica, preferisce donarsi en plein air piuttosto che sentirsi marcire nell’atmosfera avvelenata e stantia di un bordello. E quando può, arrotonda prestando il suo corpo come modella o controfigura di modella. Per un certo tempo aveva condiviso, ma soltanto da comparsa, la vita bohémienne e dandy del povero Modì o Dedo, come qualche volta lo chiamava. In vena di confessione, diceva di non aver potuto tollerare, di lui, l’abitudine furiosa di possederla prima di ritrarla o, come precisava, di deporre il suo corpo sulla tela. Questa “manìa” del pittore, come la definiva Fernande, le dava un senso di irritazione e di fastidio: Aveva un forsennato bisogno di appropriarsi del corpo per immortalarne l’anima sulla tela.
    Ella amava qualche volta confidare questi particolari ad Antonio Maria de Rubeis, tracciando un ritratto squallido della vita di Modì: Un uomo finito e maledetto, logorato dalla tisi, dall’alcol e dai debiti. Pagava i ristoranti in cambio di ritratti ai clienti; e abbassando la voce aggiungeva: Soprattutto i ristoranti nei pressi di Boulevard Montparnasse.
    In vena di confessioni non nascondeva fatti che invece sarebbe stato bene lasciare segreti, come l’esperienza vissuta con lui del piacere e dell’oblio da alcol e da hascisc: Un infelice rappresentante affermava della Bohéme di Montmartre; ma era splendido aggiungeva subito dopo se rimaneva sobrio e si dedicava alla lettura delle poesie di Baudelaire e di Rimbaud. Ma finiva sempre per concludere che Modigliani era “un peintre maudit, mais un artiste par excellence”.
    Fernande ritornava spesso su un episodio che l’aveva molto inorgoglita: quando dovette prestargli, nel 1908, alcuni particolari del proprio corpo per il tormentato e drammatico Nudo dolente: Tra noi però cambiò tutto disse con rammarico quando entrò nella sua vita la poetessa Anna Achmatova. Era il 1910. Me ne allontanai a poco a poco, ma con determinazione. Frenava la commozione e riprendeva: Seppi con molto ritardo della morte di Modì e del suicidio di Jeanne Hébuterne, la compagna che aveva diviso con lui miseria e disperazione.
 

 

 
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