spacer.png, 0 kB
spacer.png, 0 kB
LA LETTURA: UN VIZIO DA COLTIVARE - TESTO DI CARMELO PIRRERA

 


 Un vizio da coltivare: la lettura

Si dice  di un libro “edito” non perché è stato stampato, ma in quanto se ne discute. Parliamone, quindi, non di tutti che non basterebbe una vita, ma di alcuni coi quali siamo venuti a contatto.
Niente di più facile e di più scontato per uno che ne scrive che parlare di libri e parlare dei propri, ma è anche vero che niente è più difficile.
Eugenio Montale che era un gran furbo, quando lo invitavano a parlare dei propri libri rispondeva di non saperne nulla: “Sono soltanto l’autore”.
D’altra parte a parlare dei propri scritti si rischia di non essere creduti. Non verrà mai nessuno a dirci: “il mio libro è brutto, noioso, ve lo sconsiglio vivamente.” E sì che di libri noiosi, brutti e inutili ne circolano. Di recente mi sono imbattuto in un grosso libro (circa cinquecento pagine) - ***** - di cui la critica ne ha detto un gran bene: un capolavoro. Si trattava invece di un polpettone, una specie di foglietton con molto di scontato e ripetitivo,  non privo di qualche volgarità. Ma la gente, me compreso, legge quei libri di cui sente parlar bene e di questo capolavoro presunto e mancato ne aveva scritto bene persino il Corriere della Sera. Suo solo merito sarebbe che si vende, e a tale proposito viene in mente Victory Hugo il quale quando gli chiedevano: “maestro, come va il suo nuovo libro?” rispondeva: “male: si vende”.
Don Primo Mazzolari, sacerdote di chiaro impegno civile, molti libri li definiva “ingombri inutili”. Si tratta di punti di vista. A volte ci sembrano inutili quegli scritti che non si accordano ai nostri discorsi. E don Primo era uno scrittore antifascista noto per avere suscitato scandalo, in particolare,  con la sua opera intitolata Compagno Cristo. La “sua” categoria dell’inutile comprendeva, quindi, quei libri distanti dal suo impegno sociale e ideologico.
Libri-ingombro, può capitare di scriverne anche a buoni scrittori che in altre occasioni hanno fornito prova di sapere scrivere, di avere delle idee, capaci di un rapporto onesto con la pagina, e persino ad autori di best sellers, osannati dalla stampa. Renato Guttuso, un grande pittore, giunto al culmine della carriera si vantava: ”Oggi potrei sparare su una tavola e ci sarebbe gente disposta a comprarsela”. Ma Guttuso fu onesto e non sparò su una tavola come certi scrittori oggi fanno, attratti da una logica feroce che è la logica della bottega. “Vivi col tuo secolo, ma non esserne la creatura, dà agli altri quello di cui hanno bisogno e non quello che ti chiedono”: così ci avevano avvertito, ma non a tutti è dato di saper resistere. Perciò nacquero e nascono  opere effimere, sotto il segno della stella pidocchiosa della provvisorietà, destinate sin dalla nascita ad essere dimenticate. Per tornare a noi, lo scrittore che parla di un suo libro e ne parla bene è sempre in buona fede, è convinto della validità del suo lavoro al quale affida le sue ambizioni, la sua reputazione, e qualche volta speranze completamente estranee alla “scrittura”. Egli crede nel libro che ha scritto, altrimenti perché lo avrebbe scritto e poi pubblicato? Abbiamo avuto nel corso della Storia governi severi, a volte tirannici, ma mai, per quanto ne sappiamo,  alun principe,  presidente o monarca ha imposto ad alcuno di scrivere e pubblicare dei libri.
Belli, brutti, interessanti, noiosi, o di piacevole lettura, i libri esistono e testimoniano la nostra storia di uomini, e persino quella dei nostri limiti, ci collegano al nostro passato e ci proiettano verso le nostre speranze in modo che le singole avventure umane di cui la parola narra e testimonia si fondono nella storia e nella memoria dell’umanità. Ci schiudono orizzonti di conoscenza e non diciamo niente di nuovo affermando che conoscere è già un modo di possedere.
I libri esistono, e persino io che non sono Hemingway, ne ho scritti alcuni dei quali non vi parlerò per via di quanto premesso: ne direi soltanto il bene, parlerei dei premi ricevuti, degli elogi e dei miei molti lettori, cercando di mettere in ombra il buon Alessandro Manzoni, che di lettori, ne vantava soltanto venti-cinque.
In altri termini, metterei in vetrina la mia vanità di animale scrivente facendo di questa chiacchierata confidenziale un momento diverso, con la smania di protagonismo a tener banco, mentre  vorrei parlare della scrittura e sulla scrittura – ammesso che mi riesca.
Vorrei parlare della scrittura e di questo mestiere, il mestiere di scrivere, che non è facile e non s’impara mai compiutamente. Guai ad accontentarsi dei risultati: il libro migliore è quello che ancora si deve scrivere.
“C’è una certa misura di fatica in tutto ciò che scriviamo – osservava Natalia Ginzburg – ma è necessario che questa misura di fatica non sia mai superata. O meglio la fatica di quando scriviamo deve essere fatica naturale e felice, ma non deve essere mai la fatica triste e fredda del pensiero”. Qualcuno ha notato che, al di là della evoluzione delle forme e degli interessi, sono ben poche le cose scritte che non si potrebbe scrivere meglio. Molti esempi si possono citare anche se quello di Leone Tolstoj che, ritirate le bozze dalla tipografia, interviene pesantemente a modificare e riscrivere alcuni capitoli della sua Anna Karenina, rimane tra i più eclatanti.
Non stiamo parlando della insoddisfazione che spesso si accompagna all’opera di uno scrittore, quanto di un desiderio di perfezione. Personalmente ho sperimentato che spesso dopo tanto correggere, mutare, arricchire, sfoltire, limare si torna più o meno insoddisfatti alla forma originaria. Chi scrive – è stato detto – lo fa perché non s’accontenta dello spazio reale assegnatogli dalla vita, e cerca di allargare il suo mondo creando illusioni parallele.
 “Traduci tutto su scala cosmica, prendi il cuore tra i denti, scrivi un libro” suggeriva  Viktor Sklovskij, l’autore delle Lettere non d’amore. Ma le motivazioni di chi scrive sono tante e diverse.
Quando nell’Oriente c’erano ancora gran visir, sultani, odalische e ladroni (quelli ci saranno ancora e ben più di quaranta), c’era una certa Shahrazàde narratrice di favole. Questa Shahrazàde, avendo sposato un principe assai curioso, reduce di un infortunio coniugale, rischiava ogni notte di rimetterci la testa, poiché il principe usava, dopo una notte d’amore, tagliare la testa alla sfortunata compagna. Da qui la necessità per la sventurata di inventarsi e narrare storie e storie al suo signore, incuriosendolo  e convincendolo a lasciarla vivere sino alla prossima notte per raccontargli il seguito o il finale di una storia. E le storie non finivano mai.  Ciò per mille e una notte.
Se le fosse stato chiesto perché scriveva o perché raccontava avrebbe risposto che lo faceva per resistere, per guadagnarsi ancora un giorno di sole, per tenere lontana la morte. E questa, onestamente, ci pare una buona ragione. Anni fa Tuttolibri, il supplemento letterario de La Stampa, giocando con titoli e autori, ha proposto un referendum meno impegnativo ma ugualmente inutile di altri ai quali abbiamo partecipato, chiedendo ai suoi lettori di scegliere tra cinquanta romanzi del nostro Novecento, il romanzo preferito.
Tra i cinquanta autori chiamati a formare la “rosa” figuravano un buon cinquanta per cento di autori defunti, i quali, comunque andassero le cose, non si sarebbero scomposti: “Noi siamo gente seria, siamo morti” avrebbero detto con Totò.  Il rimanente cinquanta per cento, come è umano, ha invece trascorso un terribile febbraio, ché a febbraio avveniva quanto andiamo riferendo, prima di rendersi conto, coi primi di marzo, dell’ingratitudine dei lettori, o peggio, della loro incompetenza.
Il referendum chiedeva di indicare quale fosse il romanzo più importante, il più amato e il meno amato e ha avuto una larga partecipazione di elettori (oltre 21000). 
Ma il libro importante per eccellenza, a parere dei ventunomila votanti o della maggioranza di essi, risultò essere La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, proclamato dai lettori “Libro del secolo”.
Se facciamo un po’ la storia critica di questo libro, ci pare che la selezione nasconda o riveli il nostro senso di colpa. Infatti, sebbene il li bro fosse piaciuto a Joice, il quale lo loda in una sua lettera da Parigi, e l’autore avesse riscosso un certo successo presso taluni ambienti letterari francesi, la Fiera letteraria, nel riportare un articolo di  B. Crémieux prendeva prudentemente le distanze in un corsivo redazionale dove asseriva che “Nessun critico o letteato italiano avrebbe potuto scoprire in Italo Svevo i grandi meriti e quella straordinaria originalità che il Crémieux e i suoi amici francesi hanno riconosciuta alla lontana”. E, più polemico, Guido Piovene scriveva: “dal Crémieux che passa in Francia come un intenditore di cose italiane (non essendo intenditore di cose francesi) veniva annunciato come un grande scrittore Italo Svevo, commerciante triestino, scrittore di tre mediocri romanzi, valutato da noi secondo i suoi meriti, con una rispettosa indifferenza…”“Perché la fama arrivi non basta che lo scrittore la meriti. Ocorre il concorso di uno o più altri voleri che influiscano sugli inerti, quelli che poi leggono le cose che i primi hanno scelto. Una cosa un po’ ridicola, ma che non si può mutare”.
Quest’ultima malignità, opportunamente posta tra virgolette, non è nostra, l’abbiamo estrapolata da un racconto dello stesso Italo Svevo che prima di divenire “Autore del secolo” è stato un autore non amato, poco letto e maltrattato dai padroni della cultura i quali da sempre influiscono sugli inerti e fanno leggere ciò che a essi piace. Si scrivono ancora libri. Non passa giorno senza che ci venga annunciato un capolavoro. Gli amori e gli amorazzi dei potenti di turno offrono ampia materia di pettegolezzo; la politica e l’andazzo quotidiano, materia di scandalo.
Al di là di certa superficialità alla quale si è arreso il nostro tempo, ci è accaduto di scoprire in talune recenti stor ie che riflettono il mondo giovanile “turbamenti” ben lontani da quelli che caratterizzavano il mondo del musiliano giovane Thörless.
Una certa aridità, uno squallore e una disperazione solitaria e inconsolata contrassegnano pagine recenti, così distanti e così vicine alla Melencholia di Marsilio Ficino.
 “Di questi tempi, io, per così dire,  non so quello che voglio, forse neppure voglio quello che so e voglio quello che non so”, scriveva in una lettera l’umanista fiorentino, e il  frutto consapevole di una scontentezza rinascimentale, filtrata at-traverso secoli delusi, giunge a permeare  un linguaggio nuovo, brutale, e qualche volta scurrile, che fa quasi rimpiangere i falsi pudori e l’ipocrisia, che furono caratteri della scrittura del secolo appena trascorso.
Un nuovo lessico si è impadronito della malinconia. Forse nemmeno noi sappiamo quel che vogliamo o non vogliamo quello che abbiamo; i ritrovati di una tecnica superba più non ci danno l’illusione di un progresso che, invece, sembra ristagnare nella monotonia dei ricorsi storici; forse  abbiamo confusa coscienza di possedere strumenti immeritati, assieme al sospetto di non meritare il mondo o di non essere cresciuti abbastanza per un uso corretto delle sue risorse. Le ragioni della forza ancora e da sempre prevalgono sulla forza delle ragioni.
Scriviamo libri, ne leggiamo, ci illudiamo di possedere forme di civiltà perfette da esportare; millantiamo improbabili formule di democratica felicità, e siamo gli stessi che si affaccendano cercando di produrre non un pane più grande che sfami l’umanità, ma una bomba, un’altra bella bomba che la cancelli! 
Rosso di San Secondo, uno scrittore a torto dimenticato, ci ricorda in un suo lavoro teatrale – L’Ammiraglio degli oceani e delle anime - che Cristoforo Co-lombo all’annuncio del marinaio festante che dall’alto della coffa, avendola avvistata, gridava: – Terra! Terra! – rispondeva: – Nessun s’illuda, bisogna ancora navigare. Se la scrittura, come si sostiene, è uno specchio portato per strada, dove il mondo si riflette e se le immagini riflesse non ci piacciono, non prendiamocela con lo specchio, non rompiamolo. Adoperiamoci insieme a far sì che il mondo migliori e dia origine a pagine più felici. E ciò non per vanità pedagogica, ma ricordando che la scrittura – mezzo o nobile strumento di elevazione culturale – appartiene al mondo dei mezzi ed è l’uomo, da sempre, ad appartenere al regno dei fini, anche se taluni spesso se ne dimenticano. Parola di Immanuel Kant.

Carmelo Pirrera


Monreale, Biblioteca Comunale Santa Maria Nuova – Centro Culturale Polivalente “Santa Caterina” – 25 ottobre 2008

 

 
< Prec.   Pros. >
spacer.png, 0 kB
spacer.png, 0 kB
 
Web Design by Ugo Entità & Antonella Ballacchino - Web Master by Miky
download joomla cms download joomla themes