Racconti
Il compagno Io lo sapevo che te ne andavi. Anche quella era una mattina d’inverno, e come tutte le mattine d’inverno amavo indugiare un po’ prima di uscire nella strada, nel freddo. Qualche lampada accesa per le strade ancora me la ricordo: particolari senza importanza. E’ strano come le cose senza importanza rimangano precise nel ricordo. La strada bagnata di pioggia. Tu avevi la tua aria assonnata di sempre. Prima che ci separassimo mi hai chiesto se avessi ancora una sigaretta, lo facevi spesso, con un’aria timida come tutti quelli che chiedono sapendo di non potere mai rendere. Mi dispiaceva vederti così. Tu forse mi invidiavi per quel mio modo di essere povero. Sapevi che avevo una donna, credevi fosse davvero una cosa importante; credevi mi bastasse levare una mano per ghermire le stelle, e, confesso, per lungo tempo anch’io lo credetti. Nel caffè affollato dai soliti clienti mattutini, camionisti in gran parte ma anche un gruppo speranzoso di cacciatori, sorridesti alla tua faccia deformata nella macchina lucida del caffè espresso. – Oggi è giovedì? - chiedesti. – Sì, giovedì. Un autista accennò le note di una canzone stupida che a te piaceva, gli sorridesti. Era proprio una mattina d’inverno come le altre, con la monotonia di ogni giorno e i pensieri di sempre nei quali una lunga abitudine mi aveva rinchiuso, Ma, a me, tu credevi bastasse levare una mano … Me lo dicesti all’uscita del caffè, forse per scroccarmi un’altra sigaretta o perché ci credevi veramente. Ti sorrisi. Io ero un ragazzo borioso, tu un ragazzo buono; è chiaro che se uno di noi fece del male all’altro, fui io. - Mi sto abituando a fumare a sbafo, - dicesti ironico. Non ti risposi, sapevo che ti dispiaceva e non avevo parole buone da dire: le cose cattive le ho sempre dette con maggiore facilità. Ti feci accendere la sigaretta e ti vidi allontanare, svoltare all’angolo un po’ curvo e infreddolito. Mi aspettavo che ti saresti voltato per salutare ancora una volta, non lo facesti. Provavo pena per te e per me che non riuscivo a tirarti fuori dei tuoi problemi; del resto, non dovevo conoscerli assai bene: tutte le volte che accennavi a parlarmene, ti interrompevo per parlarti di me, delle mie conquiste, le mie avventure, i miei guai che, poi, guai non erano, e di donne: tu non avevi una ragazza e avrei dovuto ricordarmene. Stavamo divisi tutto il giorno, ci incontravamo a sera in quella stanzetta che avevamo insieme in affitto. Non sapevo cosa ne facevi delle tue giornate ma doveva esserci una specie di occupazione che aveva a che fare coi numeri. Ti ho conosciuto lì: - Ha una sigaretta, per favore? - Si, eccola; ma cosa ci fa con tutti quei libri? Studia ancora? - Non sono più studente, vorrei venderli: sono buoni, li vede? Dovevano essere molti interessanti se ti tenevano sveglio sino a tarda notte: - Non me ne intento di libri, – risposi. - Ho letto soltanto i libri scolastici e un romanzo straniero rubato nella libreria della stazione. - Quando l’amore per i libri ci porta a rubarli, tutto sommato, è buon segno, - dicesti. - E’ stato per una scommessa. Mi accorsi di averti deluso. Tu cercasti ancora di sorridere, credetti che lo facevi per il mio pacchetto di sigarette. Me lo rimisi in tasca e tu lo dovesti capire: - Fumo raramente le “Esportazioni”, sono pesanti. Non mi è mai piaciuto che mi si guardassero le carte. Provai stizza, pensai di te che eri uno stupido presuntuoso, e tutto per via di quei libri sul tavolo che tu avevi letto e io no. Le persone istruite mi hanno fatto sempre rabbia, perché dalla scuola fui tolto a dieci anni, quando mia madre morì e mio padre si prese in casa Lucia, zia Lucia, la signora Lucia. Al diavolo anche lei, ma una donna in casa ci voleva. Quella mattina, sebbene somigliasse alle altre, era una mattina diversa e ne ebbi conferma la sera quando, rientrando, trovai il tuo biglietto: “Grazie-parto”. Avevi il dono della sintesi. Finsi di dispiacermi, ma sentivo che in fondo ne ero contento: forse avrei avuto un nuovo compagno di stanza; di tanto in tanto, sino a quando sarei rimasto solo, avrei potuto portarci Sara. La cosa, di certo, non sarebbe durata: la padrona di casa forse m’avrebbe chiesto un aumento. Uscii. Seduto nel piccolo caffè sotto casa – mentre il juke box mandava le note di una canzoncina scema – pensai che quella stessa sera avrei potuto portare nella nostra camera, cioè nella mia camera, Sara che di giovedì era sempre libera, pensai anche che saresti potuto tornare, ma sorrisi: tu non eri di quelli che tornano sui loro passi. Mi sorpresi a guardare la tua foto sulla pagina del giornale della sera che uno sconosciuto aveva abbandonato su una seggiola. “Muore cadendo sotto un treno in corsa - Disgrazia o suicidio?”. Io non avevo dubbi. Ma perché lo hai fatto? Non si poteva continuare a vivere così… come si era fatto sino ad allora? Tu credevi mi bastasse levare una mano per ghermire le stelle, invece, ecco il segreto: mi basta un giorno di sole, somiglio alle mosche; trovo una ragazza, la porto con me, nel mio letto, anche se non è la donna dei sogni (quella non la trovi mai), e continuo il mio sogno. Non si fa come hai fatto. C’è una parte di colpa mia in tutto questo: avrei dovuto proporti qualcosa per quella serata, qualcosa da fare insieme… avrei dovuto chiederti un favore, un favore qualunque e ti saresti sentito utile, importante… Uno sconosciuto, dando un’occhiata al giornale, ha sentenziato che chi si uccide è un vigliacco. Ho guardato quei coraggiosi che avevo attorno, mezza dozzina di eroi più un orbo col suo violino. No, non eri un vigliacco, solo che nella vita, un bel momento, bisogna trovare qualcuno, una donna, un amico. Tu avevi trovato me: un cieco. La febbreNella stanza non c’era nessuno. Giungeva un parlare sommesso, interrotto di tanto in tanto da una risata breve, nervosa. Con chi stava parlando Francesca? La chiamò pianissimo, non venne né rispose. Il parlottio si arrestò per un attimo poi riprese concitato. Un raggio di luce giocava con la tenda della finestra ripetendo nel soffitto una mobile trama floreale, quasi ninfee su uno specchio liquido. Il suo corpo fu percorso da un brivido. – Come ci si arrende alla vita, si finisce con arrenderci alla morte – pensò. Ma non si sentiva così male da morire, soltanto come scordato dagli altri, abbandonato. Con chi stava parlando Francesca? Fu tentato di alzarsi e, in punta di piedi, andare a vedere, ad ascoltare non veduto. Sono cose che non si fanno, si disse. Non soffriva molto. In certi momenti aveva la sensazione di possedere una maggiore lucidità come se a causa della febbre gli si aprissero nuove strade, lontane dagli schemi usuali nei quali il pensiero normalmente si muove. Forse anche la pazzia consentiva qualcosa di simile, pensò, ma impazzire significava perdersi in quelle strade e non potere tornare indietro. Significava, forse, scendere in un inferno senza ritorno, annegare in un sogno senza risveglio. Di annegare, era accaduto l’anno prima a Luisa, in un mare tranquillo in una chiara mattina d’agosto, ma quella era tutta un’altra storia con vero mare, vera morte. La stessa sera, mangiando pizza e bevendo birra bionda in capaci boccali, in una terrazza a cospetto del mare assassino, il dottor Vergili parlava di Platone e della sua repubblica; Ivonne, sua moglie, si lamentava delle scottature: aveva provato una nuova crema ma non ne aveva tratto alcun beneficio, niente. Poi, sempre per sdrammatizzare, come diceva, il dottor Vergili aveva parlato di alcuni suoi parenti venuti in quei giorni a trovarlo: – Mio cugino Pasquale? Un santo. Quando l’ho condotto sulla spiaggia affollata di bagnanti ha guardato tutta quella gente nuda e ha esclamato “Dio mio, quanti peccatori!” Ivonne rise, fu la sola a farlo. Aveva riveduto Luisa dietro i finestrini di un autobus. Gli aveva sorriso, lei sempre così dolce. Ciò pochi giorni prima che la febbre venisse – o era già venuta? - L’aveva salutata agitando il giornale, poi era rimasto col braccio levato. Come era possibile? Cosa faceva su un autobus se era morta da mesi? A raccontarlo al dottor Vergili che, adesso, se ne andava in giro chiuso in un cappotto grigio come il suo umore (Ivonne lo aveva piantato), questi avrebbe detto: – Sono i nervi, amico mio, sono i nervi - e forse sarebbe tornato a parlargli di Platone, del Demiurgo e, infine, di Ivonne che non lo aveva mai capito né aveva apprezzato i sacrifici che aveva fatto per lei, le rinunce. Era diventato una lagna il dottor Vergili, un tipo da evitare. Ma dove andava Luisa con quell’autobus? Era stata la giovane contessa nello spettacolo di beneficenza offerto una sera al piccolo teatro parrocchiale. All’inizio di quella stessa estate. Le donne sostenevano pure le parti maschili, come aveva voluto il prete, anche se si trattava di uno spettacolo castigatissimo. Francesca si era impegnata nel ruolo di un ufficiale dissipatore di patrimoni. - Contessa, la regina sta male, muore! Le contesse, la cui vita è tutto un bere champagne e divorare caviale assieme a ufficiali dilapidatori di ingenti patrimoni, non se lo aspettavano proprio, ma il medico di corte… Era la figlia più piccola del farmacista a recitare in quel ruolo, quella che l’altro giorno, giù nel portone, si sbaciucchiava con quella specie di cow boy, un ragazzo rosso di pelo. Luisa non sapeva nemmeno cosa fosse il caviale. Si può vivere e morire senza assaggiarne. Tante vite si consumano senza giungere alle esperienze più semplici: – Contessa, il caviale è finito, e tu muori. Il corpo restituito dal mare era verde, verde come una cosa sua. E lei era morta, anche se un’altra che le somigliava portava in giro sugli autobus il suo volto o altre ragazze a lei somiglianti in giro, con innocenza crudele, portavano quello che era stato il suo sorriso. - Contessa, cos’è mai la vita? La ragazza del treno non udì la domanda o credette che non fosse rivolta a lei. Non rideva più mostrando dentini bianchi da piccolo squalo, si era rabbuiata in viso e sembrava in procinto di piangere. Accese una sigaretta – ancora una – e riprese a parlare di Spinoza e di presalario. In un angolo del vagone, un Cirano vestito d’ammiraglio, dietro il suo naso finto, ripassava la parte: – T’amo come l’amore stesso possa amare. Inutile chiedersi come fosse finito su quel treno con tante cicche, Spinoza, il presalario mentre assorto guardava le ninfee sul soffitto, che partite dal delirio di Monet approdavano al suo. - Questo treno va a Trapani, signore. Valigia, cappotto, libro (piccolo borghese, leggi poesie d’amore!) e a terra. Decisamente, la colpa era stata del libro. C’è sempre qualcuno o qualcosa che ha colpa di quanto ci accade. Nemmeno ora aveva colpa di niente. Non aveva colpa se mentre bruciava su un letto ricordava di essersi trovato in una piccola stazione, le braccia impacciate dal cappotto, la valigia, il libro inutile, e la mente impacciata di altrettanto inutili pensieri, in attesa di un treno che lo riportasse indietro: - Da Ulisse in poi, si disse, non facciamo che pensare al ritorno. Con chi parla Penelope? Ancora, la ragazza del treno interruppe i suoi pensieri: – Mio padre, in Germania, non disegna soltanto cani, ma quello gli è venuto proprio bene, perciò me lo ha mandato. Si era messa a ridere, non somigliava a Luisa, che non rideva più né recitava nel piccolo teatro della parrocchia. Il mare aveva restituito il suo corpo – verde come le cose che gli appartengono – un corpo che non era Luisa, non era nessuno o tutti, puniti nel nostro piccolo orgoglio e umiliati sino al vilipendio estremo. La moglie si affacciò sulla porta: – C’è stato Ugo, è passato un momento per salutarti, ma tu dormivi. Era Ugo uno dei proci? Aveva già provato a tendere il suo arco? Rise, ma non c’era gusto a ridere da solo. Anche il dottor Vergili aveva promesso di passare in serata, sarebbe venuto di certo e avrebbe parlato di Platone che assieme ad Ivonne era divenuto il suo chiodo fisso. La luce mutata aveva cancellato le ninfee dal soffitto. Giochi effimeri che la luce combina e disfa. – Con chi stavi parlando? - Te l’ho detto, è passato Ugo. Il cuscino era madido di sudore, lo rimosse cercando un angolo fresco dove poggiare la testa. Non aveva sonno, ma chiuse gli occhi, fingendo di averne per rimanere ancora solo, geloso e recluso in quella sua piccola forma di pazzia, inferno o paradiso privato, non importa. Ancora Luisa, Ivonne e il dottor Vergili, Platone e la sua repubblica: Poeti, non vi ci voglio qui, non vi ci voglio! Avrebbe pure parlato dei suoi parenti, il dottor Vergili: gente di paese, un paese che per lunghi anni aveva fornito preti alla chiesa ed ufficiali all’esercito. Uno di loro si era meritato pure un monumento: “offrite al nemico la muraglia dei vostri petti”. Amen. Maria- Ciro! Ciro! Mamma mia, starà male! Lo avevo trovato seduto sui gradini di casa, tornando dalla riunione, con la testa appoggiata alla ringhiera. Avevo fatto tardi per via di Antonietta che doveva per forza raccontarmi delle prodezze del suo cane Filippo, un cane che per poco non legge il giornale, non lo legge ma ne ha paura. Tutto mi sarei aspettato ma non di trovare Ciro in quelle condizioni: - Amore, che ti è successo? Non era niente, aveva bevuto di nuovo. Mi guardò con due occhi arrossati e cercò di rassicurarmi: – Non credere che sia ubriaco, Maria, solo un po’ allegro. Ubriaco? Mi fosse riuscito mai una volta, nel migliore dei casi mi procuro un bel mal di testa. Solo allegro, – rise emettendo aria dal naso ed aggiunse cercando di identificarsi col personaggio che da anni si recita: – Sono allegro nella mia tristezza, Maria. Ah, Maria… Io non mi chiamo Maria, mi sono sempre chiamata Carmen perché a mio padre piaceva la lirica. Non perdeva una serata del “Luglio musicale” e si trascinava dietro mia madre che nella maggior parte dei casi, malgrado il frastuono, si addormentava. Ciro mi guarda con occhi estatici, mi dice che somiglio ad un manifesto dei socialdemocratici. Bella, bionda, serena, nutrita con latte e con burro. Lo aiuto ad alzarsi e apro con le mie chiavi, le sue le ha nuovamente perdute. – Certo che un mondo senza chiavi – osserva – sarebbe migliore: significherebbe che non ci sono più ladri. Bello, te ne vai per le strade, gridi “Ehi ladro!” e non si volta nessuno. Oggi non puoi farlo, si voltano tutti per via della coda: la coda di paglia. Recita ancora la sua parte di intellettuale impegnato e continua, senza che mai gliene avessi dato motivo, a chiamarmi Maria. Quando è ubriaco io divento Maria: Maria Malibran, Maria la sanguinaria, Maria Maddalena ecc. Un giorno diventerò Maria Stuarda e mi taglierà la testa. - Posso “usarti”, Maria? Insolitamente gentile, anche se mi piglia in giro. Deve aver saputo della mia riuione con le femministe, o feminote come le chiama lui, e ha scelto di proposito il verbo “usare”. - Sei ancora la mia cara, dolce sposa? - Sono soltanto mia, - gli rispondo polemica. Sorride con aria furbesca: - Allora usami tu. - Sei ubriaco. - Solo un poco. - Sei sciocco. - Solo un poco. Allunga le mani verso la mia blusa di tela indiana ricamata a ciliegie viola e mi alita sul viso un’intera osteria: – Belle le ciliegine di Maria, belle le ciliegine… non le mangerai tutte da sola… e dalla qualche ciliegina al tuo Ciro. - Sei un porco. Desiste. Si cerca una sigaretta nelle tasche, non la trova e ne prende una delle mie che stanno sul tavolo. – Fumi roba fine, Maria. Te le fanno con la paglia ‘ste cose? Questa Antonietta ti sta rovinando, Maria. Uno sposa una ragazzina buona e comprensiva e si ritrova a letto col manifesto del Partito. Salvati Maria, rimani femmina, lascia agli altri l’incombenza di mutare e di salvare il mondo, tu pensa a salvare te, la tua femminilità, la tua dolcezza, rimani la mia piccola Maria! - Io mi chiamo Carmen, come la bagascia che vende sigari nell’opera omonima. Carmen. Non ti ricordi? Toreador pa-pa-ra-pa-pàPa-ra-pa-pa – pa-ra-pa-pà…- Canti bene, Maria. Hai un sacco di qualità, potresti fare soldi a palate, in tivù. Ma il denaro non è tutto nella vita, se hai troppo denaro, allora devi davvero stare attento alle chiavi. Perdere le chiavi è un lusso per poveri. - Tu le perdi sempre. - Quella no. - Sei un porco. - Lo hai già detto. Anche mio padre beveva qualche volta, - ricordo mentre lo guardo seduto sulla sponda del letto, trafficare con le stringhe delle scarpe. – Quelle volte era capace di cantare brani d’opera sino a notte inoltrata. Qualche volta i vicini venivano a protestare. Ricordo la signora Maniscalco, quella che aveva un figlio poliziotto: – Professore, la prego. Violetta sta male. Non glielo avesse mai detto! Si sparò quasi tutta La Traviata mentre mia madre, morta di vergogna, infilava la biancheria in un borsone di pelle, minacciando: – Ti lascio, sai! Non può continuare così. Sei il disdoro della famiglia… ma io me ne vado! – E continuava a infilare roba nella sua borsa. Ma non se ne andava mai, si metteva soltanto a piangere vicino all’ingresso, seduta sul pingue borsone pieno di roba presa alla rinfusa. Si metteva a piangere davanti alla specchiera e a me sembrava di averne due di madri il lagrime. Mio padre smetteva per un po’ per non farla più piangere, un po’ perché col sonno gli veniva meno la voglia, deluso da quel pubblico che non sapeva apprezzarlo. – Anch’io vorrei dormir così/ nel sonno almen l’oblio trovaaaar… - concludeva sottovoce e s’infilava nel letto mentre mia madre disfaceva la borsa. - Maria! - Vengo. - Nella stanza in penombra ha acceso la radio in sordina. Ogni tanto gli piace preparare l’atmosfera. Musica dolce e luci discrete: “…il nostro amore era l’invidia di chi è solo/ era il mio orgoglio la tua allegria…” Mi ha usato, Forse l’ho usato io. In ogni caso ci siamo usati, con dolcezza mentre la radio negandoci d’improvviso la sua complicità, trasmetteva il bollettino per i naviganti. Le sue mani sfiorandomi hanno esitazioni e tremori adolescenti, ascolto una voce che parla del mare, ma io, senza timori, mi so nel mio piccolo porto. Un onda dietro l’altra viene e mi colma. Questo letto è una nave, una nave che ci porta a dormire. Lo scuoto. – Già dormi? - Sei la mia piccola donna? - No, sono solo mia. Per un po’ tace e credo si sia addormentato, quando mi prende la mano e senza guardarmi mi chiede. – Se avremo un figlio lo terremo, vero? - Sarò io a decidere. - Mi piacerebbe ti somigliasse. - Lo chiameremo Manrico. Ride, come se avessi detto una cosa buffa: – Ma da dove ti vengono certe idee, infliggere a una creatura un nome simile! Manrico: deve essere il figliastro del conte di luna ne Il trovatore: di quella pira l’orrendo foco!Non gli dico che anche a me piace l’opera lirica, e chiedo aggressiva: – Tu che nome metteresti? - Leone, - Come il Presidente? - No, come Tolstoj: scriveva da padreterno. Torna ad essere l’intellettuale antipatico che compila articoli per un giornaletto che non legge nessuno, e non è buono nemmeno per avvolgervi la lattuga. Ci avrei giurato che veniva fuori col nome di uno scrittore. E meno male che è capitato un russo, se avesse pensato ad uno scrittore cinese forse avrei dovuto chiamare la mia creatura Chu-fu Chu-fu. - Sono tanti a scrivere, ci pigliano pure i premi, ma a pochi è dato dire cose vere, essenziali, che non passano mai di moda. - Ho visto al cinema “Guerra e pace” – faccio conciliante. - Una vaccata, - sbotta. – Bisogna leggere il libro, il film somiglia a “Via col vento”. - A me è piaciuto. - De gustibus… come si dice? - Non lo so, sei tu che sai tutto. Stavolta assume un tono di socratica modestia: - Io so di non sapere. Nel silenzio il battito della sveglia si fa più distinto. Tic-tac, tic-tac… Forse è vero che ai nostri giorni sarebbe scomodo andarsene in giro con un nome ingombrante come Manrico. Ma nemmeno Leone mi piace. Un bel nome potrebbe essere Pietro: duro come la sua testa, come le nostre teste. Forse è meglio che venga una bambina, allora che nome le daremmo? - Che nome daresti ad una bambina? – chiedo. - Carmen: è un nome bellissimo. RosariaCome finale mi sembra abbastanza buono: “Il vecchio afferra la pistola…” No, non “afferra”, prende. Il vecchio impugna la pistola: il suo è un gesto calmo, controllato. Alla maniera degli antichi imperatori, il vecchio è un amministratore di giustizia, un giustiziere. Bella l’immagine di questo giustiziere con bazooka; il vecchio è uno sporco fascista, dispotico, autoritario, rompiscatole. Ma no, è soltanto un vecchio, un escluso dalle gioie della vita. E’ facile essere giustizieri quando le passioni ci lasciano. Dunque, il vecchio conclude sparando alla figlia. Sangue sulla camicetta, sangue sul sofà, sangue… Ma atteniamoci ai fatti. Nella realtà come andarono le cose? Che la ragazza venne trovata morta sul divano è un fatto, anzi il fatto principale. Da questo bisogna partire per stabilire la dinamica del delitto e capire perché questo vecchio che poi si chiuderà in un mutismo assoluto, decide di sparare alla figlia. La solita storia del Sud? La solita macchia all’onore da cancellare col sangue? No, ma la coscienza di avere subito un torto, una frode. Alla somma di settant’anni di delusioni aggiungi il crollo di quest’argine che il vecchio riteneva sicuro. L’immacolato candore, la purezza di Rosaria, suo vanto e suo orgoglio, non esistono più. Scopre ad un tratto di essere stato frodato. Non possiamo liquidare il caso con la nostra posa di gente evoluta, con la nostra pretesa mentalità europea. Evoluzione e mentalità si acquisiscono attraverso processi lenti e non per decisioni improvvise o estemporanee. Il vecchio, in definitiva, potrebbe essere la vittima di tutto un gioco dove era la figlia – vittima apparente: suo è il sangue sulla camicetta e sul sofà - a distribuire le carte. In ogni caso vittima di un costume. Ha atteso nella sua casa di campagna, piena di silenzio e di mosche. Ha taciuto prima, tacerà dopo. Cosa si dissero prima del colpo di pistola? Non verrà a dircelo nessuno; non siamo nel campo dell’omertà “nentisacciu”, realmente nessuno ha visto o sentito nulla. Solo il vecchio sa e tace, la ragazza è morta. La pensi morta e trovi assurda la sua immobilità che non aderisce al ricordo della ragazza vivace che abbiamo conosciuto appena l’anno scorso. Aprile era il mese crudele schiudeva ferite nel cuore. Ricordi? Ti chiedo se ricordi e mi pare siano passati un milione di anni. Un milione d’anni fa era aprile. Sorrideva con malizia e aveva l’aria di volerti pigliare in giro. Ricorderai pure il ragazzo che le stava appresso, aveva barba, occhiali e, dietro gli occhiali, uno sguardo di pecora implorante. Doveva essere cotto. Lei non gli dava retta. Gli aveva detto di no un sacco di volte, ma la pecora era tenace. Tutte le volte che poteva le si appiccicava sfruttando la comoda posizione di “amico di famiglia”. L’andava a trovare, sedeva nel salotto buono e aspettava, zitto, guardando il lampadario. - Lo prendi il caffè, Giovannino? Giovannino qualche volta rispondeva di sì. Al vecchio non dava fastidio, lo considerava come uno di casa se non addirittura un mobile. Uno strano ragazzo. Dopo la morte di Rosaria si è trasferito definitivamente nel capoluogo dove studia. Pare che studi con profitto lingue straniere. Strana scelta per un ragazzo così taciturno. Non c’entra il ragazzo e non porta a concludere niente. E’ un personaggio secondario che dava soltanto fastidio. Dopo la morte della ragazza ha pensato anche di uccidersi. Morire per amore. Ma il suo grande amore era soprattutto letteratura. Ci ha pensato tutta una sera ed è riuscito soltanto a piangere affacciato a una finestra al quinto piano. L’indomani ha parlato col prete. Non in confessione. Il prete lo ha ricevuto in casa, lo ha consolato e, data la giovane età di entrambi, gli ha battuto sulla spalla chiamandolo “fratello”. Non “figliolo”, fratello. Il religioso era sconvolto: non aveva letto nemmeno i giornali. Da giorni non usciva perché si stava dedicando ad un lavoro, un saggio, sul “Breviloquio” di San Bonaventura da Bagnorea (ora Bagnoregio) … Ma perché aveva sparato? Perché aveva ucciso la figlia? Rosaria era una pecorella del suo gregge, forse l’aveva pure concupita a dispetto di Matteo. Nemmeno queste illazioni portano ai fatti. Del resto come si può rimproverare ad un giovane prete di concupire una ragazza della sua parrocchia? Sarebbe come rimproverare ad un diabetico di guardare i dolci esposti in vetrina e desiderarli. Sono i fatti e non i desideri, che contano. Ma ci furono fatti? O anche l’unico fatto – cruento e reale: il vecchio che spara – si può ridurre ad un’espressione di emotività o addirittura, di follia? Il folle afferra la pistola e uccide la ragazza. Non amministra giustizia, gestisce il suo arbitrio, la sua follia e nient’altro. Nella solitudine e nel silenzio di una casa di campagna un pazzo uccide una giovinetta. Ha importanza che si trattasse della figlia? No, se come pensiamo la follia non tiene conto dei rapporti o dei legami di sangue; e, invece, sì: se non si trattasse della figlia dovremmo chiederci cosa ci facesse una ragazza assieme a un vecchio in una casa isolata, in campagna. La cosa ha un senso e non un altro, appunto perché stiamo parlando di un padre e di una figlia. Già, il sangue. Il sangue è di Rosaria. Vanamente la vecchia serva a provato a pulire il sofà usando un detersivo dei più reclamizzati. Fate largo al mangiasporco! La macchia è rimasta, un po’ sbiadita ma è rimasta. Il giornale dice che il vecchio ha sparato un secondo colpo che, però, non è partito. La pistola – una vecchia pistola d’ordinanza, buona per piantar chiodi – si è inceppata. Contro chi era diretto il secondo colpo? Ancora sulla figlia, o il vecchio dopo il gesto terribile, voleva sopprimersi? Il giornale non lo dice. La ragazza aveva un amore segreto. Un grande amore, a suo dire. E il vecchio apprese di quel segreto che lo escludeva, che lo relegava in un mondo di vecchi senza segreti, senza dolcezze, senza amore. Ma anche Giovannino, il prete e la serva erano fuori di quel segreto. Un segreto non è più tale se partecipato al mondo. E poi, che beneficio ne avrebbero tratto Giovannino e gli altri dall’apprendere che la ragazza aveva un grande amore? In galera il vecchio ci è andato da solo, ma deve avere ucciso – inconsapevole – anche in nome di tutti gli esclusi di quel mondo che si chiamava Rosaria. Anche in nome del prete? Il prete non c’entra: si è escluso da solo, scegliendo di farsi prete, scegliendo, cioè, la sposa bella che è la Chiesa. Ne è rimasto sconvolto, non può andare oltre questo. Per la serva è rimasta la macchia indelebile. Sta tranquillo che al vecchio riconosceranno l’infermità mentale. Doveva essere pazzo da gran tempo. Doveva già esserlo quando durante la guerra balzò fuori del nascondiglio gridando: “Savoia! Savoia!” e portando un gruppo di disgraziati a morire sotto il fuoco nemico. Racconterà dopo anni che “alla testa di un pugno di prodi…” I prodi ci rimisero la pelle e lui, invece, benché malconcio, se ne è tornato a casa, al suo paese, a raccontare prodezze. Era pazzo a tenere una pistola carica nel cassetto. La teneva per i ladri che non vennero mai. Quel giorno venne la figlia. Dapprincipio si fecero i soliti discorsi sulla filosofia di cui il vecchio amava parlare benché non ne capisse niente. Leggeva un fottìo di libri da quando la gente si era stufata di starlo a sentire. Parlava sempre della guerra e concludeva balzando alla testa dei suoi prodi che erano anche il suo rimorso. Savoia! Concludeva per modo di dire, perché poi ricominciava da capo sino al nuovo balzo. Savoia! E il sangue aveva irrorato la terra, quello di Rosaria aveva macchiato appena il divano. Se ne era andato tra due carabinieri, la faccia pallida come un morto, zoppicante. Dicono che la ragazza, quando la portarono via rantolasse ancora ma morì prima che giungesse all’ospedale. Era morta e sulla scrivania del padre continuava a sorridere affacciandosi da una fotografia. Sorrideva mentre la serva cercava di cancellare la macchia del suo sangue. Di queste vicende ne leggi ogni giorno sui giornali. Se una mattina ti imbattessi in un quotidiano che non portasse notizia di fatti del genere – mogli che uccidono i mariti, mariti che uccidono le mogli, donne che sparano all’amante ecc. – ti sentiresti derubato. Anche se potresti, al limite, rimediare coi grandi delitti, il massacro di folle anonime che i vari governanti ti forniscono in nome di discutibili ideali. Sono fatti di ogni giorno e se ce ne interessiamo è perché abbiamo conosciuto Rosaria. L’abbiamo conosciuta in aprile e ci colpì soprattutto la sua grande gioia di vivere che faceva tutt’uno con la primavera veniente. Per il resto è una vicenda squallida come mille altre, con un padre omicida e forse, a livello inconscio, incestuoso, un ragazzo barbuto e per sovrapprezzo, un giovane prete che consola: - Fatti forza, fratello. Qualcuno ha detto che a volte una buona coscienza può essere frutto di una cattiva memoria. Questo prete che una mattina incontra nella piazza principale del paese lo zoppicante ufficiale dei bersaglieri a riposo, gli scrocca un caffè – Lo prendo sempre un po’ lungo - gli scippa anche una mezza promessa di voto per il candidato suo amico fraterno e poi, pigliando il discorso alla lontana: – Coi tempi che corrono una ragazza è esposta a mille tentazioni… Lei stessa è tentazione. Poi, coi vestiti che si portano… Anche i vestiti, adesso. Li paghi un occhio e non sai che vengono confezionati nella sartoria di Satana. “ Satana & C. - Confezioni d’alta moda”. Per il prete molte cose vengono da Satana che a fine stagione pratica sconti alle anime prave. Le ragazze quell’anno erano tutte più belle. L’inverno le aveva plasmate con mille segrete carezze e Satana le vestiva di niente. Persino il prete, malgrado avesse scelto la sposa, la sposa bella che è la Chiesa, se le guardava con concupiscenza scavandosi abissi d’inferno sotto il tappeto a grandi fiori del suo studiolo tappezzato di madonne che in quella primavera presero a sorridere con insolita malizia. L’inverno divampava sotto il divano-letto. Sorridevano ancora le madonne quando Giovannino venne a bussare. Aveva l’aria abbattuta, cominciò a piangere subito. – Io l’amavo, padre, - Non si capiva niente in principio: Chi amava, Giovannino? Chi aveva sparato? Chi era morto? - Io l’amavo padre. Padre è parola grande e terribile. Gesù sulla croce si rivolge al Padre: “Allontana da me questo calice”. Ma il calice era là in mezzo a loro, pieno sino all’orlo del sangue di Rosaria. Bisognava allontanare calice e sangue. Bisognava essere calmi; calmi come se il morto fosse un qualunque morto in una guerra lontana e non Rosaria che vestita da madonna – manto azzurro e aureola – sorrideva dal rettangolo appiccicato alla parete, un sorriso ironico come se avesse scelto quei panni per far loro uno scherzo. - Devi farti forza, fratello. Ecco, lo aveva detto: fratello. Non si sentiva la forza di essere padre. Era un ruolo assai impegnativo quello del padre, ed egli non aveva la forza di allontanare quel calice di sangue. Il calice era lì, tra di noi, sul tavolo, equidistante dalle nostre mani. Ma ero io solo a vederlo. Il ragazzo piangeva e le sue mani contratte tremavano. Mi faceva pena vederlo piangere, non per lui: mi aveva sempre ispirato antipatia. Non dico odio. Sapevo che apparteneva a una razza eternamente sconfitta, a volte soffrivo di non poterlo amare come mi avevano insegnato. Mi faceva male vederlo piangere mentre io non potevo, non potevo più. Piangere per me avrebbe significato dividercela ancora, dividerne ricordo e pena, mentre il calice era mio, mio soltanto. - Fatti forza, fratello. A me nessuno avrebbe detto di farmi forza. In quella mia pena ero solo, non avevo fratelli, non avevo diritto di piangere, perché avevo scelto la sposa, la sposa bella. A chi raccontare la fatica dei miei giorni tormentati dal pensiero che altri, tutti gli altri, godessero della sua vista e la guardassero con occhi lascivi? Le ho detto una volta: - Sapessi la fatica che mi costa donarti giorni di sole, in quelli ti allontani come una farfalla e io ti perdo. Lei aveva riso abbracciandomi: - Poeta! Poeta! Mi amava a quel tempo. Poi vennero scrupoli e nuvole. Bisognava diventare buoni amici, buoni amici soltanto. – Buongiorno, signorina. A casa stanno bene? - Fatti forza, fratello. Il ragazzo se ne è andato più calmo. Un prete è un vaso dove versare la pena. Dammi forza, Signore, per portare il dolore del mondo. Dammi forza per i giorni che verranno nei quali dovrò convivere col rimorso. Non perdonarmi, dammi solo la forza per scontare vivendo questa mia morte e chiedermi al sorgere d’ogni nuovo giorno, perché ho scritto quella lettera infame. Rantolava sul divano quando giunse l’ambulanza straziando con la sua sirena il cielo d’aprile, aprendo una lunga ferita nel silenzio della campagna tessuto da mille foglie giovani e verdi, ma tutto era finito. Era tutto finito e lei sorrideva dal ritratto come la volta che aveva detto. “Andrò a vivere a Parigi”. Parigi: un’essenza, un profumo che manca nella nostra vita che squallida si dipana tra scadenze, scartoffie e lenti veleni. “ C’est la fleur du secret/ un incendie à decòuvrir”. Ne parli e ti chiedi perché il vecchio ha sparato. L’avvocato è stato chiaro in proposito: omicidio colposo. Puliva la pistola. La teneva in campagna per i ladri che non vennero mai. Nel posacenere c’era della carta bruciata. Una lettera? Cosa c’era scritto nella lettera? Probabilmente si trattava di una lettera senza importanza se non addirittura di una vecchia fattura pagata, uno di quei fogli di carta che solitamente muoiono in fondo ad un cassetto. Il vecchio puliva la pistola e il colpo fatale è partito proprio in direzione di Rosaria, del suo cuore. Niente gelosia, niente affetto morboso, Solo fatalità. Fatalità, disattenzione, imprudenza. Omicidio colposo. Sono cose di ogni giorno. Siamo tutti vittime del caso: tu sali in treno e non sai niente dei compagni che incontri, potresti anche incontrare un assassino. Non puoi farci niente, ma sarebbe bene essere più cauti, specialmente con le armi da fuoco. Più attenti. Qualche giorno fa, ad esempio, un giovane sacerdote ha cercato di attraversare sulla sua bicicletta il passaggio a livello mentre sopraggiungeva il direttissimo. Faceva spesso quella strada perché risparmiava un paio di chilometri. Forse era distratto o calcolò di farcela. Era uno di quei giovani preti che fanno dello sport e pensava, forse, di farcela prima che il treno giungesse. Non ha avuto fortuna. La cronaca è piena di queste disgrazie. Ne leggi ogni giorno sui giornali e fa rabbia apprendere quante vite umane vengono buttate via per imprudenza. Giovannino legge i giornali cercando notizie del paese che ha lasciato. Si interessa, sia pure da lontano, ai progressi della squadra di calcio che ha avuto un buon avvio all’inizio del campionato. Legge e apprende le disgrazie che colpiscono la gente. C’è rimasto male nell’apprendere del sacerdote finito sotto il treno. Lo conosceva, diceva messa nella chiesa dell’Assunta, era stato tanto comprensivo: - Fatti forza, fratello. Però, un’ora insolita per un prete le undici di sera. Ma si sa che i preti sono come i medici: si ha sempre bisogno di loro. Legge sempre i giornali Giovannino e apprende di sciagure che capitano in tutte le parti del mondo. Contadini precipitano col trattore, utilitarie finiscono in una scarpata, morti a Filadelfia o altrove durante un week-end… Quanta imprudenza! Si promette ogni giorno di essere attento e di meditare prima di compiere una qualsiasi azione perché una volta... - suda freddo a pensarci – una volta, in un momento di rabbia. Gli accadde di scrivere una lettera – una lettera anonima – che non pensava, però, di spedire. Non la doveva spedire! Finì con imbucarla lo stesso. Si trattava di una lettera cattiva per la quale, poi, aveva pianto. Solange- Per favore, non cominciamo con le solite domande: cognome, nome, professione, domicilio eccetera. E’ da quando son qui che non faccio che declinare generalità. L’uomo alzò verso me la sua faccia agnostica e mi fece cenno di sedere. L’altro, quello che non avevo veduto entrando, si raschio la gola e si mise a pulire i suoi occhiali da presbite. Sembrava un barbagianni e mi aspettavo che si andasse ad appollaiare sulla spalla del funzionario inquirente, ma rimase al suo posto, presso la macchina per scrivere, a prendere appunti. Dal calendario alla parete la giovane diva mi sorrise invitandomi a bere Coca-cola. Avevo veramente sete. - Niente generalità, ma deve ripeterci tutto dal principio, la sua storia ha dell’incredibile. - Sarà incredibile come dice lei, ma non penso ci sia altro da aggiungere – obiettai. – Tornavamo dall’inaugurazione di una mostra, dove tutti si conoscono e nessuno si conosce. Ti presentano qualcuno, tu dici piacere e poi non ricordi più come si chiama. Notai che la signora mostrava interesse per gli stessi quadri che mi piacevano, chiacchierammo un poco poi mi chiese se avrei potuto accompagnarla a casa: Gustavo – doveva essere il marito – aveva promesso di venire a prenderla, ma ancora non si vedeva. Mi parve preoccupata. Io non avevo la macchina, ero venuto a piedi per via della batteria. Glielo dissi. Lei sorrise e mi disse che non abitava lontano, ci avviammo a piedi, la sera era tiepida. - Che ore saranno state? - Forse le dieci…, le dieci e mezzo… Non ho guardato l’orologio. Istintivamente mossi il braccio quasi a voler guardare l’ora. L’uomo ebbe un sorriso impercettibile e mi chiese sollevando tra l’indice e il pollice il mio “Longines”: - E’ questo il suo orologio? Il barbagianni seduto al suo scranno, prendeva appunti a capo chino, non riuscivo ad immaginare cosa scrivesse, e presagivo che le cose, per un mucchio di stupide coincidenze, si mettevano male, Quello era il mio orologio e non mi rimaneva che ammetterlo. Il funzionario sorrise soddisfatto e mi chiese, ripetendo il gesto di poco prima: – E questo è il suo coltello, vero? Ora era chiaro che volevano incastrarmi. Gli occhiali del barbagianni brillavano di malizia e la bionda del calendario, pur continuando a sorridermi, mi sembrò meno amica. Cercai di mantenere la calma e replicai di non aver mai posseduto coltelli. Non era vero: sotto le armi avevo avuto un coltello di quelli che s’aprono a scatto, che mi faceva sentire tanto “terrone” e tanto importante. Era trascorso molto tempo da quando il mio tenente mi aveva chiesto perché portassi un coltello e io, insolente, avevo risposto che loro mi avevano dato anche un fucile: dieci giorni di consegna. Ma qui non si trattava di consegna, forse il grassone era morto, lo avevo visto in un lago di sangue. - E’ suo questo coltello? - No, non ho mai posseduto coltelli. Cosa cercate di insinuare? Cosa state macchinando contro di me? Cosa cercate di farmi ammettere? Mi ero lasciato andare e mi ascoltavo, sorpreso dalle mie parole e soprattutto dal loro tono, quasi commosso dal mio stesso sdegno. Mia madre lo aveva sempre detto: “devi fare l’attore, il teatro ce l’hai nel sangue.” L’uomo rimase impassibile, mi lasciò sfogare e sospirò: – Allora, il coltello non è suo. – Si rivolse al barbagianni: – A domanda risponde “non ho mai posseduto un coltello”. Nel silenzio che seguì udii il triste scrivano scandire lentamente con una nota di incredulità e malcelata ironia: - Non ho mai pos-se-du-to un col-tel-lo. - C’è un morto, caro amico. C’è un morto – disse il funzionario. E anche quel “caro amico” pronunciato in quella circostanza mi sembrò carico di minaccioso sarcasmo. - Mi ridica della donna. Chi era? - Era? - Sottile, lei. Diciamo chi è? Facile fare domande di quel genere. Ma chi era, in effetti, Solange? Nat aveva detto che sarebbe stato contento di perdere un braccio per avere vent’anni di meno e potersela portare a letto, io rischiavo di rimetterci di più senza averla nemmeno sfiorata. Ma non si può dire ad un onesto funzionario “una donna per la quale qualcuno vorrebbe dare un braccio”. È risposta paradossale che non può trovare spazio in un verbale della polizia. Andrà bene per Nat che è un poeta, non per il barbagianni che mi sta guardando in attesa di una risposta: - Non so molto sul suo conto. L’avevo incontrata qualche altra volta. Deve essere laureata in qualcosa, non so bene in cosa. Forse psicologia. Ha degli interessi per le arti figurative e, mi pare, una discreta competenza. Chissà cosa scriveva il barbagianni sul suo foglio, anche il funzionario lo guardò ma senza apprensione. Doveva esistere tra i due una lunga dimestichezza, una scontata complicità. - Dunque, la conosceva da poco e quella sera… - Tornavamo da quella mostra e la stavo accompagnando… - La dama e il cavaliere, - concluse ironico mentre la faccia del barbagianni s’illuminava di un sorriso osceno. Mi infastidiva che qualcuno ridicolizzasse il mio comportamento, mi infastidiva soprattutto che il barbagianni ne ridesse, e, disubbidendo alla regola che mi ero imposta, persi la calma: - Lei non ha alcun titolo per prendermi in giro. Sta cercando un assassino e ha preso un granchio. Non le permetto di rivalersi facendo dell’ironia sul mio conto! Divenne rosso per la prima volta mentre il barbagianni lo guardava aspettando la sua reazione, e la reazione venne. L’uomo passò attraverso diverse gradazioni di colore e poi, verde: - Non sto cercando alcuna rivalsa, sto cercando soltanto di farle capire che è nei guai sino al collo. Quanto a permettere e non permettere, qua dentro sono io che permetto o non permetto. Detto questo, premette un pulsante che stava sul suo tavolo e ai due uomini accorsi disse di portarmi via. Questo è un antico palazzo, quasi un castello. Forse, nel tempo, deve essere stato pure un monastero. Se sapessi pregare dovrei farlo. C’è un uomo legato al suo remo, un galeotto che cerca di vincere la corrente, e sono io. Ripartiamo dal principio. Ma hanno davvero un principio le nostre avventure? Hai tu un principio, Solange, diverso dal principio che preesiste ad ogni desiderio? Forse che non mi dormivi nel sangue quando Nat diceva che avrebbe dato un braccio per averti? Quella sera mi offrii di accompagnarla o fu lei a chiedermelo? Non avevo macchina e così c’incamminammo a piedi. L’idea di fare assieme quei quattro passi sino a casa sua, nella strada buia, mi eccitava. Avrei cercato di prenderle la mano, mi avrebbe preso la mano. Solange. Mi hanno detto che significa angelo solitario… C’è un altro uomo sdraiato nel pagliericcio accanto al mio. Entrando, al buio, non l’ho notato. Ne ho avvertito l’odore, il profumo di un dopobarba dozzinale. Ora lo sento respirare piano, so che mi sta guardando mentre fisso oltre la finestra e non so cosa cerco. La finestra dà in un cortile interno all’edificio, riesco a scorgere dei rami di vite canadese, che si arrampicano verso le finestre più alte e, incastonato tra due cornicioni, un triangolo indifferente di cielo. - E’ suo questo coltello? Oh, Solange! S’è sparso sangue sul tappeto di un giorno che sembrava luminoso e vorrei pensare a te come ad una pietra pura e ferma sul ciglio dell’alba. Non posso gettarti in uno stagno, tornerei a cercarti persino nelle notti senza luna. No, non è mio il coltello. Quando il gruppetto ci si accostò avrei voluto veramente possedere un’arma - per difenderti, Solange, prima che per difendermi – sentivo che qualcosa non andava, che quello era un agguato. Per un momento ho sperato che si trattasse di ladri – si legge tanto sui giornali di giovinastri che a notte aggrediscono pacifici passanti - sperai che fossero dei ladri, delle oneste canaglie, ci avrei rimesso i soldi, l’orologio. Pazienza. Ma quando uno di quei ceffi ti sorrise quasi approvandoti, capii che c’era sotto un inganno, gli sorridesti. Tu avevi il coltello e mi ferivi, Solange. E mentre mi spingevano nel portone di quell’albergo-bordello e mi dibattevo tradito, senza coltelli, continuavi a sorridere, Solange. - Farà meglio a sdraiarsi un poco. Era la voce dello sconosciuto che mi veniva dal buio. Gli ho obbedito senza volontà e l’uomo ha ripreso a parlare, dopo un sospiro che giudicai ostentato: - Anche per me la prima notte è stata così. Non riuscivo a capacitarmi né a chiudere occhio. Poi ho parlato con l’avvocato: è giovane ma tanto in gamba, proviene da una famiglia di gente di legge, il nonno – dicono – è stato presidente della corte prima e poi senatore. Lei ce l’ha l’avvocato? Quello era l’ultimo dei miei pensieri, qualche altro ci avrebbe pensato. Mio fratello dice sempre che gli lascio il lavoro sporco e che a volte gli pare di essere la mia balia. Stavolta è davvero così. Lungo le scale mi dibattevo ancora, ed è stato lì che il grassone mi ha sferrato il pugno che mi ha fatto perdere i sensi. Mi hanno rinchiuso in una stanza che odorava di naftalina, non so dove condussero Solange, forse in un’altra stanza dove si festeggiava la cattura del pollo o a scrivere una lettera a mio fratello: mio fratello ha molti soldi, non è un mistero, non so come li ha fatti, ma li ha. Mi svegliarono più tardi alte grida. Qualcuno litigava in una stanza vicina, si udirono delle imprecazioni, una voce di donna che implorava “Non lo fare, non lo fare” e, poi, inorridita, “cosa hai fatto, Michele?” Qualcuno di quei tipi doveva chiamarsi così, Michele. Che ore saranno state? Non avevo più il mio orologio né il portafogli, qualcuno deve avere socchiuso la porta lasciando cadere qualcosa sul pavimento – il coltello? – stavo cercando cosa fosse, tastoni nel buio quando m’ingiunsero di alzare le mai. Mentre mi riparavo gli occhi dalla luce di una torcia elettrica fui colpito da un calcio in pieno petto. Erano poliziotti e malgrado il dolore sospirai di sollievo. Vidi che sul pianerottolo, il grassone rantolava nel suo sangue. - Si sieda. Credevo fosse ancora notte, ma albeggiava. Mi hanno ricondotto nella stanza dove la ragazza del calendario sorride esortando a bere Coca-cola. - Si sieda. Al posto del barbagianni ora sta seduto un giovane che dall’aspetto sembra un religioso. Sarà il colletto bianco della camicia che fuoriesce appena dal pullover scuro a rafforzare quest’impressione. Mi aspetto che parli in latino. E’ l’altro a parlare, invece, l’inquirente di prima. Mi porge l’orologio: – Se lo riprenda, ingegnere. E’ un bell’orologio, ma stia attento alle persone che frequenta, alle cattive compagnie. - Quali persone? - La signora…, la donna dei quadri – sorride compiaciuto della battuta. – Di quadri o di picche, sempre donne sono e la donna è danno… La ragazza del calendario è tornata a sorridermi, mi offre Coca-cola. Avrei bisogno davvero di bere, perché, senza voce, chiedo: - Solange? – e mi ricordo che significa angelo solitario. - Le ha detto di chiamarsi così? Vada per Solange, ma in realtà si chiamava Rosalia Spinelli ed era usata come esca da una banda di malfattori che tenevamo d’occhio da qualche tempo. L’abbiamo arrestata stanotte alla stazione. L’angelo solitario stava per prendere il volo. O Nat, vecchio pazzo, poeta! E anch’io, non meno pazzo di te, felice di andare in giro con un angelo! La ragazza del calendario sorride ancora, ma sono diventato diffidente, mi è passata la sete. Chiedo se posso vederla un momento, un momento solo. L’uomo che sembra un religioso e non ha ancora parlato leva gli occhi dal documento che sta esaminando per dire no. Capisco che è una risposta definitiva e mi rassegno, in fondo, a cosa servirebbe rivederla? - A cosa servirebbe rivederla? Cosa potrei dirle? – mi chiedo lungo le strade illividite dell’alba, che ripercorro da solo. Mai stato così solo. Di già qualche spazzino cerca vanamente di rendere più puliti la città e il mondo. Ritratto a memoria All’alba di stamani un uomo è stato rinvenuto cadavere a bordo della sua utilitaria nei pressi del santuario di Santa Rosalia, una località tra le preferite dai turisti e dalle coppiette clandestine. (Dai Giornali) Sì, veniva a mangiare qui da noi; non tutti i giorni, ma assai spesso. Di festa non veniva mai. Sedeva, quando gli era possibile, a quel tavolo all’angolo, sotto il ventilatore.Cominciò a venire d’estate, me ne ricordo perché il ventilatore gli dava fastidio, ma si ostinava a preferire quel posto all’angolo. Non era di gusti difficili. Prendeva mezza porzione di spaghetti e una bistecca ai ferri con un po’ di insalata. Non beveva molto vino, appena un quartino che mischiava con acqua minerale. Una volta, è stato quest’inverno, chiese ancora del vino e per poco non arrossiva come un ragazzo. Un’altra volta, ma solo una volta, chiese un’intera bottiglia di un vino di marca, non ne lasciò una goccia, e al cameriere che se ne era meravigliato spiegò: – Non è che non sia possibile bere un’intera bottiglia di quel vino, ma non tutti se la meritano. Noi lo chiamavamo “il dottore” per via dell’aspetto distinto e perché lasciava la mancia. Può darsi che non lo fosse, ma, in ogni caso, con tanti dottori che circolano, è meglio mettersi al sicuro.Doveva avere un buon carattere. Era paziente nei giorni che avevamo folla, capita soprattutto di venerdì. Si seccò una sola volta col cameriere, c’era assai gente, alcuni forestieri e degli elettricisti che lavoravano nei paraggi, e ha dovuto aspettare un poco.- Lei mi fa perdere il treno! – disse al cameriere. Non sapevamo che avesse un treno.Veniva solo, un paio di volte e venuto con un collega, un tale dai capelli tutti bianchi e la faccia di ragazzo. Una sola volta venne con una donna, giovane, bionda. Il tipo nordico. Si era d’inverno, la donna aveva una pelliccetta spelacchiata, forse coniglio. I francesi lo chiamano lapin. Un ottimo collega, tutto sommato. Aveva dei momentacci, ma, a saperlo morto, non ci pare giusto giudicarlo da quelli.Era venuto dalla provincia da circa un anno; non si è mai capito se per punizione o promozione: da noi le due cose si confondono facilmente, come effetto sono identiche. Come sotto le armi: - Bravo, fai tre giri di campo! – Male, fai tre giri di campo!Nel suo lavoro se la cavava bene, aveva dei numeri ma non doveva piacergli molto. Lo svolgeva bene per puntiglio, faceva tante altre cose per puntiglio. Il dottor Graziani che si occupa dell’amministrazione del personale, lo consultava sempre per le decisioni importanti. Era preparato ma non zelante, se zelante vuol dire far le cose con fervore: faceva le cose senza fervore e talvolta ostentando disinteresse, quasi strafottenza.Non si tirava mai indietro nelle iniziative di solidarietà con altri compagni ed era sempre pronto a darti un consiglio come a offrirti il caffè. Per il resto era un uomo inaccessibile, non capivi se certe cose le dicesse sul serio o scherzasse. Aveva spesso l’aria di pigliarti in giro.Aveva periodi di luna, momenti di depressione senza alcuna ragione apparente. In ogni caso doveva essere un individuo complicato malgrado l’apparente semplicità.Si faceva allegro quando gli giungevano lettere del fratello. Aveva un fratello prete che si era fatto trasferire nel nord per sfuggire una ragazza di cui si era invaghito. Non riceveva altre lettere. Ogni tanto gli telefonava una donna, non sappiamo chi fosse. Una donna.Una volta senza un serio motivo si è messo a sbraitare contro la società dei consumi, come se noi appartenessimo a un’altra. Diceva che offre frigoriferi e automobili in misura eccessiva e risparmia su scuole e ospedali. Se la prese con un nostro collega, il ragioniere Ambrosini, un buon diavolo, come se la società dei consumi l’avesse inventata quel poveraccio. Aveva spesso di queste uscite.Di buono aveva, però, bisogna dirlo, che non cercava di danneggiare i compagni, né teneva a fare carriera. Se avesse voluto… valeva più di altri che a furia di inchini e sgambetti si sono fatti avanti. Era orgoglioso: – Ho la schiena di vetro, - diceva. – Se mi inchino corro il rischio che mi si spezzi. Dio se era orgoglioso! Una volta chiese al dottor Graziani se per caso lo avesse scambiato per un tappeto. Noi tremavamo per lui, perché il dottor Graziani non è il tipo da farsi posare mosche sul naso. Ma la cosa finì lì e non gli hanno fatto niente.Aveva momentacci come tutti, ma nei momenti difficili riusciva a mantenere la calma, una calma che ti mandava in bestia. Viveva separato dalla moglie – separazione legale – e vedeva raramente suo figlio, ne parlava qualche volta intenerendosi, ma avveniva raramente e con pochi intimi.Nessuno, almeno qui, in ufficio, sapeva che soffrisse di cuore o che un infarto lo avrebbe ucciso. Nemmeno lui doveva saperne niente anche se nei suoi discorsi la morte era un personaggio presente. Era grigia Mondello in quell’autunno. I juke box tacevano e i caldarrostai innalzavano segnali di fumo verso il cielo ammainato. E’ questo il punto: la gioia di vedersi, di stare insieme, non ha saputo resistere alla mestizia di quella stagione, anzi, direi che quasi ne assorbisse gli umori. Correvamo un rischio grosso, quello di fare della nostra storia una malinconica avventura da canzonetta. Mi propose di lasciarlo.- Sei stata un dono meraviglioso che io non mi aspettavo più dalla vita. Ma avresti torto a buttarti via. Scordami e vivi la tua vita, anche se per nessuno, dico per nessuno, tu sarai ancora tutte le cose che sei stata per me. Non ebbi coraggio di lasciarlo, allora. Pensavo si trattasse di uno dei suoi momenti neri divenuti più frequenti negli ultimi tempi ma che, comunque, sarebbe passato. Ero ancora affascinata dal suo personale modo di vedere le cose e di esprimerle. Forse un ingenuo innamoramento per la forma, ma pensavo di amarlo, di essere la sola ad averlo capito veramente. Di un uomo apprendi subito se ha i baffi o non li ha, il colore degli occhi, se porta il cappello. E parli dei suoi occhi, dei suoi baffi, del suo cappello. Raramente ti soffermi a pensare che è la somma della gente che ha incontrato, delle cose che odia e che ama, delle, cose che ricorda e persino di quelle che ha scordato. Forse è vero che siamo anche ciò che mangiamo. Non sapevo niente di tutte queste cose. Parlando mi apriva spiragli di un mondo nuovo, nuovi luoghi dove la mia anima desiderava abitare. Ero incantata dalle sue parole sebbene ne intuissi un’oscuro pericolo. Si sa di serpenti che attraggono gli uccelli e li divorano. Sapevo che pranzava in una piccola trattoria di terz’ordine, dalle parti del porto. L’aveva preferita ai self service che trovava deprimenti. Mettersi in fila col vassoio in mano gli faceva pesare di più il fatto di essere un forestiero, un uomo senza famiglia. Non sono mai stata in quella trattoria dove diceva lo trattavano bene e lo chiamavano persino “dottore”. Le poche volte che abbiamo cenato assieme mi ha condotto in buoni locali, sceglieva vini di marca e, scherzando, si lamentava non ci fossero zigani a suonare il violino. Quella sera, parlo dell’ultima sera, mi trovavo con lui a bordo dell’auto dove lo trovarono il mattino dopo. Era passato a prendermi: - Sali, altezza. Mi chiamava “altezza” da quando gli avevo detto che ai tempi della rivoluzione francese sarei finita sulla ghigliottina. Non amo gli atteggiamenti populisti e mi infastidiva che un uomo della sua intelligenza e sensibilità assumesse pose socialisteggianti. - La mia intelligenza non uscirà menomata dal fatto che altri uomini abbiano lavoro, pane, dignità. Io non mi ritengo ricco in misura di come gli altri sono poveri. E poi – aggiungeva scherzando – se qualcosa mi rende diverso e migliore di altri, e l’immeritata fortuna che ho avuto incontrandoti. Non sapevo se gli volessi bene. So che aspettavo di vederlo, contavo i giorni, so che mi piaceva ascoltarlo e ridere delle sue battute che mi sembrava aprissero spazi su nuove dimensioni dell’intelligenza. Così mi pareva. Mi parve così per molto tempo. Ma quella sera che si sentì male e mi intimò di andarmene, me ne andai lieta che me lo avesse chiesto. Un gesto vigliacco, ma non potevo rischiare di farmi trovare lì con un uomo che – lo capii chiaramente – non amavo, un estraneo dall’eloquio brillante, niente di più. Non dovevo buttarmi via. Corsi a casa e stiedi male. Dissero che avevo preso l’influenza e finsi di crederlo anch’io. Ho battuto i denti tutta la notte mentre nelle orecchie mi risuonavano strazianti le note della canzone che avevamo ascoltato assieme in un bar poche ore prima che morisse. Non sono riuscita, sin’ora, a piangere una sola lagrima. Quando mi son sentita meglio son corsa guidando come un’automa, senza ragione, all’aeroporto. Ho visto partire aerei e l’aria era tutta un addio. Sbaglierò, ma crescere è anche dire addio a tante cose, e io mi sentivo cresciuta, cioè grande da potere fare delle scelte. Dopo avere finto per anni la spregiudicatezza avevo scelto di vivere secondo le trite convenzioni. Volevo una vita ordinata, aspettare un marito, andare in chiesa coi fiori d’arancio, vestito bianco e tutto il resto. Quell’uomo era stato l’ultima pagina di poesia, le cose che una ragazza sogna. Mi abbagliavano le sue parole, ma dovevo svegliarmi e scegliere. Forse ho votato per la sua morte; se non fosse morto avrei dovuto trovare la forza di fargli un discorso, forse gli avrei scritto una lettera. Credo proprio che gli avrei scritto una lettera. La visita- Vedi, raramente ci viene a trovare qualcuno. Sarà che la casa è fuori mano, oppure perché non siamo gente simpatica, - sorrise. – C’è stato un tempo che avevamo molti amici, sia io sia Paolo, ma un po’ alla volta li abbiamo perduti per strada. Forse perché invecchiamo. La casa e il lavoro in realtà ci hanno invecchiati, non soltanto il tempo. Penso veramente che il fatto di avere una casa, possedere degli oggetti ci abbia spinto a condurre una vita appartata, se incontrassimo ancora la gente che abbiamo frequentata non sapremmo cosa dire. - Non si sa mai cosa dire incontrando la gente, poi le parole vengono da sole – osservò l’ospite. E intanto guardava le pareti piene di quadri, le poltrone del salotto buono dove non veniva a sedersi nessuno. - Nemmeno Paolo è più quello di una volta. Com’era Paolo, adesso? Seduto sull’orlo di una poltrona si guardava le unghie e sembrava uno in procinto di andarsene. Aveva cessato da tempo di occuparsi del giornale e si era arenato nel suo lavoro – un lavoro qualunque in un ufficio qualunque, tra gente qualunque – leggeva ancora dei libri ma non ne parlava con nessuno. Solo qualche volta con Marta, ma si trattava di brevi commenti, giudizi lapidari, che lei ascoltava fingendo un interesse che oramai non c’era più da tempo. - Mai lo stesso uomo torna a bagnarsi nella stessa acqua dello stesso fiume – stava citando Paolo con ironia. Ecco come era adesso: chiuso ed amaro, con Marta prigioniera nella stessa casa – la casa fuori mano – sottratta al mondo di cui era stato geloso. L’ospite allungò la mano verso il bicchiere scintillante per un raggio di sole che entrando dalla finestra socchiusa lo sfiorava e andava a posarsi sul grembo di Marta: - Il vino è buono da queste parti – disse, e Marta, premurosa, chiese se ne volesse ancora. “Dea della giovinezza, coppiera degli dèi” ricordò l’ospite, e guardando il viso bello, scorgendo per la prima volta una ruga sottile tra le sopracciglia, si sentì triste. Ricordò come ella usava vantarsi del professore che spiegava Sant’Agostino senza distogliere gli occhi dalle sue gambe. C’era un altro professore, però, un professore biondo che fumava la pipa, che non la guardava nemmeno, le poche volte che i loro occhi s’incontravano lei rimaneva senza parole… Clodoveo… Clodoveo… Chi era Clodoveo? - Con quello sarei andata a letto senza farmelo dire due volte. – L’ospite ricordava quella confessione: era accaduto in una sera di pioggia, lei aveva anche detto. – Mi piace stare con te quando piove. Ne era passato di tempo e ne era caduta di pioggia! Già sin da allora c’era Paolo, ringhioso e ostinato. – Gli rompo la faccia, - diceva di ogni nuovo nome maschile che veniva ad aggiungersi alla schiera degli spasimanti di Marta. Paolo era un cane ringhioso e lei, una farfalla che lo faceva apposta ad inventarsi tanti ammiratori, per indispettirlo: - …Un mio nuovo compagno con un viso bellissimo, l’ho guardato per tutta la lezione e speravo mi proponesse di accompagnarmi a casa. Ha una “Fulvia” azzurra… Un autobus giunse con un lamento alla fermata e ripartì senza avere raccolto nessun passeggero. Le luci si riflettevano sull’asfalto bagnato. – Mi piace stare con te quando piove. - Non ho un viso bellissimo, non ho una “Fulvia” azzurra e non fumo la pipa. – Si erano baciati a lungo nel buio dell’automobile parcheggiata nel viale deserto. Già allora nei loro discorsi c’era un preludio di addio. C’era anche Paolo nei loro discorsi, in un intrigo di sillogismi e paralogismi, contenuti e forme. Paolo e il suo amore tenace, le sue carte in regola, i fiori d’arancio. Com’era adesso Paolo? - Ti ritrovi più solo, sempre più solo. Scrivi un libro per incontrarti con la gente e, invece, ti esili nel deserto dei cosiddetti intellettuali. A volte ti senti una gallina che veste penne di pavone. Puoi anche scoprire che qualcuno ti legge nel cesso. Marta non lo stava ascoltando, perché chiese all’ospite: - Ti ricordi di Firenze? Firenze. Avevano fatto di corsa le scale ripide del campanile di Giotto. Ad ogni pianerottolo c’era un cartellino con la freccia: “Proseguire per la cima”. La vita era stata una febbrile scalata verso una cima irraggiungibile per ritrovarsi più soli con la testa intronata di vento. - Eravamo proprio matti, - proseguì Marta. - I pochi momenti felici li dobbiamo più alla follia che alla tanto celebrata saggezza – commentò l’ospite e lei ebbe l’impressione di avere già sentito quelle parole, l’impressione divenne certezza e si ritrovò di nuovo – ragazza pazza e felice – con l’uomo che ora le parlava ritornato da un tempo immemorabile. Paolo avvertì che dalle loro parole nasceva una forma di complicità, quasi ricominciasse un giuoco che lo escludeva. Guardò Marta: qualcosa di lei ancora gli sfuggiva, nessuno l’aveva mai posseduta interamente. Sentì di averle vanamente dedicato la propria vita e si chiese se fosse stato giusto, sia pure per amore, averle impedito di essere altrimenti felice. Bevve un lungo sorso di vino e desideroso di partecipare ancora a quel giuoco, in fondo sciocco, nel quale lei – sempre lei, sin dai lontani giorni di scuola – distribuiva le carte, per ottenere ancora cittadinanza in quel mondo di ricordi dove l’ospite e la sua donna si muovevano disinvolti, per non sentirsi un intruso in quella casa che – perdio! – era la sua casa, disse timidamente: - Anch’io ricordo Firenze. I due lo guardarono, la donna quasi infastidita da quell’intromissione inattesa: - A Firenze non eri con noi. Era vero. A Firenze non era stato con loro, qualcosa doveva avergli impedito di partecipare alla gita, e a distanza d’anni gli toccò risoffrire per quelle gioie – effimere sin che si vuole – che non aveva condiviso con Marta; e anche ora rischiava di non essere con loro, con Marta. Quasi un’ombra più scura o un oggetto posato sull’orlo di una poltrona. L’ospite si alzò dopo un’occhiata all’orologio e mentre prometteva che sarebbe tornato a trovarli, pensava che non l’avrebbe più fatto. Semmai avrebbe potuto telefonare in un’ora che Paolo non ci fosse: avrebbe volentieri incontrato la donna che gli ridestava l’eco di morte primavere, ma non sarebbe tornato in quella casa così fuori mano. Quando, dopo i soliti convenevoli, i due ebbero chiuso la porta alle spalle dell’ospite, si ritrovarono ancora soli, con l’antico odio e l’antico amore. Fu Paolo a reagire per primo: - Non faceva che guardarti le gambe, quel cretino. Gli avrei rotto la faccia. - Ma cosa vai dicendo… - si schermì la donna, ma ne era lusingata. – Da quando ti conosco vuoi sempre rompere la faccia a qualcuno. Paolo la prese per le spalle costringendola a distendersi sul divano: – Forse dovrei rompere a te la faccia, questo bel faccino, e tutto sarebbe risolto. Lei sentiva l’alito odorante di vino, poi la mano che s’insinuava tra le sue vesti, impaziente, nervosa, con un tremito antico e innocente. Dalla finestra entrava fioca l’ultima luce del giorno e lei pensò all’altro uomo che forse davvero le aveva guardato le gambe. Se l’ospite fosse rimasto avrebbero potuto ancora parlare, di tutto meno che di amore. Non era più l’invenzione esaltante – Proseguire per la cima! Proseguire per la cima! – ma una parola appesantita da millenaria tristezza. Sapeva che per qualche tempo sarebbe tornata a pensarlo con struggimento sottile – le era già accaduto una volta – a non potere dormire, a ripeterne le parole sentite sino a farne parole sue, prima di riconfinarlo nel limbo dei ricordi che non fanno più male. I suoi vestiti ora giacevano sparsi sul pavimento e così, nuda, le parve di essere indifesa contro Paolo, contro il mondo; di essere stata sempre così e di non avere mai, in realtà, deciso di nulla; di non aver potuto mai nulla contro la vita, il tempo, l’amore che ora – lo aveva appena pensato – era soltanto una parola intrisa di tristezza. Questo avrebbe dovuto dirlo all’ospite qualora fosse tornato. Paolo la stava baciando sul collo. Lo strinse forte a sé e chiuse gli occhi e non pianse. Squillò il telefono. Dal mondo giunse disperante un richiamo: gente nasce, gente muore, crolla la borsa, fioriscono mimose; precipitano aerei e ragazzi si amano nell’ombra; si combatte una guerra in qualche posto, ci invitano a un concerto… Il pianoforte distilla note di arsenico: mi – re- mi – re – mi –si re- do- la… e la pioggia scroscia sui viali deserti della giovinezza, sulle strade che abbiamo percorso e che non ritroveremo mai. Disperato squillò ancora. – Non rispondiamo, - dissero insieme. – Non rispondiamo. L’aquiloneStava seduto in terrazza con un libro, un giallo, tra le mani. Scendeva la sera. La scarsa luce non gli consentiva di continuare a leggere sebbene il cielo fosse ancora chiaro, appena un po’ fosco a levante, dove s’incuneava tra le montagne. Aveva chiuso il libro mettendo tra le pagine, a segnale, un fiammifero spento e si era tolti gli occhiali passandosi una mano sopra gli occhi stanchi. Il libro narrava di una donna bellissima trovata uccisa in una camera d’albergo. Pugnalata alle spalle. Il detective aveva scosso la testa e aveva annotato i particolari della stanza con puntualità un po’ pignola, la porta chiusa dall’interno, la finestra al settimo piano, inaccessibile, tre bicchieri sul tavolo di cui uno lasciato a metà. Alla fine del capitolo, davanti ad un bicchiere di whisky, scuoteva ancora la testa. Una donna bellissima. Ci vuole sempre una donna – meglio se bellissima – per animare una vicenda, per dare vita ad una avventura. Senza la donna, l’avventura non ha luogo ed è come stare seduti in terrazza, soli, in una sera di giugno, mentre si accendono luci in paesi lontani con altri vecchi in terrazza, soli nella stessa sera di giugno, e con camere d’albergo vuote, senza donne uccise o da uccidere. Dalla vicina chiesa giunse il rintocco di una campana e la voce del prete, amplificata dall’altoparlante riuscì a far giungere esortazioni e preghiere, se non al cuore, alle orecchie di tanti fedeli, impedendo – nel nome di Dio – il proseguire di eventuali conversazioni e confidenze su argomenti futili o, comunque, irreligiosi o irriverenti. D’inverno era stato più triste, perché ci sono molti rapporti per un vecchio tra quella stagione, la preghiera e la morte - per tutti gli ammalati. Ave Maria… - mentre ora le campane sembravano sollecitare le rondini a tornare ai loro nidi: curri cruvacchia ca i figli t’arrobanu…Tra gli ammalati da ricordare nelle preghiere, adesso c’era anche la figlia. Ecco perché era rimasto solo nella casa silenziosa, col suo romanzaccio e i suoi pensieri: la moglie era accorsa accanto alla sua bambina. Così la chiamava mentre bambina non era più da tempo. Aveva assunto un volto sapiente e severo, ed il cuore – faceva pena pensarlo – le si era inaridito o lo aveva sostituito con uno di quei tetri libroni che parlano di leggi e di diritto. L’ultima volta che si erano trovati assieme in una pizzeria per una di quelle feste dove non si sa cosa si festeggi, l’aveva sentita parlare con competenza di ordinamento giuridico, riassetto di carriera, coefficienti e corsi abilitanti. Povera piccola. Da bambina le si accendevano gli occhi di gioia se un uccello si posava sul davanzale, per una farfalla intravista, per un fiore o un colore. Anche ora le si accendevano gli occhi per un decreto legge o una sentenza, ma di una luce fredda, senza fuoco. Uccelli, farfalle e fiori erano morti. Come avevano fatto a morire? A saperla così arida si meravigliava a volte di sopravviverle. Non soltanto in camere d’albergo si uccidono creature. La morte si sconta ogni giorno in posti dove si ha la pretesa di organizzare la vita e invece si finisce col negarla. Eppure aveva creduto di moltiplicarsi in quei figli tanto diversi nei quali, ora, si sentiva tradito, senza cattiveria, ma tradito. I tempi erano mutati e molti valori decaduti. Le strade, fuori, s’incrociavano con altre, erano una rete gettata sul mondo. Su quella aveva scritto, o si era illuso di scrivere, la sua effimera leggenda di uomo, moltiplicandosi nei pensieri di altri uomini incontrati, in quelli di ogni donna amata sia pure per un breve momento. Ordinamento giuridico, robotica ed ordine che decreta la morte degli dèi. Certificato di residenza, passaporto, numero di matricola, cartella clinica, scheda per la questura e infine certificato di morte. “La morte risale alle ventitré circa di ieri sera”, dice il medico dell’albergo, i fattorini concordano, uno l’ha vista al bar assieme ad un signore alto, vestito di scuro… Il detective scuote la testa come nel primo capitolo, la sua intelligenza diabolica deve essere di quelle da agitare prima dell’uso. Nel disegno di copertina la donna appare in tutta la sua bellezza, coi capelli biondi sparsi sulle spalle e il seno scoperto come è giusto stare quando si aspetta qualcuno – un acrobata – che verrà per pugnalarci alla schiena. Ma al quarto capitolo una donna di stesso nome viaggiava su un treno e nella valigia custodiva un documento segreto a leggere il quale molte cose si sarebbero chiarite. Era stato a quel punto che il vecchio aveva sbadigliato e guardato il cielo pallido dove si levava un aquilone di un azzurro più forte attraversato da strisce gialle, che a poco a poco, però, perdette quota e cadde in un cortile salutato da un coro di voci deluse. La donna del treno aveva lo stesso nome della donna uccisa, viaggiava col suo documento segreto e fumava una sigaretta dietro l’altra. Viaggiava, quasi resa immortale dall’altra uccisa al suo posto e un uomo la stava aspettando in una stazione guardando di tanto in tanto l’orologio. Treni e donne più non passavano attraverso la vita del vecchio, soltanto il cielo rotava sopra la sua testa affollata di ricordi. Ricordò che una volta – da giovane – aveva atteso una donna alla stazione guardando l’orologio come l’uomo del romanzo, e il tempo sembrava non passare mai. Una vecchia storia d’amore senza amore o semplicemente un amore senza storia. Soltanto un flirt. Questo il vecchio lo disse forte, quasi a volersene convincere: “Era soltanto un flirt.” La donna era arrivata. – Speravo che tu non fossi venuto ad aspettarmi, mi sento uno straccio. – I soliti convenevoli. – Sei bellissima. Nella camera d’albergo dove poi l’aveva condotto s’era dimenticato di ucciderla, sarebbe stato un romanzo anche quello, ma non la uccise e non fecero l’amore. Lei si vantava di altri uomini che le facevano la corte. - Forse, se ti vedessi più spesso finirei con innamorarmi di te. -Lo so, - aveva risposto. Ora era lei che guardava l’orologio, perciò aveva detto. – Il tempo felice non passa attraverso gli orologi. – A ricordarle gli sembravano parole dette da un altro. “Un flirt. Lo ripeté per la seconda volta guardando le strade sulle quali non avrebbe più scritto la sua illusoria leggenda. Era una vecchia nave in disarmo, come ne aveva visto in certi porti, coperte di ruggine e muffa, divorate da tarli tenaci, una vecchia nave rimuginante i ricordi di una giovinezza che gli aveva sbattuto in faccia le sue porte d’oro. Guardò le montagne, imbruniva, qualche lume si accendeva nelle case lontane A quell’ora anche la sua vecchia usava accendere la lampada e gli chiedeva se volesse del latte, insistendo al suo rituale diniego. “Devi mangiare qualcosa, se metti pane al dente, la fame si risente ”, gli diceva. Il ronzio del frigider gli ricordò che doveva mangiare qualcosa, ma non si mosse. La donna della copertina gli ricordò un viso noto incontrato chissà quando, chissà dove. Giù, nella strada, una voce giovane accennò le note di una canzone d’amore. Conosceva la ragazza che cantava: non era una vera bellezza ma dal suo seno erompeva la forza della vita, il suo corpo sinuoso avrebbe reso insonne l’amore. Non doveva affacciarsi. Non era una vera bellezza ma, a guardarla, un uomo poteva anche perderci la testa, e la testa serviva a ragionare, magari per redigere l’inventario delle cose perdute. Perché alla fine è di questo che si tratta. Lo disse forte: “Si tratta di questo”. Nella strada la canzone si era taciuta e il vecchio si sentì più solo. Essere rimasto solo gli parve un ulteriore segno di disinteresse del mondo nei suoi confronti, dopo essersi creduto per molto tempo al centro dell’universo. Dagli ulivi sotto casa saliva una marea di silenzio. Riandò col pensiero a quell’antico amore – era amore, perché negarlo oramai? - come cercando un’ancora, un senso e un significato al suo tempo. Si sporse verso la sera che si era levato un filo di vento, guardò il cielo e non c’erano aquiloni. A Favara con mio padreTese l’indice verso l’orizzonte: - Lo vedi il mare? Lo vedi? No, non si vedeva il mare. Soltanto una nuvola azzurra, indistinta, adagiata dove la campagna finiva. Dissi però che lo vedevo. Quel mare doveva averlo veduto in giorni più chiari, durante la sua infanzia a Favara – un paese che ha forma di pesce – e ora lo ricordava soltanto. Nemmeno sulla forma di pesce ero d’accordo, ma non lo contraddissi. Non volevo scoraggiarlo in quel volersi aprire alle confidenze. Ridiscendemmo aggirandoci per strade evocatrici di ricordi. – Vicino a quell’abbeveratoio una mattina hanno ucciso un uomo. Era salito sul muretto per montare sull’asino, gli hanno sparato da una finestra della casa di fronte e non si è mai saputo più nulla. Ogni tanto mio padre chiedeva di qualcuno dei suoi antichi compagni; spesso gli rispondevano che era partito da gran tempo o che era morto. - Fu in quella piazza che il nonno – erano i tempi di quella carogna di Crispi (dice proprio così: quella carogna) – assieme ad un suo amico altrettanto robusto, tenne immobile, a mezz’aria, un tenente dei carabinieri lanciato alla carica e il suo cavallo. Il tenente strillava. – Mettetemi giù, briganti! Anche allora, solerte, la patria rispondeva coi carabinieri ai bisogni della povera gente. Il nonno era un bell’uomo. Alto, forte, coi baffi. Sapeva leggere e scrivere, pizzicare la chitarra. Cantava belle canzoni. Quella volta si scioperava perché gli zolfatari volevano un aumento di paga e la riduzione dell’orario di lavoro. Ancora non c’erano pozzi di estrazione o piani inclinati nelle miniere. Lo zolfo veniva portato fuori a spalla per scale interminabili, tra bestemmie e rantoli, dai carusi. “Caruso” non è l’equivalente dialettale di ragazzo. C’erano carusi di nemmeno otto anni, è vero, ma ce n’erano anche già uomini fatti, con le barbe bianche. Forse li chiamavano così perché malgrado tutte le rivoluzioni non li consideravano ancora uomini. Negare loro questa qualità comportava anche un risparmio sulla retribuzione, infatti, non venivano retribuiti come uomini, ma come “carusi”, ragazzi, per l’appunto. Ci aggiravamo per le vie del paese chiedendo in giro di altri morti e di altri emigrati. - Non c’erano pozzi. Il primo è stato fatto alla miniera Trabonella, il secondo alla miniera Lucia, entrambi da Luigi Luzzatti. Il nonno lavorò al primo piano inclinato realizzato alla Fanzirotta, mentre vi lavorava corse il rischio che le mine gli esplodessero addosso. Alla miniera Fanzirotta, gli operai si recavano guadando un fiume. Ci furono tempi in cui i ragazzi, giunti alla riva opposta, fradici e tremanti, venivano derubati del pane. Finì che molti di pane non se ne portavano più e mangiavano carrube come i cavalli. Le campagne erano piene di latitanti, gente che non voleva andare in guerra. Ma anche prima della guerra non erano tempi allegri. Molti dopo una settimana di duro lavoro apprendevano che, detratte dal salario le spese per cibo ed esplosivo, rimanevano a debito; molti non rientravano a casa per lunghi mesi e passavano la notte, accucciati come bestie, al tepore dei forni di fusione. - Il nonno riusciva a guadagnare: era un uomo di grande abilità. Sapeva leggere, scrivere, calcolare in metri cubi lo zolfo prodotto nel proprio cantiere. Sapeva suonare la chitarra e cantava belle canzoni (Come un sogno d’or/ svanì per sempre…). Sapeva difendere il suo lavoro. Non bastava lavorare, era necessario non farsi truffare. Il nonno era morto da gran tempo quando venne la guerra. Alcuni per non andare in guerra si sono rovinati ricorrendo a pericolosi espedienti, rimettendoci la vista; altri giunti al fronte si sparavano su un piede, attraverso una pagnotta di pane, e venivano così rimandati a casa, cioè alla miniera. La miniera è stata da sempre per questi paesi che non hanno niente, fonte di vita e calvario. Quando tornarono i reduci della guerra quindici-diciotto, una nuova ondata di crimini si abbatté sul paese; i giovani che avevano combattuto per una Trieste lontana dal loro cuore e dalle loro cognizioni geografiche, non volevano tornare al vecchio giogo, non volevano riconoscere debiti verso i padroni rapaci. Eppure proprio per i padroni avevano fatto la guerra, come tutte le guerre che si fanno. Quando si ammazza o ci si fa ammazzare per una Trento o una Trieste mai prima sentite nominare, si può anche ammazzare per non portare lungo scale infinite, bestemmiando Dio e la madre, un sacco pesante di zolfo contro un magro compenso che serve, in parte, a soddisfare un vecchio debito divenuto, per via degli eventi intercorsi, addirittura assurdo. “Si seminano cavoli e nascono briganti”, dirà il maresciallo dei carabinieri veneto o lombardo, ignaro e lontano della realtà del paese e dal suo travaglio, saldamente ancorato allo stipendio modesto ma sicuro, ruminante aggiogato alla carretta dello Stato, ospite fisso nella sua mangiatoia. Nascono ladruncoli e briganti, ma è anche vero che esistono reali condizioni di svantaggio per infilare la porta stretta dell’onestà. Era già pomeriggio quando trovammo alcuni degli antichi compagni di mio padre. L’incontro non avvenne senza commozione. Era gente incatenata ad un passato che non riusciva a superare, e questi incontri avevano il merito di farlo riemergere e conferirgli nuova forza, lo rendevano quasi attuale. Attorno a un tavolo ingombro di bicchieri e bottiglie, con la porta chiusa, come congiurati, mentre fuori il sole splendeva, rimuginavano di antiche sofferenze e ti torti veri o soltanto immaginari. Una donna senza età, dal viso di rughe profonde, ci serviva in silenzio; sospirava di tanto in tanto. Doveva avere sentito migliaia di volte quei discorsi, forse ne conosceva tutta la vanità e la pena. Ebbi la sensazione che ci trovassimo stretti in una rete, assurda, senza uscita: forse a causa del vino, forse perché fuori splendeva il giorno mentre la lampada accesa sul tavolo creava una notte artificiale. Ognuno inseguiva un suo discorso, incurante che gli altri lo ascoltassero. La miniera era presente in tutto quel parlare, come se al mondo non ci fosse stato mai altro (ma il nonno aveva suonato la chitarra, cantato belle canzoni: … La gioventù passata allor sarà/ rimpianto resta sol… e non aveva conosciuto la stagione dei rimpianti). La miniera aveva operato su quegli uomini una deformazione che andava oltre le spalle curve, i corpi offesi e feriti. Ora li possedeva interamente, pensieri e anima – quasi come i corpi che non aveva più restituito alla vita – non dava più loro il pane quotidiano, ma continuava a fornire quotidiano veleno per i loro discorsi al tramonto. Soltanto uno, in tutto quel parlare, stava zitto sotto il berretto nero per via di un recente lutto. Ricordava un ritratto di Machiavelli che avevo veduto in un libro. Mio padre chiese di pagare il conto. Tutti si opposero, ma mio padre finì per pagare lo stesso secondo la sua antica abitudine. Allora Machiavelli parlò tra il silenzio degli altri che scuotevano gravi la testa in cenni di consenso. Disse che mio padre, senza quelle mani bucate, avrebbe potuto, meglio che tanti altri, farsi una posizione rispettabile; disse che molti altri – gente che non valeva niente – avevano messo su casa propria, fatto laureare i figli, aperto negozi: alcuni avevano l’automobile e interessi a Girgenti. Questo e altro disse Machiavelli. Io guardai le mani di mio padre: belle mani che oltre mezzo secolo di duro lavoro non avevano deformato; mani forti e gentili ad un tempo, lievi quando, ragazzo, mi aggiustavano il ciuffo sulla fronte. Lo ringraziavo in cuor mio per quelle meravigliose mani bucate che avevano saputo dare. Se avesse avuto delle mani rapaci, di quelle che tolgono qualcosa a chi non ha niente, mi sarei vergognato e non avrei avuto il coraggio di guardare in faccia quella gente che benché ignorante, incolta, avvinazzata, aveva chiara coscienza di avere subìto una frode. Un affetto Ora passeggiava per strade inondate di sole. Il cielo in alto era azzurro come lo aveva sempre ricordato e qualche volta rimpianto; nell’angolo della piazza sedevano, come sempre, davanti al loro circolo, i nobili della città. Ricordava anche loro così, senza una fisionomia precisa: un insieme di vestiti chiari, cappelli di paglia, occhiali, giornali; i loro sguardi spesso calamitati dal passaggio di una donna, il mormorio che ne seguiva. Perché mai la nostalgia, nostalgia di tutto questo, lo prendeva qualche sera mentre, tutto solo, andava per le strade della grande città straniera? Perché nostalgia? Le ragazze anche qui avevano cominciato a portare vestiti cortissimi, avevano belle gambe, visi graziosi. Ma non ne conosceva nessuna e le sapeva inavvicinabili. Non gli capitava nemmeno di incontrare gli amici di un tempo. Se incontrava ogni tanto qualcuno, lo mollava non appena questi cominciava a narrargli i suoi guai: non voleva sentire lamenti, ne aveva sempre sentiti a casa sua e dappertutto, se ne ricordava come si ricordava quel cielo azzurro e i nobili innanzi al loro circolo. E poi, perché proprio a lui? Era forse tornato dall’America? A pranzo, con molta prudenza, il cognato gli iniziò un discorso che avevano già inutilmente tentato altre volte: - Qualche soldo da parte ce l’hai. Perché restartene fuori casa, solo? Potremmo metterci insieme, ingrandire la pasticceria: saresti il padrone. Figlio di pasticcere e pasticcere a sua volta, il cognato non poteva, onestamente, proporgli cosa diversa, e la madre lo avrebbe ben visto inserito nella piccola azienda familiare, anziché lontano di casa e sperduto nel vasto mondo, perciò incalzò: – Ti trovi una brava ragazza, ti accasi: ormai non sei più un ragazzino. Angioletta, sua cugina, si era fatta tutta rossa e con un pretesto era scappata in cucina, lei sapeva che zia Teresa quando parlava di “brava ragazza” pensava a lei, non ne conosceva altre, e poi lo aveva sempre detto di vedere in lei la figlia femmina che il Signore non le aveva dato, lei che aveva la mano tanto leggera nel fare le iniezioni, come nessun’altra. Glieli facevano da tempo quei discorsi, ma finiva sempre col ripartirsene: il mondo era grande, perché restarsene in quel buco. Un cielo azzurro per quanto immenso non può bastare. Investire il frutto delle proprie fatiche in una pasticceria e mettersi dietro il banco a servire i clienti, piccoli ladri che gli avrebbero sempre rimproverato le sue origini di zolfataro? Magari avrebbe dovuto salutarli “bacio le mani”, quelle mani che febbrilmente contavano il denaro, frutto di prestiti ad usura e si infilavano sotto le gonne delle serve che lasciavano correre per non rimetterci il pane. No, grazie. La brava ragazza l’aveva anche in Germania. Non lo era nel senso che dava la madre a questa parola, cioè timida, introversa, ignorante. Forse non sapeva fare iniezioni. Ma non è cattiva una ragazza che dedica parte del suo tempo a lavare le tue camicie ed aspettare alla finestra, sino a notte, che tu ritorni. La ragazza che ti ha ridato la gioia di essere uomo quando il tuo cuore sembrava dovesse schiacciarsi sotto il peso del suo destino d’esilio. Ma la sera, a cena, il cognato che aveva un suo piano preciso, tornò alla carica tra il consenso dei familiari che gli tenevano mano suggerendo argomenti e battute, e in presenza di Angioletta che per l’occasione indossava il vestito della festa: - Pasticceria. Ingrandire il locale. Accasarsi. Brava ragazza. Non sei più un ragazzino. – C’era proprio bisogno di ricordarglielo? Ognuno se la porta registrata nel cuore la somma delle proprie amarezze. Come altre volte, bastava lasciar correre, fare finta di non capire, ma avevano bevuto e qualcuno, senza malizia, s’incaricava di riempirgli il bicchiere che aveva dinanzi. Cosa volevano? Perché non si contentavano della rimessa mensile di denaro senza tediargli l’esistenza? Perché Angioletta non si trovava un ragazzo e la smettesse di fissarlo con quegli occhi di pecora? Gli volevano bene. Ma è proprio tanto necessario dare fastidio quando si vuole bene? - Nella pasticceria sarai il padrone e farai una vita di signore. Ma lui si sentiva già signore – più dei bifolchi che sedevano oziosi in quell’angolo della piazza davanti al loro circolo - ; si sentiva signore dappertutto, meno che in quel dannato paese dove non c’era modo di sfuggire ad un rigido schema che lo ricollocava di forza in una categoria di servi, malgrado si fosse ammazzato di lavoro per tornare con una grossa Mercedes. Era un signore le volte che se ne andava per le strade della capitale straniera, la mano nella mano di Monica. - Poi ti farai un appartamentino in uno dei quartieri nuovi, verso Sant’Elia, e tua moglie… Il suo silenzio rischiava di essere scambiato per consenso a tutto quel solerte argomentare, perciò disse: – Io voglio partire, perché volete legarmi ad una pasticceria? Io non sono un pasticcere e cosa sono non ve lo so dire. Gli era sembrato di dirlo pianissimo, ma lo aveva quasi gridato. Angioletta, con occhi rossi, era scappata in cucina con un nuovo pretesto, seguita dalla sorella più piccola che ne condivideva speranze ed ambascia, gli altri congiunti tacevano costernati. Sua madre, con occhi che urlavano “Ho perduto mio figlio!” girava attorno uno sguardo interrogativo, come a chiedere se tale sventura fosse davvero possibile, e se fosse giusto che capitasse a lei! Qualcuno opinò: - Forse in Germania si sarà creato un affetto… La madre si volse a guardarlo feroce: - Una puttana – sibilò, – una puttana. Il match 1 roundAveva accettato per via della borsa. No, oramai lo sapeva, la conquista del titolo era pura utopia; anche a vincere l’incontro di quella sera non l’avrebbe poi spuntata contro Joe il massacratore, non per nulla lo chiamavano così. La borsa. Anche a perdere era un bel gruzzolo e avrebbe potuto ampliare il locale che aveva aperto sulla riva del lago sin dall’estate precedente, dove i villeggianti venivano a cantare la sera “Firenze stanotte dei bella”. Firenze stanotte sei bella… E intanto furono fatti uscire i secondi. Al principio della carriera usava farsi il segno della croce all’inizio di ogni match. Per un po’ gli aveva portato fortuna, ma poi non gli era servito più a niente e aveva smesso. Lasciò l’angolo. L’altro era più alto e questo lo sapeva, ma non immaginava che fosse così giovane e così bello. Dalle fotografie non s’indovinava. I giornali non esageravano quando sprecavano per lui tutta una serie di aggettivi: elegante… bellissimo… scultoreo…Si studiarono con reciproca diffidenza mentre il pubblico schiamazzava. Riuscì a toccarlo un paio di volte al bersaglio grosso, ma d’improvviso un saettante sinistro lo raggiunse nel mezzo degli occhi. Massena lo aveva avvertito: - Cerca di combattere a distanza ravvicinata, e attento al sinistro. – Aveva ragione Massena. Uno stupido fotografo lo accecò col suo flash mentre una scarica lo colpiva ai fianchi. Il pubblico esultava. Reagì colpendo a sua volta, ma al nuovo assalto si trovò alle corde. Riuscì a piazzare un destro, ma gli occhi gli facevano male. Suonò il gong. 2 round- Bene, bene – disse Massena massaggiandogli lo stomaco. –Ma stagli appiccicato e tieni la guardia più alta: vedrai che non reggerà sino alla settima ripresa. Suonò il gong e Massena lo lasciò con una botta affettuosa sulla spalla. Era buono Massena. Ricordò quando a Parigi lo aveva salvato dalla fame, dopo che aveva trascorso una settimana a mangiare pane e ciliegie aspettando il vaglia di uno zio stanco di venirgli in soccorso. Il rivale aveva gli occhi verdi e sembrava gli sorridesse anche quando lo colpiva, per fortuna non molto forte. Un suo sinistro “telefonato” finì sui guantoni, poi riuscì a piazzargli un diretto alla mascella. Notò la smorfia di dolore che contrasse quella faccia di bambola e fu tentato di chiedergli scusa, ma il sinistro saettante lo colpì ancora duramente mentre il pubblico esultava con grande schiamazzo. Si ritrovò alle corde. La faccia di bambola – anche i capelli biondi erano di bambola – era vicinissima, non riuscì a colpirla, il suo destro venne bloccato mentre avvertiva una fitta in basso, nel ventre. La bambola aveva colpito sotto la cintura: l’arbitro non se ne accorse o lasciò correre. Riuscì ad aggirare l’avversario, a togliersi dalla posizione scomoda mentre veniva ancora raggiunto da qualche colpo di scarsa efficacia e la solita anima pietosa dalla platea gridava: – Ammazzalo! Ammazzalo! 3 round- Bene, bene – disse Massena.- Vedrai che dopo la settima ripresa sarà uno straccio. Ne potrai fare quello che vuoi. Ma prima che l’eco del gong si fosse spenta del tutto, la bambola, nel mezzo del ring – solida sulle gambe – attendeva. Ci fu uno scambio di colpi, leggeri, poi tornarono a studiarsi mentre il pubblico reclamava lo spettacolo, la lotta. Botte da orbi voleva il pubblico. Tornò a colpire ma senza efficacia. I suoi colpi si arrestavano contro la guardia stretta dell’avversario che indietreggiava a piccoli passi. Lo costrinse all’angolo e riuscì a piazzare un paio di colpi al bersaglio grosso. - Forse ha ragione Massena – pensò. – Prima della settima ripresa ne farò quello che voglio. Non sorrideva più la bambola. Ebbe qualche incertezza e si appoggiò alle corde. Forse era stanco, forse era già stanco. Aveva ragione Massena. Dalla marea del pubblico salì un’ondata di disapprovazione per il bel campione che così toglieva smalto allo spettacolo e deludeva i suoi fans, una moltitudine accorsa persino dai paesi vicini. Doveva approfittarne, quanto meno doveva farsi attribuire quel round, e incalzò a testa bassa, colpendo pesante ma senza precisione. La bambola cercava di sottrarsi ai colpi, c’era disperazione e paura negli occhi verdi; sentì di avere il match in pugno: non bisognava lasciare tregua, respiro. Picchiare, picchiare, picchiare. Aveva ragione Massena. - Peccato, - disse quando il gong suonò per segnare una sosta del combattimento . – Peccato, - aggiunse – che lei non sia qui a vedermi. - Puttana, - pensò. – Puttana, - disse tra i denti. - Che ti prende? – chiese Massena. – Ricordati solo di combattere. Tu sei ancora un buon pugile. Non devi farti distruggere da un capriccio. Non lo permetterò! – disse ancora mentre per la rabbia gli si riempivano gli occhi di lagrime. Aveva il pianto facile Massena. Stava guardando verso l’angolo dell’altro senza vederlo e godeva il refrigerio della spugna bagnata sulla faccia. – Perché, – si chiese – perché così, senza ragione, una donna decide di piantarti? Una donna? Quella donna: quella che tu eleggi tra le altre, che magari non avrà niente che anche le altre non abbiano, ma che tu pensi valga più di ognuna. Non disse niente a Massena che lo guardava. - E’ stata una buona ripresa, - disse uno dei ragazzi mentre risuonava il gong per l’inizio del quarto round. 4 round- Ma perché – si chiese ancora, e la rabbia che sentiva contro il mondo, contro la vita che era stata una ben misera vita che per un momento aveva avuto e in un momento aveva perduto significato, contro quella donna che aveva amato e che amava, lo indussero a colpire più forte il pugile-bambola, il pugile-bellezza, il pugile-giovinezza che faceva del suo meglio, mobilissimo sulle gambe. E nel nome della fame fatta nel mondo quando si aggirava cercando un lavoro, nel nome del padre vissuto e morto di niente; nel nome dell’amico studente che a Parigi riversava la sua tristezza in un clarinetto che piangeva tutta la sera, colpì ancora. Dov’era lei? - Una sciocca come mille altre, - si disse per consolarsi, ma non trovava sollievo né a pensare questo né a colpire il pugile-bambola che però continuava a parare la maggior parte dei colpi e uscì con un destro d’incontro che lo sorprese nel mezzo del ring sotto la luce impietosa che gli faceva male agli occhi. La bambola, a sua volta, era passata all’attacco e il suono del gong lo ritrovò alle corde, senza fiato. - Non ti devi innervosire, - lo rimproverò Massena. – Il match è ancora tutto da combattere. La spugna fresca sul viso gli diede di nuovo sollievo. – Sono uno stupido, - pensò – a sprecare così le energie. Debbo controllarmi meglio, debbo lavorarlo ai fianchi. – Ma tu dove sei, sciocca ragazza? – disse, e Massena lo guardò coi suoi occhi acquosi: - Non devi lasciarti distruggere da un capriccio, - disse. 5 roundLo colse un nuovo gancio sinistro che lo sorprese per la rapidità dell’esecuzione. La bambola aveva colpito mentre arretrava e appariva ancora freschissima, malgrado quello che aveva detto Massena. Tornò a colpire, uno-due. Ma ancora non erano alla settima. Lo colse d’incontro mentre era sbilanciato e gioì nel leggere una smorfia di dolore sul viso bellissimo. Riuscì mediante abili movimenti sul dorso ad evitare i colpi di reazione, ma il fatto di essere più basso lo poneva decisamente in svantaggio. - Vedrai che dopo la settima ripresa sarà uno straccio. Ne potrai fare quello che vuoi, - aveva detto Massena. Ma non erano ancora alla settima. L’arbitro intervenne a separarli e gli fece cenno di combattere a testa alta. La sua presenza, la sua cravatta a farfalla, dopo tanti incontri disputati, per la prima volta gli sembrò assurda. Che ci faceva lì un signore con cravatta a farfalla? Un nuovo colpo lo raggiunse tra gli occhi che ora – specialmente il sinistro – gli facevano male davvero. Forse gli si stavano gonfiando. Li sentiva gonfi. Massena gli aveva detto di tenere la guardia alta. Decisamente andava male se il pubblico – un pubblico ostile – incitava la bambola e l’anima pia, anzi un coro di anime pie gridava: - Ammazzalo! Ammazzalo! Ricorrendo all’esperienza professionale, riuscì a sgusciare dall’angolo e ad evitare una serie di colpi, ma uno lo raggiunse sbilanciandolo per un momento. Un fotografo lo abbagliò col suo flash e si sentì stordito come un coniglio colto dai fari di un’auto. Riuscì a piazzare un destro nell’addome della bambola che indietreggiò boccheggiando. Si abbracciarono ancora. Il quadrato era un’isola di luce su un mare feroce e vociante. L’arbitro intervenne ancora. Non si poteva dire che fosse staso sin lì un combattimento scorretto, ma l’arbitro aveva un’aria seccata e gli ingiunse di nuovo di combattere a testa alta. Suonò il gong e Massena, nell’angolo, non si curò di nascondere la sua preoccupazione. 6 roundC’era ancora un giovane in una soffitta, a Parigi o altrove, che riversava tristezza nel suo clarinetto? E il mondo, c’era ancora oltre l’isola di luce dove l’atleta scultoreo cercava di colpirlo tra gli occhi? C’era, in fondo a una rete di stradine affollate sino a sera di venditori vocianti e gente di colore, una stanza al settimo piano, e lì due ragazze stavano curve sui libri. Quanti libri! “ Non c’è niente di male se stiamo un po’ insieme la sera. La mia amica uscirà tra un momento.” Beethoven o chissà chi sul giradischi faceva un baccano d’inverno e fuori c’era freddo… “ sta preparando una tesi sui rapporti tra Ambrogio e Agostino…” Si trattava di sconosciuti, non volle approfondire, non sta bene immischiarsi nelle questioni di estranei. Lei si era messa a ridere: - Sono due santi! Sorrise al ricordo e la bambola lo colpì di nuovo. - Non devi farti distruggere da un capriccio, - aveva detto Massena. Cercò di piazzare un montante, restò fermo sul colpo e si fece cogliere stupidamente da un gancio all’orecchio. - Vedrai che non reggerà sino alla settima ripresa, - aveva detto Massena, e infatti la bambola appariva provata. Ora avrebbe dovuto passare all’offensiva, avrebbe dovuto attaccare come aveva fatto alla terza ripresa. Ma la volontà non basta a far tornare ciò che è passato, sia si tratti di una ripresa durante la quale hai piazzato dei buoni colpi, sia si tratti di una stagione felice in cui hai creduto di essere amato. Massena lo incitò con un gesto. Ma come fai a portare un attacco se ti senti appesantito da tutta la tristezza che gravita attorno alla tua vita? Cercò rifugio nella memoria, nella stanza al settimo piano – era un giorno di febbraio, forse il giorno di San Valentino – tra divani pieni di bambole e tavole ingombre di libri. Due ragazze parlavano piano – Ancora Ambrogio, ancora Agostino? - parlavano piano, ma dalla platea una voce si levò forte, altissima gridò: – Ammazzalo! Ammazzalo! Ammazzalo! Si trovava di nuovo all’angolo – è di estrema semplicità la topografia di un ring - e contro la voce solitaria che emergeva dall’oceano di una folla mai morta, immortale, assetata di giochi feroci, volle reagire e colpì la bambola in viso sorprendendola, e colpì ancora con odio contro i libri mai letti, contro la donna che aveva detto no, contro il destino. Indietreggiava la bambola sempre mobile sulle gambe, ma già meno spavalda. La folla mugghiava come un mare. 7 roundLe note del clarinetto continuavano a suonare in un angolo della memoria. La città era attraversata da un grande fiume e una sera avevano ripescato il corpo di una ragazza. Il fiume portava verso il mare i rifiuti della città e anche la gente che la città – la capitale felice - aveva rifiutato. Una sera, in un bistrò frequentato da gente di malaffare, due marinai avevano litigato tra loro e uno aveva tirato fuori il coltello. Cercavano di calmarlo con parole che non capiva. Parlava un’altra lingua. Lo colpì con un pugno alla mascella. – Bravo, ragazzo. E’ quello il linguaggio universale, l’esperanto. – Era Massena, gli aveva offerto da bere, avevano fatto subito amicizia. Quanto tempo era passato? Quante giornate andate alla deriva? Adesso era il quadrato-isola, l’isola illuminata, che andava alla deriva sul mare mormorante della folla. Si trovò ancora alle corde sotto l’incalzare del pugile bambola, senza fiato. Forse si era sbagliato Massena. Erano già alla settima ripresa e quello, sebbene apparisse provato, non era uno straccio. Non avrebbe più potuto farne quel che voleva. Sentiva le gambe legnose e a fatica riuscì a parare parte dei colpi che lo investirono. Ebbe un guizzo di fierezza e replicò. Un montante lo raggiunse ancora. Massena gli aveva detto di stare attento al sinistro. Fu colpito ancora agli occhi. Massena aveva detto di tenere alta la guardia. Sapeva tante cose Massena, ma a suo modo era anch’egli un uomo fottuto, condannato ad una vita vuota, senza scampo. - Non devi distruggere la tua vita per un capriccio, - aveva detto Massena. Ma le cose, Massena, non sono semplici cose. Tu le vesti e dài loro tutto il significato che vuoi e che mai si sarebbero sognate di avere. Vi sono dei selvaggi in qualche parte del mondo che pigliano un pezzo di legno e dicono “E’ dio”, e il pezzo di legno è dio, Massena. A qualcuno può capitare di chiamare amore un suo capriccio, a qualcuno può capitare di morirne. La ragazza ripescata dal fiume forse ragionava così. Si trovò ancora al centro del ring. Massena si era sbagliato: il rivale era lucidissimo e riuscì ad evitare un suo destro con un abile movimento del dorso. Gli si fece da presso. Adesso erano abbracciati, ansimanti, e l’arbitro intervenne ancora. Sentiva di avere una montagna sugli occhi e la luce gli faceva male. Avvertì una fitta all’addome: la bambola aveva colpito ancora sotto la cintura. Si chinò per il dolore e venne raggiunto da una combinazione di ganci. Gli sembrò che un’arcata di lampade ruotasse sopra la sua testa, aprì le braccia, un destro lo raggiunse e si trovò al tappeto, in ginocchio. Era la settima ripresa: avrebbe dovuto essere la sua ripresa. La testa era tutta un ronzio e le grida della folla esultante le sentì lontanissime. Aveva sbagliato Massena. -…quattro…cinque…sei… Gli sembrò che l’arbitro avesse contato sino a quattro con voce bassissima e al cinque avesse alzato il tono: - cinque… sei… La coppia dei numeri si trovava nel numero telefonico di lei. Non lo aveva più fatto per orgoglio e ora l’arbitro pareva glielo volesse rimproverare: - cinque…sei… Dov’era finito il suo orgoglio se non aveva nemmeno concluso in piedi quel match al quale si era scrupolosamente preparato? Dalle fessure degli occhi stava guardando come uno stupido le scarpe bianche del rivale, l’atleta bellissimo, mentre lo contavano. Non tentò nemmeno di alzarsi e lasciò che l’arbitro arrivasse tranquillamente sino a dieci. Poi si recò a testa bassa al suo angolo dove l’accolsero nell’accappatoio. Sulle spalle, in lettere chiare, v’era scritto il nome di un liquore che non aveva mai bevuto e che forse non gli sarebbe nemmeno piaciuto. Salì gente sul ring, nonostante il servizio d’ordine, per congratularsi col vincitore e i fotografi scattarono fotografie su fotografie. Non disse niente Massena. Aveva gli occhi acquosi di sempre. Forse stava pensando al “capriccio”. Lui non sapeva niente del clarino, né della ragazza ripescata dal fiume e dei suoi vestiti fradici, né del pezzo di legno di cui i selvaggi in qualche parte del mondo dicono “E’ dio”. CostantinoE’ stato un bruttissimo inverno. A causa delle sottili pareti, la notte, abbiamo sofferto della bronchite del professore, una brutta bronchite. Non faceva che tossire. Ora sta meglio, con le prime giornate di sole è pure uscito qualche mattina portando con sé, prudentemente, l’ombrello. L’ho incontrato in ascensore, al mio saluto ha risposto con una specie di grugnito. Da anni ci incontriamo senza conoscerci, non lo conosce quasi nessuno nel condominio, ma indoviniamo di non essergli simpatici. Forse in cuor suo ci disprezza e ci giudica una comunità di buzzurri. Deve stare meglio se alle sette e mezzo del mattino si siede al pianoforte e riprova il suo repertorio. Attacca sempre con “Per Elisa”. Non si può dire che la suoni proprio bene, ma se la cava. E’ Chopin il suo – forse dovrei dire il nostro - suo e nostro chiodo: c’è un punto – sempre quello! – dove il professore s’inceppa e riprende da capo. Sbaglia e riprova. La paura di sbagliare di nuovo lo turba e lo condiziona, ed ecco che a quel punto preciso dell’”Andante spianato”, Costantino - è il suo nome – stona, cioè ricade nell’errore che oramai è divenuto suo e nostro motivo d’angoscia. E riattacca nella lotta impari, quasi a lottare contro il destino. Diceva un mio amico – un ragazzo scanzonato, che aveva (o si vantava di avere) una fortuna sfacciata con le donne – che in mare quella che tira a fondo è la paura di annegare. Deve essere così per Costantino le volte che riprova il suo andante: annega per paura. Sono arrivato al punto di desiderare più di come desidero talune cose per me, voglio dire legate al mio personale interesse, che una qualche mattina Costantino si sieda al piano e l’andante venga fuori semplice e bello, senza stonature e senza arresti. Ne sarei felice per lui e per me, sono anni che vivo in questa casa e penso ne dovranno trascorrere altri per me e per Costantino e per Chopin che non si lascia suonare come andrebbe suonato. Dopo aver sofferto un inverno per la sua bronchite, non me lo sarei proprio meritato, alle sette e mezzo del mattino: mi-re-mi-re-mi-si…Elisa! Forse c’è un’Elisa nel suo passato, un’Elisa che insiste nella memoria, una specie di Ofelia annegata nel fiume banale dei giorni che l’onda irrequieta riporta a galla o, come da copione, i vestiti sostengono. Ma, caro Costantino, un’Elisa così c’è forse nel passato di tutti, e questo, non autorizza a svegliare i vicini. E’ triste questa ballata: è sempre Chopin, uno Chopin vestito da vecchio professore in pensione, vestito da Costantino, col soprabito un po’ stretto di spalle, quando s’avvia al giardino inglese e si sofferma a guardare i bambini sulla giostra e, assai più spesso, senza farlo a vedere, i giovani che si sbaciucchiano lungo i viali o, senza pudore, si tengono abbracciati sui gradini della statua del cittadino illustre e camuso, di elette virtù che “diede tutto alla patria” (anche il naso?). Ci sono momenti che persino un borghese che suona “Per Elisa” alle sette e mezzo del mattino se ne fotte delle virtù, elette o meno, e s’avvelena il sangue per quei ragazzi che saran tutti puttanelle e delinquenti, ma sono, però, l’antica patria dove non tornerai, ghibellino del cavolo, e per la quale ti struggi di sospiri. E allora perché ci vai nei giardini pubblici? Tanto lo sai già quello che vedrai: i ragazzi che si baciano. Le giostre non sono per te. Bella figura ci faresti sulla giraffa o sul cavallino… o con una di queste ragazze in capelli, come si diceva delle figlie nubili dei Longobardi, che scappano dai jeans che le modellano e denudano fingendo di vestirle. Ma si respira aria pulita: non è molto, non è nemmeno poco. L’altro giorno, la figlia del portiere, vestita così nuda, si strusciava con uno spilungone tutto foruncoli. Si è fatta bella, non sembra nemmeno la gattina di qualche anno fa, i suoi seni, piccole arance, prorompono prepotenti dalla maglietta di una misura più piccola, con tracotanza proletaria. Lo spilungone suona la chitarra. S’incontrano spesso spilungoni con la chitarra. Ne incontra qualcuno anche adesso sulla via che porta a casa, quella casa in un quartiere signorile nel cuore della città borbonica. La gente indugia agli incroci – attento al borsello. Qua ti scippano l’anima! - e gli automobilisti che si odiano tra loro, guardano con disprezzo i pedoni: i vecchi, poi, tardi e lenti, non li possono soffrire. Qui una volta era tutto graziose villette, lo ricordano quattro palme striminzite che il vento spettina a suo piacimento, ora c’è immondizia che nei giorni di vento tenta le vie del cielo. Una camionetta della polizia si ripara sotto l’ombra avara di un albero, forse stanno qui per via della scuola. L’altro giorno davanti alla scuola, uno di quei ragazzi è stato colpito da una sassata alla testa e mentre la gente scappava, e persino i compagni scappavano, lui si è fermato a soccorrerlo, non si è mai troppo vecchi per divenire buoni samaritani: - Lascia che ti pulisca il sangue, lascia che veda cosa ti hanno fatto. Il ragazzo lo guardava sgomento e forse si chiedeva perché mai un matusa… era forse un poliziotto, un commissario… mentre la ragazzina pallida che poi si avvicinò, forse si chiedeva anche lei se il matusa non fosse per caso un poliziotto o qualcosa di simile. Ma il poliziotto – quello vero – venne poco dopo, fiero nella sua uniforme e ridacchiò. – Ah, ecco qui uno dei delinquenti! Costantino, che pure così amava definirli, lo guardò con severità: - E’ solo un ragazzo ed è ferito. - Lei è il padre? Ritenne opportuno mentire, non era davvero il caso di dirgli della parabola del samaritano; disse di essere lo zio, la cosa sembrava credibile. - Se lo porti a casa, allora. E glielo dica che è fortunato se stasera non dorme al fresco. Si avviarono assieme, la ragazzina si teneva a distanza; all’incrocio gli dissero grazie. Gli lasciò il fazzoletto: - Tienilo, sanguini ancora. Dovresti disinfettare la ferita. - Sì, sì – dissero insieme i ragazzi e pareva avessero fretta di andarsene, sconfitti e un po’ diffidenti della bontà di un uomo d’età avanzata che non parteggiava per la lex-dura-lex. - Sì, sì. Si avviò verso casa. Il portiere lo accolse col suo sorriso idiota, della figlia nemmeno l’ombra. - Ossequi, professore. -…ngiorno. Nella cassetta non c’erano lettere. La felicità o qualsiasi altra cosa non può che venire da fuori. A casa c’è il pianoforte – l’ultimo dito di whisky se lo era bevuto la sera precedente davanti al televisore. – A casa c’è il pianoforte e c’è Chopin che, però, a un certo punto – un punto lungo una strada in salita, dove il cavallo stramazza – un punto insuperabile denuncia un ulteriore tuo limite in una vita di limiti. C’è anche un telefono inutile. Mi-re-mi-re-mi-si-re-do-la…. per Elisa. Chi era Elisa? Inutile frugare nella memoria, tutte erano Elisa nel lontano giardino di un’altra stagione, regione o pianeta, e sfiorirono. Forse anche qualcuna di queste ragazze in capelli ha quel nome. Attenta, Elisa! Un sasso può colpirti alla testa, viviamo un tempo feroce, insensibile alla pietà e alla bellezza. Rivide il ragazzo ferito, la sua compagna palliduccia che in cuor suo aveva scommesso di non piangere e c’era riuscita, sia pure per poco. Ricordò di avere avuto, ai suoi tempi, compagne di scuola, una aveva i capelli colore del grano e un piccolo neo vicino alle labbra. L’orologioLe luci di città straniere si accendono nel ricordo e spesso risento la nostalgia dei primi tempi. Ho molto sofferto in principio. Si fa presto a dire una donna. La donna c’era. Sì, c’era. Ma non era solo questo. Nel ricordo viveva una patria verde di ulivi, tra essi nasceva il silenzio. Anche la donna taceva, ma quando la lasciai negli occhi aveva un grido represso. Le dissi che sarei tornato, poi ripensai spesso quegli occhi e quel pianto. Le mandai una cartolina da Amburgo, credo proprio da Amburgo. Non l’ho mai rivista. Mi hanno detto che si è sposata, ha figli. Dicono pure che vive felice. Non deve essere vero. Quando le scrissi da Amburgo le volevo bene. Forse non ho mai cessato di volergliene, ma era un bene senza fuoco che si affievoliva man mano che il tempo passava e finivo di sentire nostalgia per il paese, per la casa e gli ulivi, che frusciavano nella memoria nei momenti di maggiore sconforto. Furono molti quei momenti, in principio. Ho incontrato altre donne. Le ho amate? Mi hanno amato? Son cose che non capirò mai. Una volta, in un locale, a Monaco, ho fatto a botte con un polacco per una ragazza, finii in prigione per una settimana e poi, quando sono uscito, ho cambiato residenza. C’è stato un periodo che cambiavo con molta frequenza: non mi sentivo a mio agio in nessun posto. Durante le mie peregrinazioni mi giunse una lettera piena di bolli. Veniva dall’Italia, dal mio paese. In essa mia sorella diceva che nostro padre era morto. Avrei voluto piangere ma non mi riuscì. Uscii di casa e camminai sino a notte cercando qualcuno, non so chi. Qualcuno al quale parlare del vecchio, raccontare degli schiaffi che mi dava e del bene che mi voleva. Ma non incontravo nessuno. Nessuno col quale potessi intrattenermi a parlare e dire le cose di cui sentivo gonfio il petto. Il tempo era piovoso e andavo. Ricordo di avere bevuto moltissimo. Debbo essere entrato già sbronzo in un posto dove si ballava. C’erano tante ragazze e pochi uomini. Un locale alla moda come se ne incontrano tanti. - Mambo! Mambo! Il vecchio se n’era andato. Il fiume di coppole nere dietro la bara sul carro tirato da cavalli neri, il carro coi putti panciuti e dorati per le strade polverose, tra gente che si toglie il berretto e saluta. Tra gente che si toglie il berretto, saluta, medita brevemente sulla morte e poi torna alle proprie faccende. - Mambo! Mambo! Balli male stasera. Il carro traballa sulla strada sconnessa, all’uscita del paese, e i preti se ne tornano anch’essi alle proprie faccende. Pax. - Prosit! Perché continuavo a bere con quella ragazza stupida che mi guardava come si guarda un fenomeno da baraccone? Di essere non era male, belle le gambe e il resto, ma stupida doveva esserlo. - Mambo! Mambo! - Prosit! Credi di farcela sino a casa mia. Ho detto di sì, mi sono persino offeso, ma abitava all’inferno o nei pressi. Non ricordo molte cose. Mi sono svegliato l’indomani in una stanza che non era la mia. Avevo la testa tutta un ronzio. Unica traccia della ragazza, un vestito a colori vivaci spiegazzato su una sedia. Una megera mi sorrideva e mi offriva del caffè: – Tu matto. La vecchia rideva sempre e mi faceva cenni per farmi capire che ero pazzo. Le avrei demolito i pochi denti che rimanevano nella sua vecchia bocca. Mi ricordai di mio padre. Mi ricordai che avevo avuto una casa, una donna. - Tu matto. Raccolsi le mie cose e me ne andai lasciandole dei soldi. Stavo male. Cercai a lungo nel portafogli una fotografia di mio padre. Ricordavo di averla con me: una vecchia fotografia uso tessera. Non la trovai. Rilessi la lettera come se una notte di sbornia avesse potuto mutarne il contenuto. Erano poche righe inequivocabili. Mio padre era morto. Pranzai in una piccola trattoria vicino alla stazione e mentre mangiavo pensavo a mio padre che non faceva più niente delle cose che io potevo fare, delle cose che tutta la gente faceva. Sentii la gioia di essere vivo, di potermi alzare, muovere, correre. Ebbi improvvisamente voglia di una donna, per sentirmi più vivo, per sentire più forte il mio legame con la vita. La trovai nella stazione vicina. Aveva un viso d’angelo caduto. Solo la sera trovai un conoscente che mi condusse a casa sua e potetti parlare di mio padre mentre bevevo il suo vino. Dissi tutto quello che ricordavo: della volta che aveva venduto la cartucciera in cuoio, alla quale teneva tanto, per comprare a me e ai miei fratelli i doni per il giorno dei morti. Ora era morto davvero. Dissi della volta che mi aveva incontrato, giovinetto, in compagnia di una ragazza e mi aveva salutato togliendosi il cappello con ossequiosa ironia e mi aveva fatto sentire ridicolo. La moglie del mio povero amico, una ragazza piccola e rotondetta, mi ascoltava con le lagrime agli occhi e il mio amico mi versava continuamente da bere scuotendo la testa. Mi ospitarono per la notte. L’indomani, quando ci lasciammo, sembrava ci vergognassimo un poco di quanto avevamo detto e fatto la sera precedente. Mi trattarono con tanti riguardi. Ripartii quel giorno stesso. Sospirato paese! Il cielo si stendeva come una vela azzurra oltre il ponte di pietra dove una mano aveva scritto “è vietato buttare immondizia”,e nessuno lo leggeva. Un paese così, buio di notte, con tanti cani e tanta sporcizia, col solo cielo, in alto, pulito; con case vecchie e nuove che crescono in disordine e la Matrice in mezzo, bella d’archi, colonne, stucchi e marmi: giocattolo di lusso costruito per un Dio amato male che non è certo il Dio dei poveri. Industrie niente o quasi: la miniera e l’industria del delitto, la lupara, il coltello. Soltanto il vino ti regala un sogno da opporre all’odio e alla morte, un vino triste che, poi, magari, vomiti sotto una sacra immagine votiva dove le donne accendono lumini. La voglia di ripartire mi ha ripreso. Ero tornato per tenere, da vivo, compagnia a quei morti? Non parlo solo di mio padre, ma anche di quelli che vanno ancora per le strade e la sera giocano a tressette, degli umili che non avranno mai la terra. Sono venuti a trovarmi parenti e amici. Mi hanno abbracciato commossi e hanno cercato di consolarmi. Mia sorella mi ha dato l’orologio: - Ha detto che è tuo, lo diceva sempre, – piangeva. Mi hanno consigliato di trovarmi una ragazza e sposarmi: possiedo la casa e ho l’età giusta. Mi hanno pure invitato a fare una ramanzina ad un cugino più giovane che fa lo scapestrato: segno che già mi considerano dei loro. Un morto col quale giocare a carte la sera. Ho visto il ragazzo, un biondino timido e indifeso che si limita a farsi crescere i capelli e a guardare le ragazze all’uscita di scuola. Lo scapestrato scrive pure poesie, poesie d’amore. Non gli ho detto niente. Non l’ho detto a nessuno, ma qualcuno deve averlo ugualmente capito: voglio ripartirmene. Non ho niente da fare qui. Porterò con me l’orologio, soltanto l’orologio: ha un battito sonoro. Tic-tac, tic-tac. Ha contato le ore del vecchio. Le ore dell’amarezza e della solitudine. Tic-tac. Le ore dell’attesa e dell’agonia. Quanto tempo mi ha aspettato! Il domani diventava ieri, il futuro, passato; le stagioni scorrevano e la speranza moriva. Tic-tac, tic-tac. Ho rifatto le valigie e ho vegliato tutta la notte con l’orologio in mano. Era come tenere il suo cuore nella mano. Era il suo cuore che batteva nella mia mano. - Tu matto, - diceva la vecchia ridendo. E’ ben lunga una notte. Il silenzio è fatto di mille rumori impercettibili, i rumori del tempo che frana verso gli abissi del nulla. Aspettavo un treno dell’alba, un treno che mi portasse verso città rumorose dove ritrovarmi e perdermi ogni notte. - Mambo! Mambo! Cos’ero venuto a fare se non sapevo più piangere? Forse il vecchio lasciandomi l’orologio aveva voluto raccomandarmi di vivere e di non sciupare il mio tempo. Aveva voluto ricordarmi la brevità della vita. Alla stazione non c’era nessuno, e quando giunse il treno presi posto tra gente addormentata. Sistemate le mie poche cose mi accinsi a prendere sonno anch’io per ritrovarmi, come uno che si svegli tra due sogni, ancora una volta straniero. -Tu matto. Tu matto. Tu matto. Finalmente piangevo guardando i lumi che si allontanavano sino a confondersi con le ultime stelle. Il colonnello non vuole morireHa battuto violentemente contro il vetro della finestra e ora mi sta accanto semistordito a pancia in aria, e agita disperatamente le zampine. Le trachee si dilatano nel respiro affannoso. Lo sto guardando, non avevo mai visto un insetto simile, più grosso di un calabrone, mostra un’ingluvie giallastra, quasi voglia di ginestre, le ali sono membranose, incolori, e, da qualche momento, inutili. E’ possibile che non abbia mai visto insetti così; mi ritenevo troppo importante perché dedicassi attenzione ad un imenottero (sarà, poi, davvero un imenottero?) e ai suoi guai. Ma qualcosa mi ha fatto capire che anch’io, muovendomi in un mondo di insidie nascoste e di appuntamenti combinati a mia insaputa, posso imbattermi in un riccio, in una talpa, o peggio in un toporagno – non mancano buoni insetticidi in commercio né gas tossici nell’aria – e, in ogni caso, quando meno te lo aspetti, c’è sempre una finestra contro i cui vetri andare a sbattere. A quel punto non ti sarà servito vincolo di sangue che ti leghi al principe o al sultano: hai chiuso la tua breve giornata di gloria e svanisci come nebbia al sole; anzi non svanisci, che grazia ti sarebbe svanire, rimani ridicolmente a pancia in aria, agiti le tue zampe mentre qualcuno con pia sollecitudine ti chiede di mettere la tua anima tra le mani del Signore. Allora è vero che devi morire? Non ci saranno altri voli? Che ne faranno di questo maggio, di queste donne giovani e belle, delle lunghe giornate di sole? Non ci saranno più nozze in settembre? Te lo chiedi anche tu nelle brevi soste che la stanchezza t’inventa, quando per un momento smetti di battere le ali inutili, le zampe che annaspano nel vuoto, e cerchi di credere che si tratti di un sogno, di un incubo, di pigliarti in giro su questa realtà, su questa caduta tremenda; e pensi che è la tua fine decisamente cretina – uno stupido vetro pulito in un mondo così insudiciato – una fine che non ti si addice, perché magari, presso i tuoi, presso la tua specie, sei un personaggio importante, vescovo o colonnello, condottiero di eserciti o di anime. E pensi, mentre l’ala si fa sempre più pesante, al tempo che non è stato galantuomo, alla vita che non mantiene le sue promesse, che come in un vecchio film ti scorre innanzi. …Dopo le prime piogge d’aprile, vennero i giorni delle grandi processioni, Eccellenza. Le cicale frinivano tra i rami del fico selvatico e frenetici ortotteri emettevano un verde e acuto stridio. Lo sciame volava basso quasi a sfiorare il trifoglio, da dove un popolo di ali azzurrine si levò a rendere grazie alla primavera. Le formiche, come sempre avare, trovarono un pretesto per non partecipare al raduno e inviarono una rappresentanza sparuta di alate formiche leonine: meglio accumulare cibo per quando verranno le brutte giornate, chi prima non pensa in ultimo sospira. Preveggenza! Preveggenza! - Lasciatele fottere, - dicesti: - Lasciatele ai loro proverbi ché mai sentiranno la gioia di vivere. Sono stenocefali senza felicità nel cuore e la loro è una triste saggezza. Il corteo di cicale e cocciniglie, api gialle, vespe zebrate, navoncelle e reduvi, smesse le antiche polemiche, concordò nel non confondere i mezzi col fine e plaudì te, vescovo venerabile, presule saggio, pastore e duce, studioso profondo dei grandi pensatori della specie – i padri lepi-dòttori zinnanti – punto fermo nell’universale naufragio, trave e puntello della casarca. Qualcuno ricordò ai più giovani che eri autore insuperato di ben trentuno carmina, dei quali si diceva un gran bene e che nessuno aveva mai letto, nemmeno i pazienti curculionidi di cui è nota la tenacia. Questo tuo additare le formiche al pubblico dispregio, Eccellenza, non significava, assolutamente, incoraggiare gli oziosi, ma ribadire il valore della misura, condannare ogni forma di eccesso (Siate pii ma non fanatici!), poiché, notoriamente, la ricchezza, la forza e il prestigio di una comunità si basano sulla capacità di produrre o accumulare dei beni. -Le possibilità di azione sono la diretta espressione di una serie di fattori convergenti. Ma attenzione! Avremmo torto ad illuderci: tutto ha origine e ci proviene dalla Fede, che è la luce ed è il mistero, dal Grande Padre degli artropodi, scarabeo divino assiso dove ala mai giunge, instancabile stercorario d’avorio e oro finissimo, che mette assieme i destini, lassù tra le stelle. Senza la Fede, fratelli e figli diletti, saremmo orrido pasto d’augelli, smarriti anòfeli, anancefali senza meta. “Signore, salva lo Vescovo/ ch’est fisolaco et Cato/ lavatore de lo peccato / consilior de mellior vita/ nostro Padre et Archimandrita!” compose estemporaneamente un giovane che faceva parte della locale intellighèntia. Tutti gli altri applaudirono, il capitolo applaudì. E poi – ci ripensi mentre un raggio di sole ti ferisce – venne la settimana di penitenza, il ritiro e la meditazione. Mai si era avuta tanta partecipazione di coccinelle. Forse i temi erano un po’ quelli di sempre ma le grandi domande non sempre trovano immediata risposta: gli elementi sono quattro o sono sette? Sono più le stelle del cielo o i giorni della terra? Magari qualcuno approfitta di tali giornate per concedersi grosse dormite mimetizzandosi col verde delle foglie, la macaona si finge anche un picciuolo; qualcuno ne approfitta per realizzare accordi e alleanze, ma tu, Eccellenza, non facevi mai niente per gioco ed eri perciò chiamato “il pio tiranno del Capitolo”. - La vita è piena di misteri, valga per tutti il mistero delle stagioni. La somma dei misteri, come la somma delle foglie forma un albero, compone il grande mistero che ci comprende. -Ma un albero, Signor Vescovo, non è soltanto una somma di foglie, se così fosse, in autunno cadrebbero gli alberi. - In verità, nemmeno una grande quantità di pietre può dirsi una cattedrale… - Cadranno le cattedrali quest’autunno. - Voi, padre Malagrida, vi divertite coi paradossi! E avanti così sino alla noia, sino alla stanchezza, sino a questo imprevedibile vetro di finestra chiusa, contro cui batti con tutto il peso della tua dottrina e cadi, pancia in aria, e stordito t’inoltri nel mistero di una morte senza misteri. Non era la talpa, l’uccello o il toporagno, si trattava di un rettangolo di luce. Si può morire di luce? Cos’è questo mistero di luce, Signor vescovo? Cos’è questo mistero, Signor Colonnello? Di certo qualcuno dei suoi amici, parlandone al circolo ufficiali, dirà di avere avuto una specie di…precognizione, di avere quasi colto un segno di questo suo destino per via di talune cose dette ieri, per via di qualcuna di quelle cose che diciamo ogni giorno e passano inosservate sino a quando – zac! – non accade loro di coincidere col destino, e ciò prova soltanto, Signor Colonnello, che l’infortunio di cui morire – nel suo caso la vetrata funesta - può capitarci ogni giorno. Sarebbe bastato, calcolando il rapporto velocità/peso, imprimere una spinta maggiore alla coppia alare destra, tale da ottenere uno spostamento di 60° del mesotorace e, con una opportuna inclinazione dell’addome avrebbe schivato la vetrata, rischiando, tutt’al più, di urtare leggermente con l’ovopositore. Fa rabbia che dopo avere spiegato per tanto tempo queste cose a giovani allievi del corso ufficiali e averne scritto in un opuscolo meritatamente assai diffuso, si cada in simili errori come un principiante. Perché, caro Colonnello, lei lo sa bene quanto me, poi vengono i soliti furbi, quelli che vincono le guerre a tavolino e sanno cosa si fa in questi casi, i grandi teorici del giorno dopo ai quali sarebbe inutile raccontare di un certo profumo o di una certa musica – nell’aria o nel cuore non importa – o di una certa insolita qualità della luce per cui la nostra scienza venne meno, Signor Colonnello. Ed eccoci qua, a pancia in aria, a respirare con affanno, quasi a bere gli ultimi sorsi di questa giornata che si annunciava come le altre, forse più bella: una giornata di maggio durante la quale fare una miriade di cose, di tutto tranne che concludere la carriera in maniera così oscura, per banale accidente. Perché, caro Colonnello, ci si scorda facilmente del Manzanarre e del Reno, delle Alpi e delle Piramidi; ci si scorda l’ansia del cuore indocile, la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, e tutto si riduce a questa caduta nella polvere che riassume tutta una vita di baionette, gavette, attenti a destr! Attenti a sinistr!, presentat-arm!, a questa caduta nella polvere dove un distratto piede di villano può ridurla, mi creda Signor Colonnello, ad un miserabile grumo d’elitre e di sanie giallastre. Il colonnello ha ripreso ad agitarsi, le antenne cercano un contatto e l’involucro (mai così “insectum”, diviso in parti) facendo leva su un’ala, cerca di trascinarsi verso la vetrata. Fu vera gloria? E’ trascorso un lungo, terribile momento per convincersi che quanto è accaduto è oramai accaduto a lui, e che niente è possibile fare per tornare ad un minuto prima dell’impatto. Sciocco stare a chiedersi “perché proprio a me?” La vetrata era lì, c’era per tutti. Da quest’accettazione gliene è venuta una nuova forza: era quanto gli occorreva per morire. Le cure, i problemi, le ambasce oramai appartengono agli altri: viene sempre, e per tutti, il momento di lasciare questo mondo. Gliene viene anche una nuova dignità, c’è un risveglio del suo orgoglio, e se cerca di spostarsi verso la vetrata lo fa per capire meglio di cosa si è trattato, per mostrarsi alla morte nella luce migliore: veda pure la Triste Signora che il caduto non è un filugello o una tignola dei panni. E così, vestito di sole, il colonnello sta aspettando. …Le nuvole si fecero più basse e un vento di mare pregno di ineffabili profumi ci trasse presso giardini sconosciuti. Curiosi gelsomini si affacciarono a guardare lo stormo che volava sottovento, qualcuno si protese verso noi offrendo a un bacio la timida corolla. - Parla il comandante: avanzare in formazione di battaglia. Postazione nemica a ore dieci, controllare riserva carburante, tenersi pronti per picchiata su aiuole con papaveri… Stavamo attraversando una zona infestata da coleotteri e bisognava evitare lo scontro coi cervi volanti e con gli altrettanto feroci scarabei-rinoceronti. Virammo di 30° circa ad Est-Sud-Est e più in là, oltre la siepe del pitosporo, in prossimità della vite canadese, dove crescevano alberi di pepe, lepidotteri variopinti, facendo a gara con i fiori, mostravano colori festosi, e una vanessa, di certo innamorata, compiva giri sempre più conclusi attorno al calice di un ibisco, fiammeggiante anch’esso di torbida febbre. (Oh, come mi ti stampi nel ricordo, “mariposa anohada en el tintero!”). - Parla il comandante. La pattuglia degli esploratori proceda in formazione di battaglia sulla rotta due punto nove, a Sud-Ovest. Attenti al capanno ad ore tre-quattro: possibili postazioni nemiche. Dal basso, invidiosa e triste, ci guardava una folla strisciante di miriapodi, mentre, geloso, un antònomo minava le gemme del melo. Ahiahiahi, Vanessa! Schiacciata tra le pagine di un vocabolario, libro di parole morte che dire non sanno la mia pena. La sirena dell’ambulanza ha un suono più acuto dello stridio della locusta verde, mentre attraversiamo la città inondata di sole. I palazzi hanno mille finestre e non s’affaccia nessuno. Il colonnello sta aspettando. Fiero nel suo vestito di sole, solenne e un po’ stupido come un vero colonnello, intronato come un generale che appare in tivù dopo un golpe fallito, sta aspettando la morte. L’ingluvie gialla, remota ginestra, ha brevi sussulti e le zampette annaspano nella ricerca vana di un appiglio. Fuori è primavera. La Triste Signora ha veduto: non è una tignola dei panni, è un insetto robusto, divoratore implacabile di derrate che assale gridando “Savoia!”. E’ robusto e ciò gli è stato fatale perché è giunto con la forza di un proiettile contro la vetrata – una vetrata pulita nel sudicio mondo, che avrebbe dovuto mandare in frantumi gridando viva qualcosa. Fuori è primavera, tignole dei panni e filugelli in libera uscita passano con lieve ronzio. Il colonnello sta aspettando, fiero nel suo vestito di sole, ma anche se non lo dice – e a chi dirlo? – prova qualcosa che somiglia all’invidia per i filugelli che passano assieme a filugelle leggere, e se ne volano in coppia in cerca del dolce miele del fico. Di certo, senza più guida sarà un grande casino e, da quegli imbranati che sono, non sapranno più scendere a cibarsi sui campi del lino dove accorrono corvi voraci. Sta accampando ora scuse, ricorre a mezzucci di cui non lo avremmo creduto capace, il colonnello, perché – rimanga tra noi –non vuole morire. …Ho chiuso gli occhi. Mi sono smarrito e ho la sensazione di scendere… scendere… Lentamente, come un pezzetto di carta, sto calando in questa specie di pozzo che non è in nessun luogo e che probabilmente da sempre mi porto dentro. Vorrei che nessuno piangesse se sciolgo i legami col mondo: io sto cercando di non farlo anche se altissimo è il prezzo: vi amavo. Scendo ancora. Da vero signore, disponevo senza saperlo di questo inferno privato, dove non posso incontrarti, falena del mio settembre, e sento freddo, son solo, ho perduto gli amici. Tutto questo è morire. Sento freddo. Il sole che batte contro la vetrata non mi scalda, mi abbaglia soltanto. Ho chiuso gli occhi e sono un pezzetto di carta che scende in questo gorgo, che è l’inferno, e che mi portavo dentro come una cosa mia. Sono un pezzetto di carta nel vento. Non è il vento di mare pregno di profumi indicibili né ci sono più gelsomini a porgere la corolla. Perduellione! Perduellione! Ma vorrei che nessuno piangesse. Ahiahiahi, Vanessa! Schiacciata tra le pagine del vocabolario inutile, o annegata nel nero calamaio dell’oblio: dal Manzanarre al Reno Flagelli di dio, Volpi del deserto, Leoni dell’Amba Alagi e Liberatori del Santo Sepolcro verranno a calpestare la polvere cruenta, ma il mio campo e il tuo campo, cioè il luogo dove si semina e si raccoglie – l’ho appena capito e di già non mi serve – non era lo spazio sterminato, ma il tempo, la breve giornata concessa al nostro volare innocente. Ora non si muove più. E’ vestito di sole, solenne e un po’ sciocco, quasi un vero colonnello. Ei fu. La piantaLa stradina scende scende ed eccoci alla “Taverna” E’ un locale fine: fiori, moquette e un bisbiglìo discreto. Forse avrei fatto meglio a mettere la giacca. Pazienza. Cannelloni alla perugina, salsicce alla perugina. Il vino lo voglio rosso. Lei siede ad un tavolo di distanza, la potrei raggiungere con la voce ma non lo faccio. Da dove vieni? Devo cercare di non esagerare né col vino né con gli sguardi. Mangia una cosa gialla – purè di patate? - . Si è voltata a guardarmi un paio di volte, non si è tradita o non mi ha riconosciuto. Ha bevuto solo un dito di vino, lo noto dalla bottiglia quasi intatta sul suo tavolo. Ha chiesto il dolce. Il vino della mia bottiglia cala rapidamente. Cosa potremmo dirci oramai? Picchia nervosamente con le dita sottili sulla tavola mentre finge di leggere il giornale. Finge, ne sono certo. Ostenta di avere fretta, forse lo fa per rendersi interessante: ha sempre amato così recitare. Cosa potremmo dirci oramai? Ma potremmo parlare? Potremmo ancora parlare? E perché se fa finta di non riconoscermi? E cosa dire? Potremmo parlare della nostra adolescenza in un vicolo di gente povera, che risuonava sino a tarda notte delle ciance di suo padre che rientrava ubriaco con in testa il suo chiodo metafisico: la pianta della vita. Ti ricordi? Forse è un’altra. Forse le somiglia soltanto ed è il vino – non ne ho quasi più – a renderla identica a quella di cui parlo. Anche gli occhi sono identici: azzurri con una nota inesprimibile di viola. Ma come avrebbe potuto conservarsi così giovane? E’ passata una vita. Nemmeno quel vicolo più esiste. “Hanno sventrato il vecchio quartiere e aperto una strada alle automobili per scendere più presto al cimitero…” Lei lo avrà saputo? Forse no. Non deve essere più tornata in quei posti dove più niente sopravvive della nostra infanzia, né vicolo, né case, e forse nemmeno suo padre più percorre le strade, la sera, parlando di una pianta che sapeva: la pianta della vita. Chiama il cameriere per pagare il conto. Veste con civettuola eleganza ed è ben pettinata. Non era così bionda prima. Cosa potremmo dirci? Potrei dirle di seguirmi, che ho una stanza in un albergo di questa città; che potremmo anche non parlare di niente e fare soltanto l’amore dopo un così lungo rinvio; potrei dirle “Mi scusi, signora, la guardavo perché mi ricorda tanto una persona cara”. Con una frase così banale, lei sarebbe costretta a fingere di non credermi, ma se è lei, come penso, finirebbe col tradirsi e finiremmo anche col parlare di quei giorni lontani e di suo padre e di noi. Potrei anche proporle l’albergo: non posso rinviare ancora di vent’anni dopo averla ritrovata in modo così imprevedibile, in una città così lontana da dove vivo: “Ho una stanza in un albergo di questa città”. Forse arrossirebbe. Forse direbbe no, ancora no, e dovrei aspettare ancora vent’anni per rincontrarla nel ristorante di chissà quale città, per guardarla mentre mangia il suo dolce, mentre nervosa picchia con le dita sulla tavola aspettando il suo resto. Ha fretta. Il cameriere porta il resto e lei si alza e va via. Rinunzio alla frutta, pago e la seguo. Cosa le posso dire dopo che se n’è andata così? La strada è piena di vento. E’ questa una città piena di giovani, che mi induce a pensare con tristezza al mio paese dove sono rimasti soltanto vecchi invalidi davanti ai bar a narrarsi vecchie storie di morte e di miniera. Ci sarà ancora qualcuno che, ubriaco, parlerà intenerito d’una pianta, la pianta verde e amara della vita? Rifaccio più volte la strada, ma non la ritrovo. Doveva avere veramente molta fretta. Doveva essere veramente un’altra donna, una alla quale nessun vecchio ubriaco, in una casa di poveri, sradicata, poi, in un’alba imprevedibile, aveva parlato con la saggezza dei folli, di una pianta tenace che d’improvviso sboccia in fiori di struggente nostalgia. L’amato beneVennero giornate di sole e tornò a sedersi sui gradini di casa. Le vicine la rivedevano con piacere dopo quello che aveva passato e si compiacevano con lei, non avrebbero creduto che se la cavasse, ma lei, malgrado fosse una vecchietta piccola e fragile, ce l’aveva fatta a resistere. Anche il medico se ne era meravigliato: “Quando Iddio vorrà mi chiamerà accanto a quell’anima benedetta.” L’anima benedetta era quella del marito, morto già da trent’otto anni, ma sempre presente nei discorsi di Grazia e nei suoi pensieri. Non c’era giorno che non lo ricordasse a qualcuno parlandone o che non invitasse qualcuno su da lei per fargli vedere il ritratto dell’estinto, attaccato alla parete. Si sarebbe detto che il marito di Grazia le tenesse più compagnia da morto che, da vivo, anche perché da vivo aveva amato viaggiare e far tardi la sera con gli amici. Non avevano avuto che due figli, morti, peraltro, in tenera età. Lei non ne parlava mai, non ne aveva ritratti e forse li aveva cancellati dal suo cuore dove Ernesto, invece, regnava padrone incontrastato. Dei bimbi non ricordava che i vagiti comuni a tutti i bambini del mondo, mentre di Ernesto aveva ancora vivi dinanzi agli occhi i gesti, e nelle orecchie, il suono della voce: “ Grazia, domani faremo questo o quell’altro; Grazia, domani andrò qui, domani andrò là.” Avevano trascorso poco tempo insieme, era vero, ma erano state giornate così piene che lei ancora di esse riusciva a nutrire il suo cuore. Il tempo trascorso in solitudine e in rimpianto doveva avere notevolmente contribuito a smussare le spigolosità del loro rapporto, qualora ce ne fossero state. Ella non ricordava che il bene, le parole buone, le attenzioni e l’affetto. Realmente non aveva paura di morire, certa come era di trovarlo sulla porta del paradiso con sulle labbra il sorriso che gli conosceva. - Grazia, - avrebbe detto – ero qui ad aspettarti. Quel giorno c’era il sole e lei ricordava di quella volta che insieme si erano imbarcati per gli Stati Uniti (good evening, the milk…); qualche parola in inglese se la ricordava ancora ed era lieta quando l’occasione le consentiva di adoperarla tra lo stupore dei vicini che gli Stati Uniti li avevano visti sì e no nella carta geografica. - Good morning – disse alla signorina del piano di sopra che rientrava dall’ufficio. La ragazza le sorrise e lei pensò che sebbene il fidanzato della ragazza non fosse brutto e fosse persino biondo, nulla aveva a che vedere con Ernesto che di biondo era stato biondo, ma un’altra cosa. Un giorno o l’altro li avrebbe invitati, tutti e due, a salire da lei per fargli costatare come Ernesto era stato biondo e che occhi avesse avuto prima di chiuderli. Il sole scomparve dietro la casa alta, stava poco nel vicolo: appena il tempo di fare provare il piacere di scaldarsi. Anche Ernesto aveva fatto così, come il sole nel vicolo. Risalì. Ventisei scalini, ventisette, vent’otto… la sua stanza era triste e umida. Il nipote Nicola, l’erede, non aveva fatto proprio un affare ad accordarsi di darle da mangiare per il resto dei suoi giorni e comprarle un loculo alla morte. Ma oramai il contratto era stato firmato. Ernesto dal ritratto la guardò come a volere plaudire all’idea della sua vecchia, come quando il giorno della propria morte l’aveva chiamata a sé vicino per dirle di chiudere a chiave tutti i cassetti: - Qui finisce a Babele, Grazia. Conservati i soldi in petto e chiuditi tutto a chiave. Tra poco finisce a Babele. Così lei aveva fatto. La santa anima conosceva l’avidità dei suoi e sapeva Grazia ancora troppo ingenua e inesperta per pensare da sola che appena un disgraziato muore, i dolenti, pur continuando a piangerlo con un occhio, con l’altro si guardano intorno per vedere cosa c’è da arraffare. Ernesto aveva la sua brava esperienza, sebbene giovane. Un altro Ernesto? No, non poteva nascere. Le lenzuola erano fredde, sembravano bagnate. Quando si è soli un letto diventa immenso, come un deserto. Lei non aveva mai visto un deserto, ma ebbe la sensazione che il letto quella sera fosse troppo grande. Si rannicchiò in un angolo e pensò che nello spazio libero Ernesto aveva dormito e non dormiva più da tanto tempo. Non aveva nemmeno lo scaldino dall’ultima volta che per poco non si arrostiva. Le vicine glielo avevano tolto ad evitare che una qualche imprudenza le riuscisse fatale. Ma quando ottant’anni son suonati da un pezzo, ogni cosa può essere fatale. Prima di addormentarsi si volle recitare qualche posta di rosario per il giorno a venire: faceva sempre così e riteneva di avere un vantaggio di due o tre mesi. Pregare le teneva compagnia o, come lei diceva, le occupava la mente. I santi le offrivano tanto conforto senza pretendere che lei donasse in cambio la casa o altro. Si contentavano di quelle poche preghiere che lei donava con gioia in un rapporto dove il dare trovava coincidenza col ricevere. I nipoti non sono della stessa pasta dei santi. Pensò a Nicola, aveva tutto e niente gli bastava. Le galline, il nipote se le era portate in campagna sin dalla stessa mattina e perciò c’era persino più silenzio. Ora avrebbero dovuto fare le uova, intanto avevano ritenuto poco igienico che lei, ammalata, vivesse con le galline, dopo tanti anni di pacifica convivenza. Le avevano portato un grande pane dalla campagna, un grande pane di frumento, quella mattina. Era un bel pane, ma sarebbe indurito presto, non lo avrebbe più potuto mangiare: non aveva più i denti di una volta. Ernesto aveva avuto buoni denti. Ricordava che schiacciava le mandorle coi denti e gliele porgeva. Sempre affettuoso, mai che avesse levato una mano per picchiarla come fanno certi mariti. Non lo aveva neppure pensato, altri erano i suoi pensieri. Si addormentò cullata da dolci pensieri mentre sulla strada passava una fisarmonica. Note di vecchia mazurca campagnola ridestarono echi negli angoli riposti dell’anima. Alla luce di lumi a petrolio – lumi spenti da tempo e relegati in soffitta con altri oggetti e inutile pattume - emersero, come da un acquario, visi giovani di vecchie compagne. Da dove torni? Da dove torni e mi parli, mia giovinezza? Qualcuno rideva nell’ombra e un altro disse. – Si sta levando la luna. Era Ernesto. Il padre aveva gli occhi lucidi di vino, la guardava quasi covandosela con gli occhi. – E’ bello il tuo vestito, Grazia. Le note si allontanavano – Suonate ancora! Suonate ancora! - nessuno più rideva e i visi degli antichi compagni s’inabissarono nell’acquario della memoria. La luna rimase impigliata tra i rami di un albero e un cane si mise ad abbaiare lontano. – Suonate ancora! Suonate ancora! - Io gli voglio bene. Gli occhi lucidi di vino si strinsero a nascondere il pianto: - Sei bella nel tuo vestito – e non riusciva a dire altro. Bevve di nuovo per farsi coraggio, non faceva che ridire la stessa cosa, come un disco rotto. - Rosa o viola? Lungo e con lo strascico, il vestito. Rosa o viola? Come fai a vederlo dopo tanto tempo. Quanto? Tutto, tutto il tempo, finché ti durarono gli occhi. Ho ancora gli occhi? Non aprirli, non c’è più luce. – Stava parlando con Maria Eletta, una compagna di scuola, quella che piangeva sempre perché puntualmente perdeva il fiocco che teneva tra i capelli. Se ne era andata durante le vacanze dopo una settimana di febbre. Anche lei l’indomani era bella e morta. Ricordava alle vicine un piccolo uccello e non poche furono a tessere elogi alla sua bontà. Il nipote venne sul tardi completamente vestito di nero, con la moglie più nera ancora e una parente di mezza età, imbacuccata anche lei in uno scialle nero; ma nessuno pianse una lagrima ad eccezione di una bimba dei vicini che dei morti aveva una paura terribile. La vestirono di un vestito color tabacco che lei da anni si era tenuto pronto nell’armadio, e le misero tra le mani pallide la corona del rosario. Lei non mosse le labbra alla preghiera. Aveva un buon vantaggio. Si stupì di trovarsi quei panni addosso e dopo un po’ si rese conto di essere morta, ma le dispiacque, perché pur sapendo di doverlo fare, avrebbe voluto avere il tempo di dire a quella stupida della nipote ancora qualcosa sulle galline. Ripensandoci le cose da fare erano ancora tante. – Non si muore mai al momento giusto – si disse stizzita. Ma a poco a poco riuscì persino a ridere della sua stizza. – Un momento giusto – si disse – non verrebbe mai. S’incamminò. Ernesto forse la stava aspettando e lei non ci faceva una bella figura, dopo tanto tempo, a farsi aspettare. Andava guardandosi attorno e si avvide che non c’era nessuno ad aspettarla. Ci rimase male, ma volle scusare Ernesto. Doveva avere avuto qualcosa da fare all’ultimo momento. Non era così, infatti, lo vide che passeggiava con una bellissima bionda che si dimenava su altissimi tacchi. A lei parve una di quelle smorfiose la cui esatta definizione non era giusto pronunciare in quel luogo. Lo chiamò forte: – Ernesto! Ernesto! Ernesto continuò a passeggiare imperturbabile e a sorridere alla bionda che forse gli raccontava qualcosa di spiritoso. Grazia indispettita si morse le labbra e decise di raggiungerlo. Così fece. Lo raggiunse e lo tirò per un braccio. Ernesto si voltò. Era leggermente pallido, coi capelli biondi che lei ancora ricordava, ma con un’espressione estranea sul suo viso. – Dite, buonadonna – fece e Grazia sentì cadersi le braccia riuscendo appena a balbettare: - Buonadonna? Io? Io sono Grazia – gridò con voce strozzata – Grazia! Ernesto la guardò lievemente turbato e, non senza nascondere un certo disappunto, rispose, gentile ma distante: - Sono lieto di conoscervi, signora Grazia… ma non so in cosa possa esservi utile. - Utile? A me?… possibile che lei – s’impappinava persino la poverina – possibile che lei, anzi tu, tu non mi riconosca? La bionda dava segni di impazienza, ma Grazia era veramente disperata perché quell’incontro le era costato una vita di preghiere, per quell’incontro aveva accettato con letizia di morire, e ora… Ernesto la guardò e il suo viso divenne triste: - Signora – disse – Signora… - ogni “signora” per Grazia era come una frustata. – Io non vorrei far nulla che possa dispiacervi anche se non vi conosco, perciò vi prego, vi prego come se pregassi mia madre, di volermi spiegare tutto dal principio. Voi dite di conoscermi? Grazia non riusciva più a seguire il discorso. Ernesto aveva detto “come se pregassi mia madre… Avrebbe voluto fuggire, andarsene lontano, morire. Ma morire non le era più possibile. Aveva detto ”come se pregassi mia madre”. Tutto si spiegava: lei era Grazia, sì, ma una Grazia di ottantatrè anni con gli occhietti sbiaditi, la facciuzza grinzosa, con pochi e bianchi capelli: non era più Grazia. . Perché non ce ne andiamo? – intervenne la bionda che sino ad allora era rimasta zitta: – la signora ti ha confuso con un altro, ecco tutto. - Non l’ho confuso con nessun altro, – trovò forza di ribattere Grazia. - Non potrei confonderlo con nessuno. È la mia vita. La bionda sorrise: – Molto sentimentale. Ernesto non sorrise, il suo viso appariva turbato nel suo pallore. – Credetemi, signora – stavolta indugiò prima di dire “signora” – vorrei tanto ricordarmi di voi, ma vi giuro su ciò che avete più caro, che non ricordo! Non ricordo! Non ricordo! I suoi occhi si riempirono di lagrime e la bionda, turbata anche lei stavolta, rivolse a Grazia uno sguardo cattivo. – Vieni, caro. Andiamo via. La signora ti confonde con qualche altro e la sua buonafede la fa insistere. Le parole della bionda fecero nascere un dubbio nella mente di Grazia che chiese, desiderando di essersi sbagliata e nello stesso tempo il contrario: - Ma voi, cioè tu, non ti chiamavi Ernesto? L’uomo aprì le braccia con fare desolato e scuotendo il capo disse: - Non lo so, signora, non lo so. Grazia lo guardò, provò pena per quello sconforto e per se stessa: – Tu ti chiamavi Ernesto e mi amavi. Ora non ti chiami più Ernesto e ami quella lì. - Indicò la bionda che sorrise commiserandola. Ernesto scosse il capo e disse, triste triste come chi recita una preghiera per defunti: – Ora non mi chiamo più Ernesto e non amo più, signora. - Mi hai sposato – continuò Grazia, senza badargli – mi hai sposato contro il parere dei miei familiari che non volevano darmi a te, perché eri un contadino, scusami, non dovrei dirtelo ma è così: eri un contadino e ti volevo bene più di mio padre, più di mia madre. La bionda passeggiava innervosita,, accese una sigaretta, provò a farsi uscire il fumo dal naso. Ernesto stava a capo chino: - Se lei lo dice, le credo, ma non ricordo, non ricordo niente. Non se ne deve avere a male; può darsi che tutto sia stato come dice lei. Tutto capita a un uomo nell’infinità del tempo, ma la memoria… la memoria non conserva traccia di niente, è un otre bucato che si svuota e si svuota. Una volta una donna mi disse di essere mia madre: non le ho creduto, tante donne hanno detto di essere mia madre. Può darsi che avessero tutte ragione o tutte torto, non le biasimo, dico soltanto che non ricordo. Per lei è semplice: lei riesce a ricordare tutto quello che ha detto perché è qui da poco, ma si accorgerà ben presto che non si può ricordare tutto e sempre – sorrise appena. – Perdoni la metafora, ma la memoria è un otre bucato e si svuota. Tacque e nemmeno Grazia parlò per un poco mentre la bionda aveva sulla faccia un’espressione che voleva dire “Beh, tutto è chiaro, possiamo anche andarcene.” Grazia non si dava pace, però. Guardò Ernesto che la sovrastava, lei gli giungeva appena al petto; ricordò che spesso Ernesto aveva usato celiare sulla sua statura piccolina e ricercò nella mente qualcosa, una frase, che potesse ricordare il loro comune passato, ma niente le sovvenne. Ebbe paura di cominciare a scordare, di divenire un’ombra senza memoria. Sarebbe stata una povertà terribile; sentì che il ricordare, anche il dolore e le cose tristi, era una ricchezza inestimabile: per anni, nel vicolo dove il sole si affacciava appena, per scomparire tosto dietro la casa alta, i ricordi erano stati il suo pane. Ora li avrebbe perduti, perché la memoria, come aveva detto Ernesto, era un otre bucato, un otre inutile. - Ho paura – disse. – Ho paura di scordare tutto e persino il tuo nome. Dammi la mano. Non mi lasciare sola in questo momento anche se non mi conosci o non ti ricordi di me. Dammi la mano, anche se non mi vuoi più bene. La bionda li guardava senza parlare e senza più sorridere. - Chi è quella lì – chiese Grazia abbassando la voce. Ernesto la guardò come si guarda una bambina, si chino su lei e le disse piano: - E’ giunta in seguito a un incidente d’auto. Tornava da una festa. Non sa nemmeno lei chi è. In principio non faceva che parlare di quella festa, diceva di essersi tanto divertita e di avere incontrato gente importante, un giovane avvocato che l’ha fatta ballare tutta la sera. Ma ora non sa più chi è, o chi era. - Ecco, non lo sa – pensò Grazia. – Tra poco nemmeno io saprò chi sono, sarò un’ombra smemorata senza passato, senza ricordi, senza Ernesto. Lo incontrerò e non saprò riconoscerlo: è terribile - Ernesto – disse ancora stringendogli la mano – ti dispiace chiamarmi ancora per nome? La carezzò sui capelli, le sue mani erano leggere, fatte d’aria: - Grazia – disse – Grazia… - Tu mi volevi bene, Ernesto, non riesco a capire come hai fatto a scordarti di tutto. Tu mi volevi bene. Non capisco ma avverto che mi accade la stessa cosa: è terribile. - No, non è terribile. Pare così in principio, poi passa. - Dici che passa? - Voleva chiamarlo per nome ma non le riuscì: non ricordava più il nome, eppure era stato l’unico nome che aveva contato nella sua vita. Pianse ed egli se ne accorse: - Perché? – chiese con voce dolcissima. - Non ricordo più il tuo nome, - singhiozzò Grazia – e nemmeno il mio ricordo più. Non ricordo più niente, mi pare d’essermi persa… Ernesto la guardò con affetto. – Tu ti chiamavi Grazia e io Ernesto, ci siamo conosciuti sulla terra e ci siamo amati. Ora sei qui con me che ti aspettavo da tanto tempo. Va bene? Lei sorrise confortata e chiese. – Il nostro era un grande amore, vero? - L’amore più grande del mondo. - Siamo stati in America, vero? L’uomo sorrise e acconsentì. – Sì, anche in America siamo stati. Ora devo andare – aggiunse. – Ci vedremo ancora, stai tranquilla, ci vedremo. - Domani ? – chiese Grazia. Ernesto la guardò e anche la bionda, con un sorrisetto ironico: - Qui non c’è domani – dissero quasi insieme. Si allontanarono ed Ernesto si voltava ogni tanto a farle un cenno di saluto. Grazia avrebbe voluto chiamarlo, ma si era nuovamente scordato il nome (ma egli aveva ancora un nome?). Rinunciò a chiamarlo e sedette, ormai senza memoria ad aspettare non sapeva cosa. Passavano schiere di angeli cantando inni bellissimi, andò loro incontro e disse solo: - Sono qui. Quelli le sorrisero. - Chissà perché sorridono – pensò Grazia e con quel briciolo di umanità di cui non si era ancora liberata, alla luce di quei ricordi ormai vaghi che stavano per lasciarla, li paragonò a quelle persone che dalle disgrazie del loro prossimo traggono i numeri per giocare a lotto. Pensò così perché anche se non riusciva ormai a ricordare quasi niente, avvertiva un vago sentore di pena, sentiva che qualcosa aveva perduto. Un angelo bellissimo le disse: - Vieni. Lei lo seguì docile, unì la sua voce al coro che innalzava un inno che lei non aveva mai cantato ma conosceva da cima a fondo. La bionda di prima, quella che era stata in compagnia di Ernesto, cantava anche lei e, sempre cantando, le passò un braccio attorno alle spalle. Lei la vide bellissima e le sorrise. Avrebbe voluto che insieme parlassero un poco di Ernesto (ecco, si chiamava così) ma poi pensò che non era il caso e, in fondo in fondo, non c’era più tanto da dire: tutto il dicibile era stato detto laggiù, in quel vicolo avaro di sole, nei lunghi giorni di solitaria pena. La guardò ancora ed era come guardare in uno specchio profondo, posto oltre il tempo, la vita e la morte. L'ostaggioAprì gli occhi per una fitta dolorosa al fianco. Si toccò la tempia dove lo avevano colpito per constatare, non senza sollievo, che non v'era traccia di sangue. Si guardò attorno: lo stavano osservando. - Buongiorno, eccellenza, - disse il giovane con baffi che gli ricordava qualcuno incontrato dalle parti dell'università. Ricordò di essere stato aggredito mentre rientrava dalla passeggiata mattutina e s'informò preoccupato: - Dov'è Giuseppe? Che ne avete fatto dell'autista? Il giovane fece un gesto significativo con la mano, come a benedire, e aggiunse: - Si era messo in mente di fare l'eroe, non abbiamo avuto scelta. - Siete degli sporchi assassini, - disse l'onorevole che pure non amava le parole pesanti. - Dei killer spietati. La ragazza sorrise: - E' caduto nell'adempimento del proprio dovere. Gli manderanno tonnellate di fiori e molti telegrammi. Il presidente correrà ad abbracciare sua moglie. La guardò. Fasciata nei jeans aderentissimi, da sembrar nuda, aveva un viso volgare da servotta: - Siete dei folli, vi state avventurando per una strada senza uscita. - La troveremo l'uscita, - disse l'altro ragazzo che brandiva il mitra con giovanile spavalderia. - La troveremo. Lo lasciarono solo a meditare sul povero Giuseppe, vittima di interessi e calcoli che non aveva mai compreso a fondo. - La vita umana, - pensò - non ha più valore. Quale società potrà mai venire fuori da un contesto che ha in dispregio questo grandioso dono di Dio? Giuseppe era un uomo buono: un proletario ucciso da proletari, cioè un errore nell'errore: - Signore, perdona i suoi peccati e accoglilo nella Tua gloria, - pregò a bassa voce mentre qualcuno trafficava dietro la porta che si aprì per lasciare passare la ragazza di poco prima. I suoi jeans attillati erano una vera indecenza, nuda sarebbe stata meno provocante. Nel viso volgaruccio c'era una nota di triste serietà che indusse l'onorevole a riflettere sul significato dell'espressione "gioventù bruciata". - Proto manda a chiederle se ha bisogno di qualcosa: la considera un ospite di riguardo e vuole che si trovi bene con noi, onorevole. Avrebbe volentieri risposto che voleva tornarsene a casa sua, dove a quest'ora stavano in ansia. I giornali forse erano già usciti in edizione straordinaria e la radio e la televisione si affaticavano a costruire ipotesi. Chiese invece: - Chi è Proto? La ragazza sorrise. Sorridente era meno volgare, anzi diveniva quasi graziosa. Aveva letto da qualche parte che il sorriso abbellisce il viso delle persone buone, ma alla luce dei fatti era vero il contrario. - Proto è il capogruppo. - Non sarà il suo vero nome. Perché lo chiamate così? - E' lui che compila i nostri comunicati per la stampa. - Un intellettuale, quindi, - ironizzò. - Mi dica un'altra cosa... - Non le dico più niente. Ho l'ordine di non conversare, cioè di non "fraternizzare", coi prigionieri. - Ce ne sono altri? - Non le rispondo. Debbo chiederle solo se vuole delle sigarette. - No, non fumo. La ragazza se ne andò richiudendo a chiave la porta. All'onorevole accadeva per la prima volta di venire rinchiuso in una stanza, nemmeno da ragazzo aveva mai subìto quel tipo di punizione e la cosa lo rattristò moltissimo. - Sono incappato in un brutto guaio, - disse forte. Cosa potevano volere? Che cosa gli avrebbero chiesto? Un ricatto ai fini di una possibile estorsione si escludeva da solo, tutti sapevano che la sua famiglia non aveva soldi. Si guardò attorno: la stanzetta doveva essere larga non più di tre metri e profonda non più di quattro, con una finestrina in alto, in una delle pareti più strette, quasi all'angolo. Su una delle pareti più lunghe stava addossato un lettuccio. Una sedia impagliata completava l'arredamento. Montò sulla sedia per vedere cosa ci fosse oltre la finestra: un muro di pietre grigie a circa due metri il cui intonaco era stato scrostato via dalle intemperie. Guardando verso l'alto scorse, sul muro, un vaso di terracotta con una pianta verde, smilza. - E' primavera, - si disse e si chiese che razza di pianta fosse quella. Non era mai riuscito a capirne molto in fatto di botanica. Si consolò sospirando : - Non sarà certo l'erba voglio. Sentì ancora girare la chiave nella serratura e scese precipitosamente dalla sedia: non voleva che lo sorprendessero in quell'atteggiamento che, per ragioni che non si spiegò subito, trovava ridicolo. Entrò Proto accompagnato dal ragazzo col mitra, una faccia ottusa e feroce: - Deve scrivere una letterina, onorevole. - Non ho niente da scrivere a nessuno. A quest'ora già tutti sapranno che una banda di fanatici folli mi tiene prigioniero. - Lei, onorevole, è prigioniero dell'esercito rivoluzionario. Non è gentile da parte sua definirci banda, dopo avere capeggiato la banda più grossa del Paese. - Voi sareste rivoluzionari? - chiese aggressivo. - Siete un pugno di pazzi che vive nell'ombra. Se le vostre ragioni non fossero sporche non avreste motivo di nasconderle né di nascondervi: ci siamo sempre battuti per la libertà delle opinioni, siamo sempre stati disponibili ad accogliere ogni contributo. Ma voi non avete contributi da dare, voi avete il mitra. - Si sfoghi pure, onorevole. Quando avrà finito dovrà soltanto copiare di suo pugno questo biglietto: sono appena una ventina di righe. Cosa sono venti righe per un uomo della sua prolissità? - Chi vi paga? - chiese sempre aggressivo. - Debbo scrivere ai miei amici per convincerli a darvi dei soldi? Vi avverto che non sono ricco. Io non sono ricco. - Proto lo guardò severo: - Lei insiste ad equivocare anche perché le farebbe comodo trattare con dei grassatori. Ma gliel'ho già detto: il nostro non è un ricatto o un sequestro di persona per estorcere dei soldi, è un atto politico. Le concedo che esula dalla prassi normale cara alla borghesia e al sistema mummificante, ma rimane un atto politico. - Cosa dovrei scrivere? - Una cosa semplicissima: avvertire che non calchino la mano su alcuni nostri compagni incappati nei "rigori della legge" e che, intanto, una nostra compagna che si trova in avanzato stato di gravidanza sia restituita alla libertà. - Dicevo bene che si tratta di un ricatto. Non posso fare niente: non posso interferire nei compiti e nei ruoli che appartengo alla Magistratura. Lo dicevo che si tratta di un ricatto. - Lo chiami come vuole, intanto scriva. Mitra è un ragazzo nervoso, allergico alle parola: gli fanno schifo, per troppo tempo è stato imbrogliato dai vostri bei discorsi e dai vostri compiti e ruoli di predoni in combutta. Mitra aveva davvero una faccia feroce e l'onorevole ebbe paura di quella faccia di uomo di Neanderthal. Quello sarebbe stato capace di sparare davvero. Pensò che il destinatario non avrebbe tardato a capire che si trattava di una costrizione, avviene sempre in questi casi. Accettò perciò di copiare il biglietto che, osservò, era scritto in buon italiano: - Sei laureato? - chiese a Proto. - Son cazzi miei, - rispose il giovane che, avuto il suo biglietto, uscì chiamando a sé con un cenno Mitra che si baloccava con la sua arma. Rimasto solo, l'onorevole risalì sulla sedia a guardare la pianta verde sul muro e a pensare che per il povero Giuseppe quello era stato un giorno fatale, il suo ultimo giorno in questo mondo dove lo spazio per la pietà si restringe ogni giorno di più. Si chiese poi se - obiettivamente - questi giovani che sbagliavano nel metodo potessero avere una qualche ragione dalla loro parte. Di certo le cose realizzate sono sempre minori di quelle sperate e deludono spesso le premesse; la realtà non ha mai la statura della speranza. Ma i condizionamenti sono tanti e mutare la faccia di un paese non è cosa che si possa fare dall'oggi al domani. Questi giovani non sanno delle resistenze che si incontrano, e spesso scambiano momenti tattici con connivenze o peggio. Forse le colpe più grosse, le vere colpe, erano colpe di indulgenza: se la tua mano destra ti fa peccare, tàgliala. Si era sbagliato a non tagliare alcune mani e queste avevano proliferato. Non sentì la chiave, stavolta, immerso com'era nei suoi pensieri e la ragazza, entrando, lo sorprese sulla sedia, che guardava fuori. Era riuscito persino a scorgere una sottile striscia di cielo e a trarne consolazione: - "...E tu cielo dall'alto dei monti / sereno, infinito, immortale / di un pianto di stelle lo inondi / quest'atomo opaco del male..." - disse piano. - E' la preghiera della sera? - chiese ironica la ragazza che era venuta a portargli da mangiare. - Pensi a mangiare (da trent'anni non vi preoccupate che di questo) e le preghiere se le dirà dopo. La guardò considerando che per l'età poteva essergli figlia e avrebbe voluto dirle della striscia di cielo e della poesia che aveva mormorato, ma ebbe pudore, e quasi paura del suo cinismo. Scese dalla sedia e si mise a mangiare senza voglia mentre la ragazza lo guardava assorta. - Sei stata tu a cucinare? - Sì, onorevole. Come trova la nostra cucina? - Come ti chiami? - Se lo vuole sapere per denunciarmi quando uscirà, sappia che è poco probabile che esca vivo. Le parole lo impressionarono, pensò a Mitra e alla sua faccia feroce: le parole gli facevano schifo, aveva detto il compagno. Lo avrebbe ucciso senza parlare, con un grugnito di piacere. Bevve un sorso d'acqua e con voce che cercò di rendere ferma disse: - Non lo chiedevo per questo, era una mia curiosità. La ragazza raccolse i piatti e se ne andò. Prima di chiudere l'uscio si volto un momento per dire: - Mi chiamo Carla. Passarono dei giorni. Quanti? Non avrebbe saputo dirlo, sino a quando un giorno la ragazza, a pranzo, gli portò un dolce. Dovevano conoscere bene i suoi gusti, dovevano averlo studiato abbastanza se avevano azzeccato quel tipo di dolce che gli piaceva, un dolce dal nome forse tedesco: profitterol. Oppure era una coincidenza casuale. La ragazza spiegò: - oggi è domenica. Erano, quindi, sei giorni. La ragazza sorrideva, e ciò, contro le teorie di cui l'onorevole aveva ricordo, la abbelliva. L'uomo osservò il suo abbigliamento e disse che andare in giro così significava provocare la gente. Lei rise e chiese petulante: - La sto turbando, eccellenza? Il professore che era in lui insorse sdegnato: - Non sia sciocca, Carla! Era la prima volta che la chiamava per nome e la ragazza non riuscì a nascondere il suo turbamento. Forse aveva fatto male a dirgli il suo nome, anche se non si poteva dire che stesse "fraternizzando" col nemico. Ma un nemico che ti chiama per nome, che nemico è? Non dissero altro, ma quando lei andò via portandosi i piatti, sulla porta si volto a salutare e a sorridergli. Era la prima volta che questo accadeva e l'onorevole ne fu sorpreso al punto che non trovò tempo di risponderle. Tornato solo, passeggiò per la stanza percorrendola più volte nella sua breve lunghezza. Da quando era stato sorpreso sulla sedia a guardare il muro, aveva timore di rifarlo, trovandolo estremamente infantile. Ma cosa c'è di male se in queste lunghe giornate di ozio forzato ti concedi di essere infantile, di salire su una sedia per guardare il cielo? Dopo che la ragazza gli aveva detto "buongiorno" trovò la forza di tornare a guardare fuori da quella posizione insolita. Il cielo, per quel poco che se ne vedeva, era un bel cielo domenicale. La gente quella mattina era andata a messa e qualcuno aveva pregato pure per la sua vita. Pensò ai suoi cari e al povero Giuseppe che non capiva niente di politica e ne era morto. Verso sera Baffo e Mitra irruppero nella stanza con l'assurdo pretesto di una perquisizione: come era ovvio, non trovarono niente, ma Baffo, scorta la sedia sotto la finestra, scherzò sul fatto che l'onorevole, guardando fuori, faceva evadere i suoi pensieri, e ciò non era giusto: il pensiero è il motore del mondo. Più tardi tornarono a inchiodare due tavole di traverso sulla finestra e, per l'onorevole, la notte, alla luce fioca dell'unica lampada, divenne più lunga. In queste condizioni le visite della ragazza che portava da mangiare, i suoi calzoni attillati e i suoi rari sorrisi divennero gli unici diversivi di cui riempire le giornate. - Ho letto tempo fa di un topo chiuso in una gabbia che finisce con affezionarsi ad un cubo di plastica richiuso nella stessa gabbia, - le disse una sera. - Forse mi sta accadendo la stessa cosa. - Non credo di somigliare molto a un cubo, - lei civettò passandosi le mani sui fianchi e sulle cosce inguainate nella tela ruvida dei jeans. - Direi che, al contrario, sono piena di sfere, - aggiunse carezzandosi il seno. - Mi riferivo alla forza delle abitudini, alla abitudinarietà degli animali, - precisò l'onorevole. Ma il gesto lo aveva turbato e fatto arrossire; gli aveva fatto pensare di appartenere a una generazione che, forse sbagliando, aveva avuto un maggiore pudore per tutto quello che riguardava il corpo. - Il ragazzo ce l'hai? - chiese senza accorgersi di darle del tu, tanto gli era divenuto naturale. - Cosa vuol dire? Se vado a letto con qualcuno? Se mi faccio scopare? Sì, mi sono fatta anche Baffo una sera che eravamo entrambi ubriachi. Era un linguaggio nuovo per l'onorevole, ma non privo di una sua immediatezza. Quando la ragazza se ne fu andata ci pensò a lungo: " Mi sono fatta scopare anche da Baffo una sera che eravamo entrambi ubriachi." Rivide il gesto provocante nella sua semplicità, quel lisciarsi le gambe e i fianchi, quel carezzarsi il seno, e avrebbe persino pregato per questi giovani animali cui sfuggiva l'immenso valore della vita anche se ne erano pieni da traboccarne. Baffo venne più tardi a dirgli che gli stavano già facendo il processo. - Lo fate senza di me? - chiese cercando di nascondere la sua preoccupazione. Baffo sorrise, anzi sghignazzò: - Ma di te sappiamo tutto, sei un uomo pubblico, sei una celebrità: uno statista. Persino all'estero i giornali ti dedicano la prima pagina. Bella consolazione avere la prima pagina sui giornali. Quando il toro è adorno di "banderillas" vuol dire semplicemente che è più vicina l'ora de la "muerte". Ma perché si metteva a pensare al toro, adesso? Baffo di certo voleva spaventarlo. Lo aveva realmente incontrato dalle parti dell'università? Alla ragazza, quando venne a portargli la cena, chiese una sigaretta. - Mi aveva detto che non fumava, onorevole. - Sì, infatti non fumavo più da molto tempo, ma me ne è tornata la voglia. - Gliene do una delle mie, domani gliele farò comprare. Cosa fuma? Rimase perplesso. Considerava quello del fumo un vizio sciocco, oltre che dannoso. Non conosceva le marche delle sigarette, perciò arrischiò: - Potrei fumare delle americane? - Hanno molta nicotina, - disse la ragazza con competenza, - ma se a lei piacciono... Gli fece accendere la sigaretta col suo accendino a gas e le loro mani si sfiorarono; quel contatto lo inteneriva e l'uomo cercò di prolungarlo. - Mitra è dietro la porta, - sussurrò la ragazza. - Cerchi di non farmi gridare se no la sigaretta la finisce in paradiso. Ma appariva turbata anche lei e nonostante le parole minacciose non fece niente per sottrarsi a quella carezza, anzi - così parve all'onorevole - ebbe un breve abbandono, si avvicinò di più sfiorandolo col suo corpo, con le sue gambe che i jeans disegnavano perfette e contenevano a malapena. Quando la ragazza se ne andò, l'onorevole, con la sigaretta in bocca, col fumo che lo faceva tossire e gli bruciava gli occhi, pensò che tutto era assurdo, che tutto mirava a condurlo alla follia. Forse il mondo nel quale era vissuto, uomo pubblico, personaggio importante, era tutto un concentrato di ipocrisia, una solenne impostura: - Ma se così non fosse, se la società non si desse delle regole ponendosi i necessari limiti, che ne sarebbe del mondo? - si chiedeva, mentre mentalmente rivedeva la ragazza nei gesti e nelle parole provocanti ai quali non sembrava attribuire alcuna importanza Fumò la sigaretta meditando e smarrendosi, continuò a fumare anche quando il fuoco giunse a bruciare il filtro facendolo tossire convulsamente. Dormì male quella notte. - Un nuovo dolce? E' di nuovo domenica? - No, - aveva risposto la ragazza mantenendo il viso severo. - Allora si tratta del pasto del condannato? - cercò di scherzare, ma, in cuor suo, realmente preoccupato. La ragazza non rispose, stava guardando le assi inchiodate alla finestra. L'onorevole seguì il suo sguardo e commentò: - Hanno voluto togliermi anche quella strisciolina di cielo. Lei pensò che di cielo ne avrebbe avuto a volontà, ma non lo disse e continuò a tacere con la faccia tirata che la rendeva volgaruccia e quasi brutta. Andò via coi piatti senza salutare. Mitra, nel corridoio, dietro la porta, canticchiava e al suo passare disse qualcosa di spiritoso cui lei non diede retta. Ora l'onorevole disponeva di un intero pacchetto di sigarette e aveva ripreso a fumare con accanimento. Non avveniva niente e le giornate erano interminabili. Che cavolo faceva la polizia? Cosa faceva il Partito. Quasi quasi era andata meglio a Giuseppe, sebbene sin che c'è vita c'è speranza. Fumava nervosamente e di tanto in tanto si sorprendeva a pensare alla ragazza, a quel loro attimo di tenerezza che non aveva avuto seguito se non nella sua mente: non faceva che ripensarci, a volte sperando che riaccadesse. Di ciò si rimproverava, ma trovava facilmente un'alibi nella condizione anomala nella quale era venuto a trovarsi, e che doveva pure avere una fine. Forse tutto sarebbe finito presto, ma come sarebbe finito? Quando ancora poteva durare tutto questo? Aprirono la porta: c'erano tutti: Baffo, Proto e Mitra. La ragazza veniva per ultima col viso imbronciato. - Onorevole, il tribunale del Popolo l'ha condannata a morte, - disse Proto senza complimenti. Per la prima volta l'onorevole ebbe veramente paura, si sbiancò in volto: - Cosa significa? - gridò con voce strozzata che non gli parve nemmeno la sua. - Di quale popolo andate cianciando? Cosa significa questa pagliacciata? Non potete... non potete farlo... La ragazza estrasse la pistola e col dito irrigidito sul grilletto gli scaricò addosso tutto il caricatore, colpendolo al petto, al ventre e all'inguine. Gli altri la guardarono attoniti e si guardarono tra loro pallidi e un po' spaventati per quello che era accaduto. - Perché questa fretta? - chiese Proto. Negli occhi degli altri c'era la stessa domanda alla quale lei non seppe rispondere: - Ma se era già deciso...- balbettò quasi a volersi scusare, le veniva da piangere. Baffo sparò contro la tempia dell'uomo ormai alla fine, il colpo di grazia: - Nel nostro lavoro, - disse - non bisogna lasciarsi pigliare la mano dai nervi o dalle emozioni. Sei nervosa, Carla. Hai bisogno di riposo. Uscirono dalla stanza, Proto, Mitra e la ragazza. Per ultimo uscì Baffo con la sua faccia da identikit che non somigliava a nessuno.
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