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Racconti

 

Il compagno

 

Io lo sapevo che te ne andavi. Anche quella era una mattina d’inverno, e come tutte le mattine d’inverno amavo indugiare un po’ prima di uscire nella strada, nel freddo. Qualche lampada accesa per le strade ancora me la ricordo: particolari senza importanza. E’ strano come le cose senza im­portanza riman­gano precise nel ri­cordo. La strada bagnata di pioggia. Tu avevi la tua aria assonnata di sem­pre. Prima che ci separassimo mi hai chiesto se avessi ancora una siga­retta, lo facevi spesso, con un’aria timida come tutti quelli che chie­dono sapendo di non potere mai rendere. Mi di­spiaceva vederti così.

Tu forse mi invidiavi per quel mio modo di essere povero. Sapevi che avevo una donna, credevi fosse davvero una cosa importante; credevi mi bastasse le­vare una mano per ghermire le stelle, e, confesso, per lungo tempo anch’io lo credetti.

Nel caffè affollato dai soliti clienti mattutini, camionisti in gran parte ma anche un gruppo speranzoso di cacciatori, sorridesti alla tua faccia de­formata nella mac­china lucida del caffè espresso. – Oggi è giovedì? - chie­desti.

– Sì, giovedì.

Un autista accennò le note di una canzone stupida che a te piaceva, gli sor­ri­de­sti. Era proprio una mattina d’inverno come le altre, con la mono­tonia di ogni giorno e i pensieri di sempre nei quali una lunga abitudine mi aveva rinchiuso, Ma, a me, tu credevi bastasse levare una mano … Me lo dicesti all’uscita del caffè, forse per scroc­carmi un’altra sigaretta o per­ché ci credevi veramente. Ti sorrisi.

Io ero un ragazzo borioso, tu un ragazzo buono; è chiaro che se uno di noi fece del male all’altro, fui io.

- Mi sto abituando a fumare a sbafo, - dicesti ironico. Non ti risposi, sa­pevo che ti dispiaceva e non avevo parole buone da dire: le cose cattive le ho sempre dette con maggiore facilità. Ti feci accendere la sigaretta e ti vidi allontanare, svol­tare all’angolo un po’ curvo e infreddolito. Mi aspettavo che ti saresti voltato per salu­tare ancora una volta, non lo facesti.

Provavo pena per te e per me che non riuscivo a tirarti fuori dei tuoi pro­blemi; del resto, non dovevo conoscerli assai bene: tutte le volte che accennavi a parlar­mene, ti interrompevo per parlarti di me, delle mie con­quiste, le mie av­venture, i miei guai che, poi, guai non erano, e di donne: tu non avevi una ra­gazza e avrei do­vuto ricordarmene.

Stavamo divisi tutto il giorno, ci incontravamo a sera in quella stan­zetta che avevamo insieme in affitto. Non sapevo cosa ne facevi delle tue giornate ma do­veva esserci una specie di occupazione che aveva a che fare coi numeri. Ti ho conosciuto lì: - Ha una sigaretta, per favore?

- Si, eccola; ma cosa ci fa con tutti quei libri? Studia ancora?

- Non sono più studente, vorrei venderli: sono buoni, li vede?

Dovevano essere molti interessanti se ti tenevano sveglio sino a tarda notte: - Non me ne intento di libri, – risposi. - Ho letto soltanto i libri scolastici e un ro­manzo straniero rubato nella libreria della stazione.

- Quando l’amore per i libri ci porta a rubarli, tutto sommato, è buon se­gno, - dicesti.

 - E’ stato per una scommessa.

Mi accorsi di averti deluso. Tu cercasti ancora di sorridere, credetti che lo fa­cevi per il mio pacchetto di sigarette. Me lo rimisi in tasca e tu lo dovesti ca­pire: - Fumo raramente le “Esportazioni”, sono pesanti.

Non mi è mai piaciuto che mi si guardassero le carte. Provai stizza, pensai di te che eri uno stupido presuntuoso, e tutto per via di quei libri sul tavolo che tu avevi letto e io no. Le persone istruite mi hanno fatto sem­pre rabbia, perché dalla scuola fui tolto a dieci anni, quando mia ma­dre morì e mio padre si prese in casa Lucia, zia Lucia, la signora Lucia. Al diavolo anche lei, ma una donna in casa ci voleva.

Quella mattina, sebbene somigliasse alle altre, era una mattina diversa  e ne ebbi conferma la sera quando, rientrando, trovai il tuo bi­glietto: “Grazie-parto”. Avevi il dono della sintesi.

Finsi di dispiacermi, ma sentivo che in fondo ne ero contento: forse avrei avuto un nuovo compagno di stanza; di tanto in tanto, sino a quando sarei rimasto solo, avrei potuto portarci Sara. La cosa, di certo,  non sa­rebbe du­rata: la padrona di casa forse m’avrebbe chiesto un aumento.

Uscii. Seduto nel piccolo caffè sotto casa – mentre il juke box man­dava le note di una canzoncina scema – pensai che quella stessa sera avrei potuto portare nella no­stra camera, cioè nella mia camera, Sara che di gio­vedì era sempre libera, pensai anche che saresti potuto tornare, ma sorrisi: tu non eri di quelli che tornano sui loro passi. Mi sorpresi a guardare la tua foto sulla pagina del giornale della sera che uno sconosciuto aveva ab­bandonato su una seggiola. “Muore cadendo sotto un treno in corsa - Disgrazia o suicidio?”.

Io non avevo dubbi. Ma perché lo hai fatto? Non si poteva continuare a  vi­vere così… come si era fatto sino ad allora? Tu credevi mi bastasse levare una mano per ghermire le stelle, invece, ecco il segreto: mi basta un giorno di sole, so­mi­glio alle mosche; trovo una ragazza, la porto con me, nel mio letto, anche se non è la donna dei sogni (quella non la trovi mai), e continuo il mio sogno.

Non si fa come hai fatto.

C’è una parte di colpa mia in tutto questo: avrei dovuto proporti qual­cosa per quella serata, qualcosa da fare insieme… avrei dovuto chiederti un favore, un fa­vore qualunque e ti saresti sentito utile, importante…

Uno sconosciuto, dando un’occhiata al giornale, ha sentenziato che chi si uc­cide è un vigliacco. Ho guardato quei coraggiosi che avevo at­torno, mezza dozzina di eroi più un orbo col suo violino. No, non eri un vigliacco, solo che nella vita, un bel momento, bisogna trovare qualcuno, una donna, un amico. Tu avevi trovato me: un cieco.

 

La febbre

 

Nella stanza non c’era nessuno. Giungeva un parlare sommesso, in­ter­rotto di tanto in tanto da una risata breve, nervosa. Con chi stava par­lando Francesca? La chiamò pianissimo, non venne né rispose. Il parlottio si arrestò per un attimo poi ri­prese concitato. Un raggio di luce giocava con la tenda della finestra ripetendo nel soffitto una mobile trama floreale, quasi ninfee su uno specchio liquido.

Il suo corpo fu percorso da un brivido. – Come ci si arrende alla vita, si finisce con arrenderci alla morte – pensò. Ma non si sentiva così male da morire, soltanto come scordato dagli altri, abbandonato. Con chi stava par­lando Francesca?

Fu tentato di alzarsi e, in punta di piedi, andare a vedere, ad ascoltare non veduto. Sono cose che non si fanno, si disse. Non soffriva molto. In certi momenti aveva la sensazione di possedere una maggiore lucidità come se a causa della feb­bre gli si aprissero nuove strade, lontane dagli schemi usuali nei quali il pensiero nor­malmente si muove. Forse anche la pazzia consentiva qualcosa di simile, pensò, ma impazzire significava per­dersi in quelle strade e non potere tornare in­dietro. Si­gnificava, forse, scendere in un inferno senza ri­torno, annegare in un sogno senza ri­sve­glio. Di annegare, era accaduto l’anno prima a Luisa, in un mare tran­quillo in una chiara mattina d’agosto, ma quella era tutta un’altra storia con vero mare, vera morte. La stessa sera, mangiando pizza e bevendo birra bionda in capaci boccali, in una terrazza a cospetto del mare assas­sino, il dottor Vergili parlava di Platone e della sua repubblica; Ivonne, sua moglie, si lamentava delle scottature: aveva pro­vato una nuova crema ma non ne aveva tratto alcun benefi­cio, niente.

Poi, sempre per sdrammatizzare, come diceva, il dottor Vergili aveva par­lato di alcuni suoi parenti venuti in quei giorni a trovarlo: – Mio cugino Pasquale? Un santo. Quando l’ho condotto sulla spiaggia affollata di ba­gnanti ha guardato tutta quella gente nuda e ha esclamato “Dio mio, quanti pecca­tori!”

Ivonne rise, fu la sola a farlo.

Aveva riveduto Luisa dietro i finestrini di un autobus. Gli aveva sor­riso, lei sempre così dolce. Ciò pochi giorni prima che la febbre venisse – o era già ve­nuta? - L’aveva salutata agitando il giornale, poi era rimasto col braccio levato. Come era possibile? Cosa faceva su un autobus se era morta da mesi?

A raccontarlo al dottor Vergili che, adesso, se ne andava in giro chiuso in un cappotto grigio come il suo umore (Ivonne lo aveva piantato), questi avrebbe detto: – Sono i nervi, amico mio, sono i nervi - e forse sa­rebbe tornato a parlargli di Pla­tone, del Demiurgo e, infine, di Ivonne che non lo aveva mai ca­pito né aveva ap­prezzato i sacrifici che aveva fatto per lei, le rinunce.  Era di­ventato una lagna il dottor Ver­gili, un tipo da evitare.

Ma dove andava Luisa con quell’autobus?

Era stata la giovane contessa nello spettacolo di beneficenza offerto una sera al piccolo teatro parrocchiale. All’inizio di quella stessa estate. Le donne sostenevano pure le parti maschili, come aveva voluto il prete, anche se si trattava di uno spet­ta­colo castigatissimo. Francesca si era im­pegnata nel ruolo di un uf­ficiale dissipa­tore di patrimoni.

- Contessa, la regina sta male, muore!

Le contesse, la cui vita è tutto un bere champagne e divorare caviale as­sieme a ufficiali dilapidatori di ingenti patrimoni, non se lo aspettavano pro­prio, ma il me­dico di corte… Era la figlia più piccola del farmacista a recitare in quel ruolo, quella che l’altro giorno, giù nel portone, si sbaciuc­chiava con quella specie di cow boy, un ragazzo rosso di pelo.

Luisa non sapeva nemmeno cosa fosse il caviale. Si può vivere e mo­rire senza assaggiarne. Tante vite si consumano senza giungere alle espe­rienze più semplici: – Contessa, il caviale è finito, e tu muori.

Il corpo restituito dal mare era verde, verde come una cosa sua.  E lei era morta, anche se un’altra che le somigliava portava in giro sugli auto­bus il suo volto o altre ragazze a lei somiglianti in giro, con innocenza crudele, portavano quello che era stato il suo sorriso.

- Contessa, cos’è mai la vita?

La ragazza del treno non udì la domanda o credette che non fosse ri­volta a lei. Non rideva più mostrando dentini bianchi da piccolo squalo, si era rab­buiata in viso e sembrava in procinto di piangere. Accese una siga­retta – ancora una – e ri­prese a parlare di Spinoza e di presalario. In un angolo del vagone, un Cirano ve­stito d’ammiraglio, dietro il suo naso finto, ripassava la parte: – T’amo come l’amore stesso possa amare.

Inutile chiedersi come fosse finito su quel treno con tante cicche, Spinoza,  il presalario mentre assorto guardava  le ninfee sul soffitto, che partite dal delirio di Monet approdavano al suo.

- Questo treno va a Trapani, signore.

Valigia, cappotto, libro (piccolo borghese, leggi poesie d’amore!) e a terra. Decisamente, la colpa era stata del libro. C’è sempre qualcuno o qualcosa che ha colpa di quanto ci accade. Nemmeno ora aveva colpa di niente. Non aveva colpa se mentre bruciava su un letto ricordava di essersi trovato in una piccola stazione, le braccia impacciate dal cappotto, la vali­gia, il libro inutile, e la mente impac­ciata di altrettanto inutili pensieri, in attesa di un treno che lo riportasse in­dietro: - Da Ulisse in poi, si disse, non facciamo che pensare al ritorno. Con chi parla Penelope?

Ancora, la ragazza del treno interruppe i suoi pensieri: – Mio padre, in Ger­ma­nia, non disegna soltanto cani, ma quello gli è venuto proprio bene, perciò me lo ha mandato.

Si era messa a ridere, non somigliava a Luisa, che non rideva più né reci­tava nel piccolo teatro della parrocchia. Il mare aveva restituito il suo corpo – verde come le cose che gli appartengono – un corpo che non era Luisa, non era nessuno o tutti, puniti nel nostro piccolo orgoglio e umiliati sino al vilipen­dio estremo.

La moglie si affacciò sulla porta: – C’è stato Ugo, è passato un mo­mento per salutarti, ma tu dormivi.

Era Ugo uno dei proci? Aveva già provato a tendere il suo arco? Rise, ma non c’era gusto a ridere da solo.

Anche il dottor Vergili aveva promesso di passare in serata, sarebbe ve­nuto di certo e avrebbe parlato di Platone che assieme ad Ivonne era di­venuto il suo chiodo fisso.  La luce mutata aveva cancellato le ninfee dal soffitto. Giochi effi­meri che la luce combina e disfa. – Con chi stavi par­lando?

- Te l’ho detto, è passato Ugo.

Il cuscino era madido di sudore, lo rimosse cercando un angolo fre­sco dove pog­giare la testa. Non aveva sonno, ma chiuse gli occhi, fin­gendo di averne per ri­manere ancora solo, geloso e recluso in quella sua piccola forma di pazzia, in­ferno o paradiso privato, non importa. Ancora Luisa, Ivonne e il dottor Vergili, Platone e la sua re­pubblica: Poeti, non vi ci voglio qui, non vi ci voglio!

Avrebbe pure parlato dei suoi parenti, il dottor Vergili: gente di paese, un paese che per lunghi anni aveva fornito preti alla chiesa ed ufficiali all’esercito. Uno di loro si era meritato pure un monumento: “offrite al nemico la muraglia dei vostri petti”. Amen.

 

Maria

 

- Ciro! Ciro! Mamma mia, starà male!

Lo avevo trovato seduto sui gradini di casa, tornando dalla riunione, con la te­sta appoggiata alla ringhiera. Avevo fatto tardi per via di Anto­nietta che do­veva per forza raccontarmi delle prodezze del suo cane Fi­lippo, un cane che per poco non legge il giornale, non lo legge ma ne ha paura. Tutto mi sarei aspettato ma non di trovare Ciro in quelle condi­zioni: - Amore, che ti è suc­cesso?

Non era niente, aveva bevuto di nuovo. Mi guardò con due occhi ar­rossati e cercò di rassicurarmi: – Non credere che sia ubriaco, Maria, solo un po’ al­legro. Ubriaco? Mi fosse riuscito mai una volta, nel migliore dei casi mi procuro un bel mal di testa. Solo allegro, – rise emettendo aria dal naso ed ag­giunse cercando di identificarsi col personaggio che da anni si recita: – Sono allegro nella mia tri­stezza, Maria. Ah, Ma­ria…

Io non mi chiamo Maria, mi sono sempre chiamata Carmen perché a mio pa­dre piaceva la lirica. Non perdeva una serata del “Luglio musi­cale” e si tra­scinava die­tro mia madre che nella maggior parte dei casi, malgrado il fra­stuono, si addor­men­tava. Ciro mi guarda con occhi estatici, mi dice che somiglio ad un manifesto dei so­cialdemocratici. Bella, bionda, serena, nutrita con latte e con burro. Lo aiuto ad al­zarsi e apro con le mie chiavi, le sue le ha nuovamente per­dute.

– Certo che un mondo senza chiavi – osserva – sarebbe migliore: si­gnifi­che­rebbe che non ci sono più ladri. Bello, te ne vai per le strade, gridi “Ehi la­dro!” e non si volta nessuno. Oggi non puoi farlo, si voltano tutti per via della coda: la coda di pa­glia.

Recita ancora la sua parte di intellettuale impegnato e continua, senza che mai gliene avessi dato motivo, a chiamarmi Maria. Quando è ubriaco io divento Maria: Maria Malibran, Maria la sanguinaria, Maria Maddalena ecc. Un giorno diventerò Maria Stuarda e mi taglierà la testa.

- Posso “usarti”, Maria?

Insolitamente gentile, anche se mi piglia in giro. Deve aver saputo della mia riuione con le femministe, o feminote come le chiama lui, e ha scelto di propo­sito il verbo “usare”.

- Sei ancora la mia cara, dolce sposa?

- Sono soltanto mia, - gli rispondo polemica.

Sorride con aria furbesca: - Allora usami tu.

- Sei ubriaco.

- Solo un poco.

- Sei sciocco.

- Solo un poco.

Allunga le mani verso la mia blusa di tela indiana ricamata a ciliegie viola e mi alita sul viso un’intera osteria: – Belle le ciliegine di Maria, belle le cilie­gine… non le mangerai tutte da sola… e dalla qualche cilie­gina al tuo Ciro.

- Sei un porco.

Desiste. Si cerca una sigaretta nelle tasche, non la trova e ne prende una delle mie che stanno sul tavolo. – Fumi roba fine, Maria. Te le fanno con la pa­glia ‘ste cose? Questa Antonietta ti sta rovinando, Maria. Uno sposa una ra­gazzina buona e comprensiva e si ritrova a letto col manifesto del Partito. Sal­vati Maria, rimani femmina, lascia agli altri l’incombenza di mutare e di salvare il mondo, tu pensa a salvare te, la tua femminilità, la tua dolcezza, rimani la mia piccola Maria!

- Io mi chiamo Carmen, come la bagascia che vende sigari nell’opera omo­nima. Carmen. Non ti ricordi?

 Toreador pa-pa-ra-pa-pàPa-ra-pa-pa – pa-ra-pa-pà… 

- Canti bene, Maria. Hai un sacco di qualità, potresti fare soldi a pa­late, in tivù. Ma il denaro non è tutto nella vita, se hai troppo denaro, allora devi davvero stare attento alle chiavi. Perdere le chiavi è un lusso per poveri.

- Tu le perdi sempre.

- Quella no.

- Sei un porco.

- Lo hai già detto.

Anche mio padre beveva qualche volta, - ricordo mentre lo guardo se­duto sulla sponda del letto, trafficare con le stringhe delle scarpe. – Quelle volte era capace di cantare brani d’opera sino a notte inoltrata. Qualche volta i vicini ve­ni­vano a prote­stare. Ricordo la signora Maniscalco, quella che aveva un figlio po­liziotto: – Professore, la prego. Violetta sta male.

Non glielo avesse mai detto! Si sparò quasi tutta La Traviata mentre mia ma­dre, morta di vergogna, infilava la biancheria in un borsone di pelle, minac­ciando: – Ti lascio, sai! Non può continuare così. Sei il disdoro della fami­glia… ma io me ne vado! – E continuava a infilare roba nella sua borsa. Ma non se ne andava mai, si metteva soltanto a piangere vicino all’ingresso, seduta sul pingue borsone pieno di roba presa alla rinfusa.

Si metteva a piangere davanti alla specchiera e a me sembrava di averne due di madri il lagrime. Mio padre smetteva per un po’ per non farla più pian­gere, un po’ perché col sonno gli veniva meno la voglia, de­luso da quel pubblico che non sapeva apprezzarlo. – Anch’io vorrei dor­mir così/ nel sonno almen l’oblio trovaaaar… - con­cludeva sottovoce e s’infilava nel letto mentre mia madre di­sfa­ceva la borsa.

- Maria!

- Vengo.

- Nella stanza in penombra ha acceso la radio in sordina. Ogni tanto gli piace preparare l’atmosfera. Musica dolce e luci discrete: “…il nostro amore era l’invidia di chi è solo/ era il mio orgoglio la tua allegria…”

Mi ha usato, Forse l’ho usato io. In ogni caso ci siamo usati, con dolcezza men­tre la radio negandoci d’improvviso la sua complicità, tra­smetteva il bollettino per i naviganti. Le sue mani sfiorandomi hanno esi­tazioni e tremori adolescenti, ascolto una voce che parla del mare, ma io, senza timori, mi so nel mio piccolo porto. Un onda dietro l’altra viene e mi colma. Questo letto è una nave, una nave che ci porta a dor­mire. Lo scuoto. – Già dormi?

- Sei la mia piccola donna?

- No, sono solo mia.

Per un po’ tace e credo si sia addormentato, quando mi prende la mano e senza guardarmi mi chiede. – Se avremo un figlio lo terremo, vero?

- Sarò io a decidere.

- Mi piacerebbe ti somigliasse.

- Lo chiameremo Manrico.

Ride, come se avessi detto una cosa buffa: – Ma da dove ti vengono certe idee, infliggere a una creatura un nome simile! Manrico: deve essere il figlia­stro del conte di luna ne Il trovatore: di quella pira l’orrendo foco!

Non gli dico che anche a me piace l’opera lirica, e chiedo aggressiva: – Tu che nome metteresti?

- Leone,

- Come il Presidente?

- No, come Tolstoj: scriveva da padreterno.

Torna ad essere l’intellettuale antipatico che compila articoli per un gior­na­letto che non legge nessuno, e non è buono nemmeno per avvol­gervi la lattuga. Ci avrei giurato che veniva fuori col nome di uno scrittore. E meno male che è capi­tato un russo, se avesse pensato ad uno scrittore cinese forse avrei dovuto chiamare la mia creatura Chu-fu Chu-fu.

- Sono tanti a scrivere, ci pigliano pure i premi, ma a pochi è dato dire cose vere, essenziali, che non passano mai di moda.

- Ho visto al cinema “Guerra e pace” – faccio conciliante.

- Una vaccata, - sbotta. – Bisogna leggere il libro, il film somiglia a “Via col vento”.

- A me è piaciuto.

- De gustibus… come si dice?

- Non lo so, sei tu che sai tutto.

Stavolta assume un tono di socratica modestia: - Io so di non sapere.

Nel silenzio il battito della sveglia si fa più distinto. Tic-tac, tic-tac… Forse è vero che ai nostri giorni sarebbe scomodo andarsene in giro con un nome in­gom­brante come Manrico. Ma nemmeno Leone mi piace. Un bel nome potrebbe essere Pietro: duro come la sua testa, come le nostre teste. Forse è me­glio che venga una bambina, allora che nome le da­remmo?

- Che nome daresti ad una bambina? – chiedo.

- Carmen: è un nome bellissimo.

   Rosaria 

Come finale mi sembra abbastanza buono: “Il vecchio afferra la pi­stola…”

No, non “afferra”, prende. Il vecchio impugna la pistola: il suo è un ge­sto calmo, controllato. Alla maniera degli antichi imperatori, il vecchio è un amministratore di giustizia, un giustiziere.

Bella l’immagine di questo giustiziere con bazooka; il vecchio è uno sporco fascista, dispotico, autoritario, rompiscatole.

Ma no, è soltanto un vecchio, un escluso dalle gioie della vita. E’ fa­cile es­sere giustizieri quando le passioni ci lasciano. Dunque, il vecchio conclude spa­rando alla figlia. Sangue sulla camicetta, sangue sul sofà, sangue… Ma at­teniamoci ai fatti. Nella realtà come andarono le cose? Che la ragazza venne trovata morta sul divano è un fatto, anzi il fatto prin­cipale. Da questo bisogna partire per stabilire la dinamica del delitto e ca­pire perché questo vecchio che poi si chiu­derà in un muti­smo assoluto, decide di sparare alla figlia.

La solita storia del Sud? La solita macchia all’onore da cancellare col san­gue? No, ma la coscienza di avere subito un torto, una frode. Alla somma di settant’anni di delusioni aggiungi il crollo di quest’argine che il vecchio riteneva sicuro. L’immacolato candore, la purezza di Rosaria, suo vanto e suo orgoglio, non esi­stono più. Scopre ad un tratto di essere stato frodato.

Non possiamo liquidare il caso con la nostra posa di gente evoluta, con la no­stra pretesa mentalità europea. Evoluzione e mentalità si acquisi­scono attraverso pro­cessi lenti e non per decisioni improvvise o estempo­ranee. Il vec­chio, in defini­tiva, potrebbe essere la vittima di tutto un gioco dove era la figlia – vittima apparente: suo è il sangue sulla camicetta e sul sofà - a distribuire le carte.  In ogni caso vittima di un costume. Ha atteso nella sua casa di campa­gna, piena di silenzio e di mosche. Ha taciuto prima, tacerà dopo. Cosa si dissero prima del colpo di pi­stola? Non verrà a dircelo nessuno; non siamo nel campo dell’omertà “nentisacciu”, real­mente nessuno ha visto o sentito nulla. Solo il vecchio sa e tace, la ragazza è morta.

La pensi morta e trovi assurda la sua immobilità che non aderisce al ri­cordo della ragazza vivace che abbiamo conosciuto appena l’anno scorso. Aprile era il mese crudele schiudeva ferite nel cuore. Ricordi? Ti chiedo se ri­cordi e mi pare siano passati un milione di anni. Un milione d’anni fa era aprile.

Sorrideva con malizia e aveva l’aria di volerti pigliare in giro. Ricor­derai pure il ragazzo che le stava appresso, aveva barba, occhiali e, dietro gli oc­chiali, uno sguardo di pecora implorante. Doveva essere cotto. Lei non gli dava retta. Gli aveva detto di no un sacco di volte, ma la pecora era tenace. Tutte le volte che poteva le si appiccicava sfruttando la comoda po­sizione di “amico di famiglia”. L’andava a tro­vare, sedeva nel salotto buono e aspettava, zitto, guardando il lam­padario.

- Lo prendi il caffè, Giovannino?

Giovannino qualche volta rispondeva di sì. Al vecchio non dava fasti­dio, lo considerava come uno di casa se non addirittura un mobile. Uno strano ra­gazzo. Dopo la morte di Rosaria si è trasferito definitivamente nel capoluogo dove stu­dia. Pare che studi con profitto lingue straniere. Strana scelta per un ragazzo così taci­turno.

Non c’entra il ragazzo e non porta a concludere niente. E’ un perso­nag­gio se­conda­rio che dava soltanto fastidio. Dopo la morte della ragazza ha pensato an­che di uc­cidersi. Morire per amore. Ma il suo grande amore era so­prattutto letteratura. Ci ha pensato tutta una sera ed è riuscito sol­tanto a piangere affac­ciato a una fine­stra al quinto piano. L’indomani ha parlato col prete. Non in confessione. Il prete lo ha ri­cevuto in casa, lo ha consolato e, data la giovane età di entrambi, gli ha bat­tuto sulla spalla chiamandolo “fratello”. Non “figliolo”, fratello.

Il religioso era sconvolto: non aveva letto nemmeno i giornali. Da giorni non usciva perché si stava dedicando ad un lavoro, un saggio, sul “Breviloquio” di San Bonaventura da Bagnorea (ora Bagnoregio) … Ma per­ché aveva sparato? Perché aveva ucciso la figlia?

Rosaria era una pecorella del suo gregge, forse l’aveva pure concu­pita a di­spetto di Matteo. Nemmeno queste illazioni portano ai fatti. Del resto come si può rimproverare ad un giovane prete di concupire una ra­gazza della sua parroc­chia?  Sarebbe come rimproverare ad un diabetico di guardare i dolci esposti in vetrina e desiderarli. Sono i fatti e non i de­sideri, che contano. Ma ci furono fatti? O anche l’unico fatto – cruento e reale: il vecchio che spara – si può ridurre ad un’espressione di emotività o addirittura, di follia? Il folle afferra la pistola e uccide la ragazza.

Non amministra giustizia, gestisce il suo arbitrio, la sua follia e nient’altro. Nella solitudine e nel silenzio di una casa di campagna un pazzo uccide una giovi­netta. Ha importanza che si trattasse della figlia? No, se come pensiamo la follia non tiene conto dei rapporti o dei legami di sangue; e, invece, sì: se non si trat­tasse della figlia dovremmo chiederci cosa ci facesse una ragazza assieme a un vec­chio in una casa isolata, in campagna. La cosa ha un senso e non un altro, appunto per­ché stiamo parlando di un padre e di una figlia.

Già, il sangue. Il sangue è di Rosaria. Vanamente la vecchia serva a pro­vato a pulire il sofà usando un detersivo dei più reclamizzati. Fate largo al mangia­sporco! La macchia è rimasta, un po’ sbiadita ma è rima­sta.

Il giornale dice che il vecchio ha sparato un secondo colpo che, però, non è par­tito. La pistola – una vecchia pistola d’ordinanza, buona per piantar chiodi – si è in­ceppata. Contro chi era diretto il secondo colpo? Ancora sulla figlia, o il vecchio dopo il gesto terribile, voleva sopprimersi?  Il giornale non lo dice.

 

La ragazza aveva un amore segreto. Un grande amore, a suo dire. E il vec­chio apprese di quel segreto che lo escludeva, che lo relegava in un mondo di vecchi senza segreti, senza dolcezze, senza amore. Ma anche Giovannino, il prete e la serva erano fuori di quel segreto. Un segreto non è più tale se partecipato al mondo. E poi, che be­neficio ne avrebbero tratto Giovannino e gli altri dall’apprendere che la ragazza aveva un grande amore?

In galera il vecchio ci è andato da solo, ma deve avere ucciso – incon­sape­vole – anche in nome di tutti gli esclusi di quel mondo che si chia­mava Rosa­ria. Anche in nome del prete?

Il prete non c’entra: si è escluso da solo, scegliendo di farsi prete, sce­gliendo, cioè, la sposa bella che è la Chiesa. Ne è rimasto sconvolto, non può andare oltre que­sto. Per la serva è rimasta la macchia indelebile.

 

Sta tranquillo che al vecchio riconosceranno l’infermità mentale. Do­veva es­sere pazzo da gran tempo. Doveva già esserlo quando durante la guerra balzò fuori del nascondiglio gridando: “Savoia! Savoia!” e por­tando un gruppo di disgraziati a mo­rire sotto il fuoco nemico. Racconterà dopo anni che “alla testa di un pugno di prodi…”

I prodi ci rimisero la pelle e lui, invece, benché malconcio, se ne è tor­nato a casa, al suo paese, a raccontare prodezze.

Era pazzo a tenere una pistola carica nel cassetto. La teneva per i ladri che non vennero mai. Quel giorno venne la figlia. Dapprincipio si fecero i soliti di­scorsi sulla filosofia di cui il vecchio amava parlare benché non ne capisse niente. Leg­geva un fottìo di libri da quando la gente si era stufata di starlo a sentire. Par­lava sempre della guerra e concludeva balzando alla testa dei suoi prodi che erano anche il suo rimorso. Savoia!

Concludeva per modo di dire, perché poi ricominciava da capo sino al nuovo balzo. Savoia! E il sangue aveva irrorato la terra, quello di Rosaria aveva macchiato appena il divano.

Se ne era andato tra due carabinieri, la faccia pallida come un morto, zop­pi­cante. Dicono che la ragazza, quando la portarono via rantolasse an­cora ma morì prima che giungesse all’ospedale. Era morta e sulla scriva­nia del padre conti­nuava a sorridere affacciandosi da una fotografia. Sor­rideva mentre la serva cer­cava di cancellare la macchia del suo sangue.

 

Di queste vicende ne leggi ogni giorno sui giornali. Se una mattina ti im­bat­tessi in un quotidiano che non portasse notizia di fatti del genere – mogli che ucci­dono i mariti, mariti che uccidono le mogli, donne che spa­rano all’amante ecc. – ti sentiresti derubato. Anche se potresti, al limite, rimediare coi grandi de­litti, il mas­sacro di folle anonime che i vari gover­nanti ti forni­scono in nome di discuti­bili ide­ali.

Sono fatti di ogni giorno e se ce ne interessiamo è perché abbiamo cono­sciuto Rosaria. L’abbiamo conosciuta in aprile e ci colpì soprattutto la sua grande gioia di vivere che faceva tutt’uno con la primavera veniente. Per il resto è una vicenda squallida come mille altre, con un padre omicida e forse, a livello inconscio, ince­stuoso, un ragazzo barbuto e per sovrap­prezzo, un giovane prete che consola: - Fatti forza, fratello.

Qualcuno ha detto che a volte una buona coscienza può essere frutto di una cat­tiva memoria. Questo prete che una mattina incontra nella piazza principale del paese lo zoppicante ufficiale dei bersaglieri a riposo, gli scrocca un caffè – Lo prendo sempre un po’ lungo - gli scippa anche una mezza promessa di voto per il candidato suo amico fraterno e poi, pi­gliando il di­scorso alla lontana: – Coi tempi che corrono una ragazza è esposta a mille tentazioni… Lei stessa è tentazione. Poi, coi vestiti che si portano…

Anche i vestiti, adesso. Li paghi un occhio e non sai che vengono confe­zio­nati nella sartoria di Satana. “ Satana & C. - Confezioni d’alta moda”.  Per il prete molte cose vengono da Satana che a fine stagione pratica sconti alle anime prave.

Le ragazze quell’anno erano tutte più belle. L’inverno le aveva pla­smate con mille segrete carezze e Satana le vestiva di niente. Persino il prete, mal­grado avesse scelto la sposa, la sposa bella che è la Chiesa, se le guardava con concupi­scenza sca­vandosi abissi d’inferno sotto il tappeto a grandi fiori del suo studiolo tappezzato di madonne che in quella prima­vera presero a sorri­dere con insolita ma­lizia.

L’inverno divampava sotto il divano-letto.

 

Sorridevano ancora le madonne quando Giovannino venne a bussare. Aveva l’aria abbattuta, cominciò a piangere subito. – Io l’amavo, padre, - Non si capiva niente in principio: Chi amava, Giovannino? Chi aveva spa­rato? Chi era morto?

- Io l’amavo padre.

Padre è parola grande e terribile. Gesù sulla croce si rivolge al Padre: “Allontana da me questo calice”.  Ma il calice era là in mezzo a loro, pieno sino all’orlo del sangue di Rosaria. Bisognava allontanare calice e sangue. Bi­so­gnava es­sere calmi; calmi come se il morto fosse un qualun­que morto in una guerra lon­tana e non Rosaria che vestita da madonna – manto azzurro e aureola – sorrideva dal rettangolo appiccicato alla parete, un sorriso ironico come se avesse scelto quei panni per far loro uno scherzo.

- Devi farti forza, fratello.

Ecco, lo aveva detto: fratello. Non si sentiva la forza di essere padre. Era un ruolo assai impegnativo quello del padre, ed egli non aveva la forza di allonta­nare quel calice di sangue.

 

Il calice era lì, tra di noi, sul tavolo, equidistante dalle nostre mani. Ma ero io solo a vederlo. Il ragazzo piangeva e le sue mani contratte trema­vano. Mi fa­ceva pena vederlo piangere, non per lui: mi aveva sempre ispi­rato antipatia. Non dico odio. Sapevo che apparteneva a una razza eterna­mente sconfitta, a volte sof­frivo di non poterlo amare come mi avevano in­segnato. Mi faceva male vederlo piangere mentre io non potevo, non po­tevo più. Piangere per me avrebbe signifi­cato divider­cela ancora, dividerne ricordo e pena, mentre il calice era mio, mio soltanto.

- Fatti forza, fratello.

A me nessuno avrebbe detto di farmi forza. In quella mia pena ero solo, non avevo fratelli, non avevo diritto di piangere, perché avevo scelto la sposa, la sposa bella. A chi raccontare la fatica dei miei giorni tormen­tati dal pensiero che altri, tutti gli altri, godessero della sua vista e la guar­dassero con occhi lascivi?  Le ho detto una volta: - Sapessi la fatica che mi costa donarti giorni di sole, in quelli ti al­lontani come una farfalla e io ti perdo.

Lei aveva riso abbracciandomi: - Poeta! Poeta!

Mi amava a quel tempo. Poi vennero scrupoli e nuvole. Bisognava di­ven­tare buoni amici, buoni amici soltanto. – Buongiorno, signorina. A casa stanno bene?

- Fatti forza, fratello.

Il ragazzo se ne è andato più calmo. Un prete è un vaso dove versare la pena. Dammi forza, Signore, per portare il dolore del mondo. Dammi forza per i giorni che verranno nei quali dovrò convivere col rimorso. Non perdo­narmi, dammi solo la forza per scontare vivendo questa mia morte e chiedermi al sorgere d’ogni nuovo giorno, perché ho scritto quella lettera infame.

 

Rantolava sul divano quando giunse l’ambulanza straziando con la sua sirena il cielo d’aprile, aprendo una lunga ferita nel silenzio della campagna tes­suto da mille foglie giovani e verdi, ma tutto era finito.

Era tutto finito e lei sorrideva dal ritratto come la volta che aveva detto. “Andrò a vivere a Parigi”.

Parigi: un’essenza, un profumo che manca nella nostra vita che squallida si dipana tra scadenze, scartoffie e lenti veleni. “ C’est la fleur du secret/ un incen­die à decòuvrir”.

Ne parli e ti chiedi perché il vecchio ha sparato. L’avvocato è stato chiaro in proposito: omicidio colposo. Puliva la pistola. La teneva in cam­pagna per i la­dri che non vennero mai. Nel posacenere c’era della carta bruciata. Una lettera? Cosa c’era scritto nella lettera?  Probabilmente si trattava di una lettera senza importanza se non addirittura di una vecchia fattura pagata, uno di quei fogli di carta che soli­tamente muoiono in fondo ad un cassetto.

Il vecchio puliva la pistola e il colpo fatale è partito proprio in dire­zione di Rosaria, del suo cuore. Niente gelosia, niente affetto morboso, Solo fatalità. Fa­ta­lità, disattenzione, imprudenza. Omicidio colposo. Sono cose di ogni giorno. Siamo tutti vittime del caso: tu sali in treno e non sai niente dei com­pagni che in­contri, po­tresti anche incontrare un assassino. Non puoi farci niente, ma sarebbe bene essere più cauti, specialmente con le armi da fuoco. Più attenti.

Qualche giorno fa, ad esempio, un giovane sacerdote ha cercato di at­tra­ver­sare sulla sua bicicletta il passaggio a livello mentre sopraggiungeva il direttis­simo. Fa­ceva spesso quella strada perché risparmiava un paio di chilometri. Forse era di­stratto o calcolò di farcela. Era uno di quei giovani preti che fanno dello sport e pen­sava, forse, di farcela prima che il treno giungesse. Non ha avuto fortuna. La cronaca è piena di queste disgrazie. Ne leggi ogni giorno sui giornali e fa rabbia apprendere quante vite umane vengono buttate via per imprudenza.

Giovannino legge i giornali cercando notizie del paese che ha la­sciato. Si in­te­ressa, sia pure da lontano, ai progressi della squadra di cal­cio che ha avuto un buon avvio all’inizio del campionato. Legge e ap­prende le disgrazie che col­piscono la gente. C’è rimasto male nell’apprendere del sacerdote finito sotto il treno. Lo co­no­sceva, diceva messa nella chiesa dell’Assunta, era stato tanto comprensivo: - Fatti forza, fratello.

Però, un’ora insolita per un prete le undici di sera. Ma si sa che i preti sono come i medici: si ha sempre bisogno di loro.

Legge sempre i giornali Giovannino e apprende di sciagure che capi­tano in tutte le parti del mondo. Contadini precipitano col trattore, utilitarie fini­scono in una scarpata, morti a Filadelfia o altrove durante un week-end…

Quanta imprudenza!

Si promette ogni giorno di essere attento e di meditare prima di com­piere una qualsiasi azione perché una volta... - suda freddo a pensarci – una volta, in un mo­mento di rabbia. Gli accadde di scrivere una lettera – una lettera ano­nima – che non pensava, però, di spedire. Non la doveva spedire! Finì con im­bucarla lo stesso.

Si trattava di una lettera cattiva per la quale, poi, aveva pianto.

  Solange 

- Per favore, non cominciamo con le solite domande: cognome, nome, pro­fes­sione, domicilio eccetera. E’ da quando son qui che non faccio che declinare gene­ralità.

L’uomo alzò verso me la sua faccia agnostica e mi fece cenno di se­dere. L’altro, quello che non avevo veduto entrando, si raschio la gola e si mise a pu­lire i suoi oc­chiali da presbite. Sembrava un barbagianni e mi aspettavo che si andasse ad ap­pollaiare sulla spalla del funzionario inqui­rente, ma rimase al suo posto, presso la macchina per scrivere, a prendere appunti. Dal calendario alla parete la giovane diva mi sorrise invitandomi a bere Coca-cola. Avevo vera­mente sete.

- Niente generalità, ma deve ripeterci tutto dal principio, la sua storia ha dell’incredibile.

- Sarà incredibile come dice lei, ma non penso ci sia altro da aggiun­gere – obiet­tai. – Tornavamo dall’inaugurazione di una mostra, dove tutti si cono­scono e nessuno si conosce. Ti presentano qualcuno, tu dici pia­cere e poi non ricordi più come si chiama. Notai che la signora mostrava interesse per gli stessi quadri che mi piacevano, chiacchierammo un poco poi mi chiese se avrei potuto accompa­gnarla a casa: Gustavo – doveva es­sere il marito – aveva promesso di venire a prenderla, ma ancora non si vedeva. Mi parve preoccu­pata. Io non avevo la mac­china, ero venuto a piedi per via della batteria. Glielo dissi. Lei sorrise e mi disse che non abitava lon­tano, ci avviammo a piedi, la sera era tiepida.

- Che ore saranno state?

- Forse le dieci…, le dieci e mezzo… Non ho guardato l’orologio.

Istintivamente mossi il braccio quasi a voler guardare l’ora. L’uomo ebbe un sorriso impercettibile e mi chiese sollevando tra l’indice e il pol­lice il mio “Longines”: - E’ questo il suo orologio?

Il barbagianni seduto al suo scranno, prendeva appunti a capo chino, non riu­scivo ad immaginare cosa scrivesse, e presagivo che le cose, per un mucchio di stu­pide coin­cidenze, si mettevano male, Quello era il mio orologio e non mi rimaneva che ammetterlo. Il funzionario sorrise soddi­sfatto e mi chiese, ripetendo il gesto di poco prima: – E questo è il suo coltello, vero?

Ora era chiaro che volevano incastrarmi. Gli occhiali del barbagianni bril­la­vano di malizia e la bionda del calendario, pur continuando a sorri­dermi, mi sembrò meno amica. Cercai di mantenere la calma e replicai di non aver mai posseduto col­telli. Non era vero: sotto le armi avevo avuto un coltello di quelli che s’aprono a scatto, che mi faceva sentire tanto “terrone” e tanto impor­tante. Era trascorso molto tempo da quando il mio tenente mi aveva chie­sto perché portassi un coltello e io, in­solente, avevo risposto che loro mi avevano dato an­che un fucile: dieci giorni di con­segna. Ma qui non si trattava di consegna, forse il grassone era morto, lo avevo visto in un lago di sangue.

- E’ suo questo coltello?

- No, non ho mai posseduto coltelli. Cosa cercate di insinuare? Cosa state mac­chinando contro di me? Cosa cercate di farmi ammettere?

Mi ero lasciato andare e mi ascoltavo, sorpreso dalle mie parole e so­prat­tutto dal loro tono, quasi commosso dal mio stesso sdegno. Mia ma­dre lo aveva sempre detto: “devi fare l’attore, il teatro ce l’hai nel san­gue.” L’uomo rimase impassibile, mi lasciò sfogare e sospirò: – Allora, il coltello non è suo. – Si ri­volse al barbagianni: – A domanda risponde “non ho mai posseduto un coltello”.

Nel silenzio che seguì udii il triste scrivano scandire lentamente con una nota di incredulità e malcelata ironia: - Non ho mai pos-se-du-to un col-tel-lo.

- C’è un morto, caro amico. C’è un morto – disse il funzionario. E anche quel “caro amico” pronunciato in quella circostanza mi sembrò ca­rico di minaccioso sar­casmo.

- Mi ridica della donna. Chi era?

- Era?

- Sottile, lei. Diciamo chi è?

Facile fare domande di quel genere. Ma chi era, in effetti, Solange? Nat aveva detto che sarebbe stato contento di perdere un braccio per avere vent’anni di meno e potersela portare a letto, io rischiavo di rimetterci di più senza averla nemmeno sfiorata. Ma non si può dire ad un onesto fun­zionario “una donna per la quale qualcuno vorrebbe dare un braccio”. È risposta paradossale che non può trovare spazio in un verbale della poli­zia. Andrà bene per Nat che è un poeta, non per il barbagianni che mi sta guardando in attesa di una risposta: - Non so molto sul suo conto. L’avevo in­contrata qualche altra volta. Deve essere laureata in qualcosa, non so bene in cosa. Forse psicologia. Ha degli interessi per le arti figu­rative e, mi pare, una discreta competenza.

Chissà cosa scriveva il barbagianni sul suo foglio, anche il funziona­rio lo guardò ma senza apprensione. Doveva esistere tra i due una lunga dimesti­chezza, una scon­tata complicità.

- Dunque, la conosceva da poco e quella sera…

- Tornavamo da quella mostra e la stavo accompagnando…

- La dama e il cavaliere, - concluse ironico mentre la faccia del barba­gianni s’illuminava di un sorriso osceno.

Mi infastidiva che qualcuno ridicolizzasse il mio comportamento, mi infa­stidiva soprattutto che il barbagianni ne ridesse, e, disubbidendo alla regola che mi ero imposta, persi la calma: - Lei non ha alcun titolo per prendermi in giro. Sta cer­cando un assassino e ha preso un granchio. Non le permetto di rivalersi facendo dell’ironia sul mio conto!

Divenne rosso per la prima volta mentre il barbagianni lo guardava aspet­tando la sua reazione, e la reazione venne. L’uomo passò attraverso diverse gra­dazioni di colore e poi, verde: - Non sto cercando alcuna ri­valsa, sto cer­cando soltanto di farle capire che è nei guai sino al collo. Quanto a permettere e non permettere, qua den­tro sono io che permetto o non permetto.

Detto questo, premette un pulsante che stava sul suo tavolo e ai due uo­mini ac­corsi disse di portarmi via.

 

Questo è un antico palazzo, quasi un castello. Forse, nel tempo, deve es­sere stato pure un monastero. Se sapessi pregare dovrei farlo. C’è un uomo legato al suo remo, un galeotto che cerca di vincere la corrente, e sono io. Ripartiamo dal principio. Ma hanno davvero un principio le nostre avventure? Hai tu un princi­pio, Solange, di­verso dal principio che preesi­ste ad ogni desiderio? Forse che non mi dormivi nel sangue quando Nat diceva che avrebbe dato un braccio per averti?

Quella sera mi offrii di accompagnarla o fu lei a chiedermelo? Non avevo macchina e così c’incamminammo a piedi. L’idea di fare assieme quei quattro passi sino a casa sua, nella strada buia, mi eccitava. Avrei cer­cato di prenderle la mano, mi avrebbe preso la mano. Solange. Mi hanno detto che significa an­gelo so­litario…

C’è un altro uomo sdraiato nel pagliericcio accanto al mio. Entrando, al buio, non l’ho notato. Ne ho avvertito l’odore, il profumo di un dopo­barba doz­zinale. Ora lo sento respirare piano, so che mi sta guardando mentre fisso oltre la finestra e non so cosa cerco.

La finestra dà in un cortile interno all’edificio, riesco a scorgere dei rami di vite canadese, che si arrampicano verso le finestre più alte e, inca­stonato tra due cornicioni, un triangolo indifferente di cielo.

- E’ suo questo coltello?

Oh, Solange! S’è sparso sangue sul tappeto di un giorno che sem­brava lumi­noso e vorrei pensare a te come ad una pietra pura e ferma sul ciglio dell’alba. Non posso gettarti in uno stagno, tornerei a cercarti per­sino nelle notti senza luna. No, non è mio il coltello. Quando il gruppetto ci si accostò avrei voluto veramente pos­sedere un’arma - per difenderti, Solange, prima che per di­fendermi – sentivo che qualcosa non andava, che quello era un agguato. Per un momento ho sperato che si trattasse di ladri – si legge tanto sui giornali di gio­vinastri che a notte ag­grediscono pacifici passanti - sperai che fossero dei ladri, delle oneste canaglie, ci avrei ri­messo i soldi, l’orologio. Pazienza.

Ma quando uno di quei ceffi ti sorrise quasi approvandoti, capii che c’era sotto un inganno, gli sorridesti. Tu avevi il coltello e mi ferivi, So­lange. E mentre mi spin­gevano nel portone di quell’albergo-bordello e mi dibattevo tradito, senza coltelli, continuavi a sorridere, Solange.

- Farà meglio a sdraiarsi un poco.

Era la voce dello sconosciuto che mi veniva dal buio. Gli ho obbedito senza volontà e l’uomo ha ripreso a parlare, dopo un sospiro che giudicai ostentato: - An­che per me la prima notte è stata così. Non riuscivo a capa­citarmi né a chiu­dere oc­chio. Poi ho parlato con l’avvocato: è giovane ma tanto in gamba, proviene da una famiglia di gente di legge, il nonno – di­cono – è stato presi­dente della corte prima e poi senatore. Lei ce l’ha l’avvocato?

Quello era l’ultimo dei miei pensieri, qualche altro ci avrebbe pen­sato. Mio fratello dice sempre che gli lascio il lavoro sporco e che a volte gli pare di essere la mia balia. Stavolta è davvero così.

Lungo le scale mi dibattevo ancora, ed è stato lì che il grassone mi ha sfer­rato il pugno che mi ha fatto perdere i sensi. Mi hanno rinchiuso in una stanza che odo­rava di naftalina, non so dove condussero Solange, forse in un’altra stanza dove si festeggiava la cattura del pollo o a scrivere una lettera a mio fra­tello: mio fratello ha molti soldi, non è un mistero, non so come li ha fatti, ma li ha.

Mi svegliarono più tardi alte grida. Qualcuno litigava in una stanza vicina, si udirono delle imprecazioni, una voce di donna che implorava “Non lo fare, non lo fare” e, poi, inorridita, “cosa hai fatto, Michele?”

Qualcuno di quei tipi doveva chiamarsi così, Michele. Che ore sa­ranno state?  Non avevo più il mio orologio né il portafogli, qualcuno deve avere socchiuso la porta lasciando cadere qualcosa sul pavimento – il col­tello? – stavo cercando cosa fosse, tastoni nel buio quando m’ingiunsero di alzare le mai. Mentre mi riparavo gli occhi dalla luce di una torcia elet­trica fui colpito da un calcio in pieno petto. Erano poliziotti e malgrado il dolore sospirai di sollievo. Vidi che sul pianerottolo, il grassone rantolava nel suo sangue.

 

- Si sieda.

Credevo fosse ancora notte, ma albeggiava. Mi hanno ricondotto nella stanza dove la ragazza del calendario sorride esortando a bere Coca-cola.

- Si sieda.

Al posto del barbagianni ora sta seduto un giovane che dall’aspetto sem­bra un religioso. Sarà il colletto bianco della camicia che fuoriesce appena dal pullover scuro a rafforzare quest’impressione. Mi aspetto che parli in latino. E’ l’altro a par­lare, invece, l’inquirente di prima. Mi porge l’orologio: – Se lo ri­prenda, inge­gnere. E’ un bell’orologio, ma stia at­tento alle persone che frequenta, alle cattive compagnie.

- Quali persone?

- La signora…, la donna dei quadri – sorride compiaciuto della bat­tuta. – Di quadri o di picche, sempre donne sono e la donna è danno…

La ragazza del calendario è tornata a sorridermi, mi offre Coca-cola. Avrei bi­sogno davvero di bere, perché, senza voce, chiedo: - Solange? – e mi ricordo che si­gnifica angelo solitario.

- Le ha detto di chiamarsi così? Vada per Solange, ma in realtà si chia­mava Rosalia Spinelli ed era usata come esca da una banda di malfat­tori che tenevamo d’occhio da qualche tempo. L’abbiamo arrestata sta­notte alla stazione. L’angelo so­litario stava per prendere il volo.

O Nat, vecchio pazzo, poeta! E anch’io, non meno pazzo di te, felice di an­dare in giro con un angelo!

La ragazza del calendario sorride ancora, ma sono diventato diffi­dente, mi è passata la sete. Chiedo se posso vederla un momento, un mo­mento solo. L’uomo che sembra un religioso e non ha ancora parlato leva gli occhi dal do­cumento che sta esaminando per dire no. Capisco che è una risposta definitiva e mi rassegno, in fondo, a cosa servirebbe rivederla?

- A cosa servirebbe rivederla? Cosa potrei dirle? – mi chiedo lungo le strade illividite dell’alba, che ripercorro da solo. Mai stato così solo. Di già qualche spaz­zino cerca vanamente di rendere più puliti la città e il mondo.

       Ritratto a memoria All’alba di stamani un uomo è stato rinvenuto cada­vere a bordo della sua utilitaria nei pressi del  santuario di Santa Ro­sa­lia, una località tra le preferite dai turisti e dalle cop­piette clandestine. (Dai Giornali) Sì, veniva a mangiare qui da noi; non tutti i giorni, ma assai spesso. Di fe­sta non veniva mai. Sedeva, quando gli era possibile, a quel tavolo all’angolo, sotto il ven­tilatore.Cominciò a venire  d’estate, me ne ricordo perché il ventilatore gli dava fa­sti­dio, ma si ostinava a preferire quel posto all’angolo. Non era di gusti difficili. Pren­deva mezza porzione di spaghetti e una bistecca ai ferri con un po’ di insa­lata. Non beveva molto vino, appena un quartino che mischiava con acqua minerale. Una volta, è stato quest’inverno, chiese an­cora del vino e per poco non arrossiva come un ragazzo. Un’altra volta, ma solo una volta, chiese un’intera bottiglia di un vino di marca, non ne lasciò una goccia, e al cameriere che se ne era meravigliato spiegò: – Non è che non sia possibile bere un’intera bottiglia di quel vino, ma non tutti se la meritano. Noi lo chiamavamo “il dottore” per via dell’aspetto distinto e perché la­sciava la mancia. Può darsi che non lo fosse, ma, in ogni caso, con tanti dottori che circo­lano, è meglio mettersi al sicuro.Doveva avere un buon carattere. Era paziente nei giorni che avevamo folla, ca­pita soprattutto di venerdì. Si seccò una sola volta col cameriere, c’era assai gente, alcuni forestieri e degli elettricisti che lavoravano nei pa­raggi, e ha dovuto aspettare un poco.- Lei mi fa perdere il treno! – disse al cameriere. Non sapevamo che avesse un treno.Veniva solo, un paio di volte e venuto con un collega, un tale dai ca­pelli tutti bianchi e la faccia di ragazzo. Una sola volta venne con una donna, giovane, bionda. Il tipo nordico. Si era d’inverno, la donna aveva una pellic­cetta spelac­chiata, forse coniglio. I francesi lo chiamano lapin. Un ottimo collega, tutto sommato. Aveva dei momentacci, ma, a sa­perlo morto, non ci pare  giusto giudicarlo da quelli.Era venuto dalla provincia da circa un anno; non si è mai capito se per pu­ni­zione o promozione: da noi le due cose si confondono facilmente, come effetto sono identiche. Come sotto le armi: - Bravo, fai tre giri di campo! – Male, fai tre giri di campo!Nel suo lavoro se la cavava bene, aveva dei numeri ma non doveva piacer­gli molto. Lo svolgeva bene per puntiglio, faceva tante altre cose per puntiglio. Il dot­tor Graziani che si occupa dell’amministrazione del per­sonale, lo con­sultava sem­pre per le decisioni importanti. Era preparato ma non zelante, se zelante vuol dire far le cose con fervore: faceva le cose senza fervore e talvolta  ostentando di­sinte­resse, quasi strafottenza.Non si tirava mai indietro nelle iniziative di solidarietà con altri com­pagni ed era sempre pronto a darti un consiglio come a offrirti il caffè. Per il resto era un uomo inaccessibile, non capivi se certe cose le dicesse sul serio o scherzasse. Aveva spesso l’aria di pigliarti in giro.Aveva periodi di luna, momenti di depressione senza alcuna ragione appa­rente. In ogni caso doveva essere un individuo complicato malgrado l’apparente sempli­cità.Si faceva allegro quando gli giungevano lettere del fratello. Aveva un fra­tello prete che si era fatto trasferire nel nord per sfuggire una ragazza di cui si era inva­ghito. Non riceveva altre lettere. Ogni tanto gli telefonava una donna, non sap­piamo chi fosse. Una donna.Una volta senza un serio motivo si è messo a sbraitare contro la so­cietà dei consumi, come se noi appartenessimo a un’altra. Diceva che of­fre frigori­feri e au­to­mobili in misura eccessiva e risparmia su scuole e ospedali. Se la prese con un nostro collega, il ragioniere Ambrosini, un buon diavolo, come se la società dei consumi l’avesse inventata quel pove­raccio. Aveva spesso di queste uscite.Di buono aveva, però, bisogna dirlo, che non cercava di danneggiare i com­pa­gni, né teneva a fare carriera. Se avesse voluto… valeva più di altri che a furia di in­chini e sgambetti si sono fatti avanti. Era orgoglioso: – Ho la schiena di ve­tro, - di­ceva. – Se mi inchino corro il rischio che mi si spezzi. Dio se era orgo­glioso! Una volta chiese al dottor Graziani se per caso lo avesse scam­biato per un tappeto. Noi tremavamo per lui, perché il dottor Graziani non è il tipo da farsi posare mosche sul naso. Ma la cosa finì lì e non gli hanno fatto niente.Aveva momentacci come tutti, ma nei momenti difficili riusciva a mante­nere la calma, una calma che ti mandava in bestia. Viveva separato dalla moglie – se­para­zione legale – e vedeva rara­mente suo figlio, ne par­lava qualche volta in­teneren­dosi, ma avveniva ra­ramente e con pochi intimi.Nessuno, almeno qui, in ufficio, sapeva che soffrisse di cuore o che un in­farto lo avrebbe ucciso. Nemmeno lui doveva saperne niente anche se nei suoi discorsi la morte era un personaggio presente. Era grigia Mondello in quell’autunno. I juke box tacevano e i caldar­rostai in­nal­zavano segnali di fumo verso il cielo ammainato. E’ questo il punto: la gioia di ve­dersi, di stare insieme, non ha saputo resistere alla me­stizia di quella sta­gione, anzi, direi che quasi ne assorbisse gli umori. Cor­revamo un rischio grosso, quello di fare della nostra storia una malinco­nica avventura da canzo­netta. Mi propose di lasciarlo.

- Sei stata un dono meraviglioso che io non mi aspettavo più dalla vita. Ma avresti torto a  buttarti via. Scordami e vivi la tua vita, anche se per nes­suno, dico per nessuno, tu sarai ancora tutte le cose che sei stata per me.

Non ebbi coraggio di lasciarlo, allora. Pensavo si trattasse di uno dei suoi mo­menti neri divenuti più frequenti negli ultimi tempi ma che, co­munque, sarebbe pas­sato. Ero ancora affascinata dal suo personale modo di vedere le cose e di esprimerle. Forse un ingenuo innamoramento per la forma, ma pensavo di amarlo, di essere la sola ad averlo capito veramente.

Di un uomo apprendi subito se ha i baffi o non li ha, il colore degli occhi, se porta il cappello. E parli dei suoi occhi, dei suoi baffi, del suo cappello. Rara­mente ti soffermi a pensare che è la somma della gente che ha incontrato, delle cose che odia e che ama, delle, cose che ricorda e per­sino di quelle che ha scor­dato. Forse è vero che siamo anche ciò che mangiamo.

Non sapevo niente di tutte queste cose. Parlando mi apriva spiragli di un mondo nuovo, nuovi luoghi dove la mia anima desiderava abitare. Ero incan­tata dalle sue parole sebbene ne intuissi un’oscuro pericolo. Si sa di serpenti che at­traggono gli uc­celli e li divorano.

Sapevo che pranzava in una piccola trattoria di terz’ordine, dalle parti del porto. L’aveva preferita ai self service che trovava deprimenti. Mettersi in fila col vassoio in mano gli faceva pesare di più il fatto di essere un fo­restiero, un uomo senza famiglia. Non sono mai stata in quella trattoria dove diceva lo trat­tavano bene e lo chiamavano persino “dottore”. Le po­che volte che abbiamo cenato as­sieme mi ha condotto in buoni locali, sce­glieva vini di marca e, scher­zando, si lamentava non ci fossero zigani a suonare il violino.

Quella sera, parlo dell’ultima sera, mi trovavo con lui a bordo dell’auto dove lo trovarono il mattino dopo. Era passato a prendermi: - Sali, altezza.

Mi chiamava “altezza” da quando gli avevo detto che ai tempi della rivo­lu­zione francese sarei finita sulla ghigliottina. Non amo gli atteggia­menti populisti e mi infastidiva che un uomo della sua intelligenza e sen­sibilità assumesse pose so­cia­listeggianti.

- La mia intelligenza non uscirà menomata dal fatto che altri uomini ab­biano lavoro, pane, dignità. Io non mi ritengo ricco in misura di come gli altri sono po­veri. E poi – aggiungeva scherzando – se qualcosa mi rende diverso e migliore di altri, e l’immeritata fortuna che ho avuto in­contrandoti.

 Non sapevo se gli volessi bene. So che aspettavo di vederlo, contavo i giorni, so che mi piaceva ascoltarlo e ridere delle sue battute che mi sem­brava aprissero spazi su nuove dimensioni dell’intelligenza. Così mi pa­reva. Mi parve così per molto tempo. Ma quella sera che si sentì male e mi intimò di andar­mene, me ne an­dai lieta che me lo avesse chiesto. Un gesto vigliacco, ma non potevo rischiare di farmi tro­vare lì con un uomo che – lo capii chiaramente – non amavo, un estra­neo dall’eloquio brillante, niente di più. Non dovevo buttarmi via.

Corsi a casa e stiedi male. Dissero che avevo preso l’influenza e finsi di cre­derlo anch’io. Ho battuto i denti tutta la notte mentre nelle orecchie mi risuona­vano stra­zianti le note della canzone che avevamo ascoltato as­sieme in un bar po­che ore prima che morisse.

Non sono riuscita, sin’ora, a piangere una sola lagrima.  Quando mi son sen­tita meglio son corsa guidando come un’automa, senza ragione, all’aeroporto. Ho visto partire  aerei e l’aria era tutta un addio. Sbaglierò, ma crescere è anche dire addio a tante cose, e io mi sentivo cresciuta, cioè grande da potere fare delle scelte. Dopo avere finto per anni la spregiudi­catezza avevo scelto di vivere secondo le trite con­venzioni. Volevo una vita ordinata, aspettare un marito, andare in chiesa coi fiori d’arancio, vestito bianco  e tutto il resto.

Quell’uomo era stato l’ultima pagina di poesia, le cose che una ra­gazza so­gna. Mi abbagliavano le sue parole, ma dovevo svegliarmi e sce­gliere. Forse ho votato per la sua morte; se non fosse morto avrei dovuto trovare la forza di fargli un di­scorso, forse gli avrei scritto una lettera.

Credo proprio che gli avrei scritto una lettera.

 La visita 

- Vedi, raramente ci viene a trovare qualcuno. Sarà che la casa è fuori mano, oppure perché non siamo gente simpatica, - sorrise. – C’è stato un tempo che ave­vamo molti amici, sia io sia Paolo, ma un po’ alla volta li ab­biamo perduti per strada. Forse perché invecchiamo. La casa e il lavoro in realtà ci hanno in­vecchiati, non sol­tanto il tempo. Penso veramente che il fatto di avere una casa, possedere degli og­getti ci abbia spinto a con­durre una vita appartata, se incon­trassimo ancora la gente che abbiamo frequentata non sapremmo cosa dire.

- Non si sa mai cosa dire incontrando la gente, poi le parole vengono da sole – osservò l’ospite. E intanto guardava le pareti piene di quadri, le poltrone del sa­lotto buono dove non veniva a sedersi nessuno.

- Nemmeno Paolo è più quello di una volta.

Com’era Paolo, adesso?

Seduto sull’orlo di una poltrona si guardava le unghie e sembrava uno in pro­cinto di andarsene. Aveva cessato da tempo di occuparsi del giornale e si era are­nato nel suo lavoro – un lavoro qualunque in un uffi­cio qualunque, tra gente qua­lunque – leg­geva ancora dei libri ma non ne parlava con nessuno. Solo qual­che volta con Marta, ma si trattava di brevi commenti, giudizi lapidari, che lei ascoltava fingendo un in­teresse che oramai non c’era più da tempo.

- Mai lo stesso uomo torna a bagnarsi nella stessa acqua dello stesso fiume – stava citando Paolo con ironia. Ecco come era adesso: chiuso ed amaro, con Marta pri­gioniera nella stessa casa – la casa fuori mano – sot­tratta al mondo di cui era stato geloso.

L’ospite allungò la mano verso il bicchiere scintillante per un raggio di sole che entrando dalla finestra socchiusa lo sfiorava e andava a posarsi sul grembo di Marta: - Il vino è buono da queste parti – disse, e Marta, premurosa, chiese se ne vo­lesse ancora.

“Dea della giovinezza, coppiera degli dèi” ricordò l’ospite, e guar­dando il viso bello, scorgendo per la prima volta una ruga sottile tra le so­pracciglia, si sentì triste.  Ricordò come ella usava vantarsi del professore che spiegava Sant’Agostino senza distogliere gli occhi dalle sue gambe. C’era un altro profes­sore, però, un professore biondo che fumava la pipa, che non la guar­dava nem­meno, le poche volte che i loro occhi s’incontravano lei rimaneva senza pa­role… Clodoveo… Clo­doveo… Chi era Clodoveo?

- Con quello sarei andata a letto senza farmelo dire due volte. – L’ospite ri­cor­dava quella confessione: era accaduto in una sera di pioggia, lei aveva an­che detto. – Mi piace stare con te quando piove.

Ne era passato di tempo e ne era caduta di pioggia!

Già sin da allora c’era Paolo, ringhioso e ostinato. – Gli rompo la faccia, - di­ceva di ogni nuovo nome maschile che veniva ad aggiungersi alla schiera de­gli spa­simanti di Marta. Paolo era un cane ringhioso e lei, una farfalla che lo faceva appo­sta ad inventarsi tanti ammiratori, per indi­spettirlo: - …Un mio nuovo compagno con un viso bellissimo, l’ho guardato per tutta la lezione e speravo mi proponesse di ac­compagnarmi a casa. Ha una “Fulvia” azzurra…

Un autobus giunse con un lamento alla fermata e ripartì senza avere rac­colto nessun passeggero. Le luci si riflettevano sull’asfalto bagnato. – Mi piace stare con te quando piove.

- Non ho un viso bellissimo, non ho una “Fulvia” azzurra e non fumo la pipa. – Si erano baciati a lungo nel buio dell’automobile par­cheggiata nel viale deserto. Già allora nei loro discorsi c’era un preludio di addio. C’era anche Paolo nei loro discorsi, in un intrigo di sillogismi e paralogismi, contenuti e forme. Paolo e il suo amore tenace, le sue carte in regola, i fiori d’arancio.

Com’era adesso Paolo?

- Ti ritrovi più solo, sempre più solo. Scrivi un libro per incontrarti con la gente e, invece, ti esili nel deserto dei cosiddetti intellettuali. A volte ti senti una gal­lina che veste penne di pavone. Puoi anche scoprire che qualcuno ti legge nel cesso.

Marta non lo stava ascoltando, perché chiese all’ospite: - Ti ricordi di Fi­renze?

Firenze. Avevano fatto di corsa le scale ripide del campanile di Giotto. Ad ogni pianerottolo c’era un cartellino con la freccia: “Proseguire per la cima”.

La vita era stata una febbrile scalata verso una cima irraggiungibile per ri­trovarsi più soli con la testa intronata di vento.

- Eravamo proprio matti, - proseguì Marta.

- I pochi momenti felici li dobbiamo più alla follia che alla tanto cele­brata saggezza – commentò l’ospite e lei ebbe l’impressione di avere già sentito quelle pa­role, l’impressione divenne certezza e si ritrovò di nuovo – ragazza pazza e fe­lice – con l’uomo che ora le parlava ritornato da un tempo immemo­rabile.

Paolo avvertì che dalle loro parole nasceva una forma di complicità, quasi ricominciasse un giuoco che lo escludeva. Guardò Marta: qualcosa di lei ancora gli sfuggiva, nessuno l’aveva mai posseduta interamente. Sentì di averle vanamente dedicato la propria vita e si chiese se fosse stato giusto, sia pure per amore, averle impedito di essere altrimenti felice. Bevve un lungo sorso di vino e deside­roso di par­tecipare ancora a quel giuoco, in fondo sciocco, nel quale lei – sempre lei, sin dai lon­tani giorni di scuola – distribuiva le carte, per ottenere an­cora cittadinanza in quel mondo di ricordi dove l’ospite e la sua donna si muovevano disinvolti, per non sen­tirsi un intruso in quella casa che – perdio! – era la sua casa, disse timida­mente: - Anch’io ricordo Firenze.

I due lo guardarono, la donna quasi infastidita da quell’intromis­sione inat­tesa: - A Firenze non eri con noi.

Era vero. A Firenze non era stato con loro, qualcosa doveva avergli impe­dito di partecipare alla gita, e a distanza d’anni gli toccò risoffrire per quelle gioie – effi­mere sin che si vuole – che non aveva condiviso con Marta; e anche ora ri­schiava di non essere con loro, con Marta. Quasi un’ombra più scura o un oggetto posato sull’orlo di una poltrona.

L’ospite si alzò dopo un’occhiata all’orologio e mentre prometteva che sa­rebbe tornato a trovarli, pensava che non l’avrebbe più fatto. Sem­mai avrebbe po­tuto tele­fonare in un’ora che Paolo non ci fosse: avrebbe volentieri incontrato la donna che gli ridestava l’eco di morte primavere, ma non sarebbe tornato in quella casa così fuori mano.

Quando, dopo i soliti convenevoli, i due ebbero chiuso la porta alle spalle dell’ospite, si ritrovarono ancora soli, con l’antico odio e l’antico amore. Fu Paolo a reagire per primo: - Non faceva che guardarti le gambe, quel cretino. Gli avrei rotto la faccia.

- Ma cosa vai dicendo… - si schermì la donna, ma ne era lusingata. – Da quando ti conosco vuoi sempre rompere la faccia a qualcuno.

Paolo la prese per le spalle costringendola a distendersi sul divano: – Forse dovrei rompere a te la faccia, questo bel faccino, e tutto sarebbe ri­solto.

Lei sentiva l’alito odorante di vino, poi la mano che s’insinuava tra le sue vesti, impaziente, nervosa, con un tremito antico e innocente. Dalla fi­nestra en­trava fioca l’ultima luce del giorno e lei pensò all’altro uomo che forse dav­vero le aveva guar­dato le gambe.

Se l’ospite fosse rimasto avrebbero potuto ancora parlare, di tutto meno che di amore. Non era più l’invenzione esaltante – Proseguire per la cima! Prose­guire per la cima! – ma una parola appesantita da millenaria tristezza.

Sapeva che per qualche tempo sarebbe tornata a pensarlo con strug­gi­mento sottile – le era già accaduto una volta – a non potere dormire, a ripeterne le pa­role sentite sino a farne parole sue, prima di riconfinarlo nel limbo dei ri­cordi che non fanno più male.

I suoi vestiti ora giacevano sparsi sul pavimento e così, nuda, le parve di es­sere indifesa contro Paolo, contro il mondo; di essere stata sempre così e di non avere mai, in realtà, deciso di nulla; di non aver potuto mai nulla contro la vita, il tempo, l’amore che ora – lo aveva appena pensato – era soltanto una pa­rola in­trisa di tri­stezza. Questo avrebbe dovuto dirlo all’ospite qualora fosse tornato.

Paolo la stava baciando sul collo. Lo strinse forte a sé e chiuse gli oc­chi e non pianse.

Squillò il telefono. Dal mondo giunse disperante un richiamo: gente na­sce, gente muore, crolla la borsa, fioriscono mimose; precipitano aerei e ragazzi si amano nell’ombra; si combatte una guerra in qualche posto, ci invitano a un con­certo… Il pianoforte distilla note di arsenico: mi – re- mi – re – mi –si re- do- la… e la pioggia scroscia sui viali deserti della giovi­nezza, sulle strade che abbiamo per­corso e che non ritroveremo mai. Di­sperato squillò ancora. – Non rispondiamo, - dissero insieme. – Non ri­spondiamo.

 
L’aquilone
 

Stava seduto in terrazza con un libro, un giallo, tra le mani. Scen­deva la sera. La scarsa luce non gli consentiva di continuare a leggere sebbene il cielo fosse an­cora chiaro, appena un po’ fosco a levante, dove s’incuneava tra le montagne.

Aveva chiuso il libro mettendo tra le pagine, a segnale, un fiammi­fero spento e si era tolti gli occhiali passandosi una mano sopra gli occhi stan­chi. Il libro nar­rava di una donna bellissima trovata uccisa in una ca­mera d’albergo. Pugnalata alle spalle. Il detective aveva scosso la testa e aveva annotato i particolari della stanza con puntualità un po’ pignola, la porta chiusa dall’interno, la finestra al settimo piano, inaccessibile, tre bic­chieri sul tavolo di cui uno lasciato a metà. Alla fine del capitolo, davanti ad un bicchiere di whisky, scuoteva ancora la testa.

Una donna bellissima. Ci vuole sempre una donna – meglio se bellis­sima – per animare una vicenda, per dare vita ad una avventura. Senza la donna, l’avventura non ha luogo ed è come stare seduti in ter­razza, soli, in una sera di giu­gno, mentre si accendono luci in paesi lontani con altri vec­chi in terrazza, soli nella stessa sera di giugno, e con camere d’albergo vuote, senza donne uc­cise o da ucci­dere.

Dalla vicina chiesa giunse il rintocco di una campana e la voce del prete, am­pli­ficata dall’altoparlante riuscì a far giungere esortazioni e pre­ghiere, se non al cuore, alle orecchie di tanti fedeli, impedendo – nel nome di Dio – il prose­guire di even­tuali conversazioni e confidenze su argo­menti futili o, comunque, irreligiosi o ir­ri­verenti.

D’inverno era stato più triste, perché ci sono molti rapporti per un vecchio tra quella stagione, la preghiera e la morte - per tutti gli ammalati. Ave Maria… - men­tre ora le campane sembravano sollecitare le rondini a tornare ai loro nidi: curri cru­vacchia ca i figli t’arrobanu…

Tra gli ammalati da ricordare nelle preghiere, adesso c’era anche la figlia. Ecco perché era rimasto solo nella casa silenziosa, col suo ro­man­zaccio e i suoi pen­sieri: la moglie era accorsa accanto alla sua bam­bina. Così la chiamava men­tre bam­bina non era più da tempo. Aveva as­sunto un volto sapiente e severo, ed il cuore – fa­ceva pena pensarlo – le si era inari­dito o lo aveva sostituito con uno di quei tetri li­broni che parlano di leggi e di diritto.

L’ultima volta che si erano trovati assieme in una pizzeria per una di quelle fe­ste dove non si sa cosa si festeggi, l’aveva sentita parlare con compe­tenza di or­di­namento giuridico, riassetto di carriera, coefficienti e corsi abili­tanti.

Povera piccola. Da bambina le si accendevano gli occhi di gioia se un uc­cello si posava sul davanzale, per una farfalla intravista, per un fiore o un colore. Anche ora le si accendevano gli occhi per un decreto legge o una sentenza, ma di una luce fredda, senza fuoco.

Uccelli, farfalle e fiori erano morti. Come avevano fatto a morire?

A saperla così arida si meravigliava a volte di sopravviverle. Non sol­tanto in camere d’albergo si uccidono creature. La morte si sconta ogni giorno in posti dove si ha la pretesa di organizzare la vita e invece si fini­sce col negarla.

Eppure aveva creduto di moltiplicarsi in quei figli tanto diversi nei quali, ora, si sentiva tradito, senza cattiveria, ma tradito. I tempi erano mu­tati e molti valori deca­duti. Le strade, fuori, s’incrociavano con altre, erano una rete gettata sul mondo. Su quella aveva scritto, o si era illuso di scri­vere, la sua effimera leggenda di uomo, moltiplicandosi nei pensieri di altri uomini incontrati, in quelli di ogni donna amata sia pure per un breve momento.

Ordinamento giuridico, robotica ed ordine che decreta la morte degli dèi. Certi­ficato di residenza, passaporto, numero di matricola, cartella cli­nica, scheda per la questura e infine certificato di morte.

“La morte risale alle ventitré circa di ieri sera”, dice il medico dell’albergo, i fattorini concordano, uno l’ha vista al bar assieme ad un si­gnore alto, vestito di scuro… Il detective scuote la testa come nel primo capitolo, la sua intelligenza dia­bolica deve essere di quelle da agitare prima dell’uso.

Nel disegno di copertina la donna appare in tutta la sua bellezza, coi ca­pelli biondi sparsi sulle spalle e il seno scoperto come è giusto stare quando si aspetta qualcuno – un acrobata – che verrà per pugnalarci alla schiena. Ma al quarto capi­tolo una donna di stesso nome viaggiava su un treno e nella valigia custodiva un documento segreto a leggere il quale molte cose si sarebbero chia­rite. Era stato a quel punto che il vecchio aveva sbadigliato e guardato il cielo pallido dove si levava un aquilone di un azzurro più forte attraversato da strisce gialle, che a poco a poco, però, perdette quota e cadde in un cortile salutato da un coro di voci deluse.

La donna del treno aveva lo stesso nome della donna uccisa, viag­giava col suo documento segreto e fumava una sigaretta dietro l’altra. Viag­giava, quasi resa im­mortale dall’altra uccisa al suo posto e un uomo la stava aspettando in una sta­zione guardando di tanto in tanto l’orologio.

Treni e donne più non passavano attraverso la vita del vecchio, sol­tanto il cielo rotava sopra la sua testa affollata di ricordi. Ricordò che una volta – da giovane – aveva atteso una donna alla stazione guardando l’orologio come l’uomo del ro­manzo, e il tempo sembrava non passare mai. Una vecchia storia d’amore senza amore o semplicemente un amore senza storia. Soltanto un flirt. Questo il vecchio lo disse forte, quasi a vo­lersene convincere: “Era soltanto un flirt.”

La donna era arrivata. – Speravo che tu non fossi venuto ad aspet­tarmi, mi sento uno straccio. – I soliti convenevoli. – Sei bellissima.

Nella camera d’albergo dove poi l’aveva condotto s’era dimenticato di uc­ciderla, sarebbe stato un romanzo anche quello, ma non la uccise e non fecero l’amore. Lei si vantava di altri uomini che le facevano la corte.

- Forse, se ti vedessi più spesso finirei con innamorarmi di te.

 -Lo so, - aveva risposto. Ora era lei che guardava l’orologio, perciò aveva detto. – Il tempo felice non passa attraverso gli orologi. – A ricor­darle gli sembra­vano parole dette da un altro.

“Un flirt. Lo ripeté per la seconda volta guardando le strade sulle quali non avrebbe più scritto la sua illusoria leggenda. Era una vecchia nave in disarmo, come ne aveva visto in certi porti, coperte di rug­gine e muffa, divorate da tarli te­naci, una vecchia nave rimuginante i ri­cordi di una giovinezza che gli aveva sbattuto in faccia le sue porte d’oro.

Guardò le montagne, imbruniva, qualche lume si accendeva nelle case lon­tane A quell’ora anche la sua vecchia usava accendere la lampada e gli chie­deva se vo­lesse del latte, insistendo al suo rituale di­niego. “Devi mangiare qualcosa, se metti pane al dente, la fame si risente ”, gli diceva.   

Il ronzio del frigider gli ricordò che doveva mangiare qualcosa, ma non si mosse. La donna della copertina gli ricordò un viso noto incontrato chissà quando, chissà dove. Giù, nella strada, una voce giovane accennò le note di una canzone d’amore. Co­nosceva la ragazza che cantava: non era una vera bellezza ma dal suo seno erompeva la forza della vita, il suo corpo sinuoso avrebbe reso insonne l’amore. Non doveva af­facciarsi. Non era una vera bellezza ma, a guardarla, un uomo poteva anche perderci la testa, e la testa serviva a ragionare, magari per redi­gere l’inventario delle cose perdute. Perché alla fine è di questo che si tratta. Lo disse forte: “Si tratta di que­sto”.

Nella strada la canzone si era taciuta e il vecchio si sentì più solo. Es­sere ri­ma­sto solo gli parve un ulteriore segno di disinteresse del mondo nei suoi confronti, dopo essersi creduto per molto tempo al centro dell’universo. Dagli ulivi sotto casa saliva una marea di silenzio. Riandò col pensiero a quell’antico amore – era amore, perché negarlo oramai? - come cercando un’ancora, un senso e un significato al suo tempo.

Si sporse verso la sera che si era levato un filo di vento, guardò il cielo e non c’erano aquiloni.

 A Favara con mio padre 

Tese l’indice verso l’orizzonte: - Lo vedi il mare? Lo vedi?

No, non si vedeva il mare. Soltanto una nuvola azzurra, indistinta, adagiata dove la campagna finiva. Dissi però che lo vedevo. Quel mare doveva averlo ve­duto in giorni più chiari, durante la sua in­fanzia a Favara – un paese che ha forma di pe­sce – e ora lo ricordava sol­tanto.

Nemmeno sulla forma di pesce ero d’accordo, ma non lo contrad­dissi. Non vo­levo scoraggiarlo in quel volersi aprire alle confidenze.

Ridiscendemmo aggirandoci per strade evocatrici di ricordi. – Vicino a quell’abbeveratoio una mattina hanno ucciso un uomo. Era salito sul muretto per mon­tare sull’asino, gli hanno sparato da una finestra della casa di fronte e non si è mai saputo più nulla.

Ogni tanto mio padre chiedeva di qualcuno dei suoi antichi compa­gni; spesso gli rispondevano che era partito da gran tempo o che era morto.

- Fu in quella piazza che il nonno – erano i tempi di quella carogna di Cri­spi (dice proprio così: quella carogna) – assieme ad un suo amico al­trettanto ro­busto, tenne immobile, a mezz’aria, un tenente dei carabinieri lanciato alla carica e il suo cavallo. Il tenente strillava. – Mettetemi giù, briganti!

Anche allora, solerte, la patria rispondeva coi carabinieri ai bisogni della povera gente. Il nonno era un bell’uomo. Alto, forte, coi baffi. Sa­peva leggere e scri­vere, pizzicare la chitarra. Cantava belle canzoni.

Quella volta si scioperava perché gli zolfatari volevano un aumento di paga e la riduzione dell’orario di lavoro. Ancora non c’erano pozzi di estra­zione o piani in­clinati nelle miniere. Lo zolfo veniva portato fuori a spalla per scale in­terminabili, tra bestemmie e rantoli, dai carusi.

“Caruso” non è l’equivalente dialettale di ragazzo. C’erano carusi di nem­meno otto anni, è vero, ma ce n’erano anche già uomini fatti, con le barbe bianche. Forse li chiamavano così perché malgrado tutte le rivolu­zioni non li considera­vano ancora uomini. Negare loro questa qualità comportava anche un risparmio sulla retribu­zione, infatti, non venivano re­tribuiti come uomini, ma come “carusi”, ra­gazzi, per l’appunto.

Ci aggiravamo per le vie del paese chiedendo in giro di altri morti e di altri emigrati.

- Non c’erano pozzi. Il primo è stato fatto alla miniera Trabonella, il se­condo alla miniera Lucia, entrambi da Luigi Luzzatti. Il nonno lavorò al primo piano in­cli­nato realizzato alla Fanzirotta, mentre vi lavorava corse il rischio che le mine gli esplodessero addosso.

Alla miniera Fanzirotta, gli operai si recavano guadando un fiume. Ci fu­rono tempi in cui i ragazzi, giunti alla riva opposta, fradici e tremanti, venivano derubati del pane. Finì che molti di pane non se ne portavano più e mangia­vano car­rube come i cavalli. Le campagne erano piene di latitanti, gente che non vo­leva an­dare in guerra. Ma anche prima della guerra non erano tempi al­legri. Molti dopo una set­timana di duro lavoro apprende­vano che, detratte dal salario le spese per cibo ed esplosivo, rimanevano a debito; molti non rientra­vano a casa per lunghi mesi e pas­savano la notte, accucciati come bestie, al te­pore dei forni di fusione.

- Il nonno riusciva a guadagnare: era un uomo di grande abilità. Sa­peva leg­gere, scrivere, calcolare in metri cubi lo zolfo prodotto nel proprio cantiere. Sapeva suo­nare la chitarra e cantava belle canzoni (Come un so­gno d’or/ svanì per sem­pre…). Sapeva difendere il suo lavoro.

Non bastava lavorare, era necessario non farsi truffare.

Il nonno era morto da gran tempo quando venne la guerra. Alcuni per non an­dare in guerra si sono rovinati ricorrendo a pericolosi espedienti, rimetten­doci la vi­sta; altri giunti al fronte si sparavano su un piede, attra­verso una pagnotta di pane, e ve­nivano così rimandati a casa, cioè alla mi­niera. La miniera è stata da sempre per questi paesi che non hanno niente, fonte di vita e calva­rio. Quando tornarono i re­duci della guerra quindici-diciotto, una nuova ondata di crimini si abbatté sul paese; i giovani che avevano combattuto per una Trieste lontana dal loro cuore e dalle loro co­gnizioni geografiche, non vo­levano tornare al vecchio giogo, non volevano rico­noscere debiti verso i padroni rapaci. Eppure proprio per i padroni avevano fatto la guerra, come tutte le guerre che si fanno.

Quando si ammazza o ci si fa ammazzare per una Trento o una Trie­ste mai prima sentite nominare, si può anche ammazzare per non portare lungo scale in­fi­nite, be­stemmiando Dio e la madre, un sacco pesante di zolfo contro un magro compenso che serve, in parte, a soddisfare un vec­chio debito dive­nuto, per via de­gli eventi intercorsi, addirittura assurdo.

“Si seminano cavoli e nascono briganti”, dirà il maresciallo dei cara­bi­nieri veneto o lombardo, ignaro e lontano della realtà del paese e dal suo travaglio, sal­damente ancorato allo stipendio modesto ma sicuro, rumi­nante aggiogato alla car­retta dello Stato, ospite fisso nella sua mangiatoia. Nascono ladruncoli e bri­ganti, ma è anche vero che esistono reali condizioni di svantag­gio per infilare la porta stretta dell’onestà.

Era già pomeriggio quando trovammo alcuni degli antichi compagni di mio padre. L’incontro non avvenne senza commozione. Era gente in­catenata ad un pas­sato che non riusciva a superare, e questi incontri ave­vano il merito di farlo riemer­gere e conferirgli nuova forza, lo rendevano quasi attuale.

Attorno a un tavolo ingombro di bicchieri e bottiglie, con la porta chiusa, come congiurati, mentre fuori il sole splendeva, rimuginavano di antiche soffe­renze e ti torti veri o soltanto immaginari.

Una donna senza età, dal viso di rughe profonde, ci serviva in silen­zio; so­spi­rava di tanto in tanto. Doveva avere sentito migliaia di volte quei discorsi, forse ne conosceva tutta la vanità e la pena.

Ebbi la sensazione che ci trovassimo stretti in una rete, assurda, senza uscita: forse a causa del vino, forse perché fuori splendeva il giorno men­tre la lampada ac­cesa sul tavolo creava una notte artificiale.

Ognuno inseguiva un suo discorso, incurante che gli altri lo ascoltas­sero. La miniera era presente in tutto quel parlare, come se al mondo non ci fosse stato mai al­tro (ma il nonno aveva suonato la chitarra, cantato belle canzoni: … La gio­ventù pas­sata allor sarà/ rimpianto resta sol… e non aveva conosciuto la stagione dei rimpianti).

La miniera aveva operato su quegli uomini una deformazione che an­dava ol­tre le spalle curve, i corpi offesi e feriti. Ora li possedeva interamente, pensieri e anima – quasi come i corpi che non aveva più restituito alla vita – non dava più loro il pane quotidiano, ma continuava a fornire quotidiano veleno per i loro di­scorsi al tramonto.

Soltanto uno, in tutto quel parlare, stava zitto sotto il berretto nero per via di un recente lutto. Ricordava un ritratto di Machiavelli che avevo ve­duto in un li­bro.

Mio padre chiese di pagare il conto. Tutti si opposero, ma mio padre finì per pagare lo stesso secondo la sua antica abitudine.

Allora Machiavelli parlò tra il silenzio degli altri che scuotevano gravi la testa in cenni di consenso. Disse che mio padre, senza quelle mani bu­cate, avrebbe po­tuto, meglio che tanti altri, farsi una posizione rispettabile; disse che molti al­tri – gente che non valeva niente – avevano messo su casa propria, fatto laureare i figli, aperto negozi: alcuni avevano l’automobile e interessi a Gir­genti.

Questo e altro disse Machiavelli.

Io guardai le mani di mio padre: belle mani che oltre mezzo secolo di duro la­voro non avevano deformato; mani forti e gentili ad un tempo, lievi quando, ra­gazzo, mi aggiustavano il ciuffo sulla fronte. Lo ringraziavo in cuor mio per quelle meravigliose mani bucate che avevano saputo dare. Se avesse avuto delle mani ra­paci, di quelle che tol­gono qualcosa a chi non ha niente, mi sarei vergo­gnato e non avrei avuto il coraggio di guardare in faccia quella gente che benché ignorante, in­colta, avvinazzata, aveva chiara coscienza di avere subìto una frode.

 

Un affetto

 

Ora passeggiava per strade inondate di sole. Il cielo in alto era az­zurro come lo aveva sempre ricordato e qualche volta rimpianto; nell’angolo della piazza sedevano, come sempre, davanti al loro circolo, i nobili della città. Ricordava anche loro così, senza una fisionomia precisa: un insieme di ve­stiti chiari, cappelli di pa­glia, occhiali, giornali; i loro sguardi spesso calamitati dal passaggio di una donna, il mormorio che ne seguiva.

Perché mai la nostalgia, nostalgia di tutto questo, lo prendeva qual­che sera mentre, tutto solo, andava per le strade della grande città stra­niera? Perché nostalgia?

Le ragazze anche qui avevano cominciato a portare vestiti cortissimi, ave­vano belle gambe, visi graziosi. Ma non ne conosceva nessuna e le sa­peva inavvi­cinabili. Non gli capitava nemmeno di incontrare gli amici di un tempo. Se incontrava ogni tanto qualcuno, lo mollava non appena que­sti cominciava a nar­rargli i suoi guai: non voleva sentire lamenti, ne aveva sempre sentiti a casa sua e dappertutto, se ne ricor­dava come si ricordava quel cielo azzurro e i nobili innanzi al loro circolo.  E poi, per­ché proprio a lui? Era forse tornato dall’America?

A pranzo, con molta prudenza, il cognato gli iniziò un discorso che ave­vano già inutilmente tentato altre volte: - Qualche soldo da parte ce l’hai. Perché re­star­tene fuori casa, solo? Potremmo metterci insieme, in­grandire la pasticceria: saresti il pa­drone.

Figlio di pasticcere e pasticcere a sua volta, il cognato non poteva, onesta­mente, proporgli cosa diversa, e la madre lo avrebbe ben visto inse­rito nella pic­cola azienda familiare, anziché lontano di casa e sperduto nel vasto mondo, per­ciò in­calzò: – Ti trovi una brava ragazza, ti accasi: ormai non sei più un ra­gaz­zino.

Angioletta, sua cugina, si era fatta tutta rossa e con un pretesto era scap­pata in cucina, lei sapeva che zia Teresa quando parlava di “brava ra­gazza” pensava a lei, non ne conosceva altre, e poi lo aveva sempre detto di vedere in lei la figlia fem­mina che il Signore non le aveva dato, lei che aveva la mano tanto leggera nel fare le iniezioni, come nessun’altra.

Glieli facevano da tempo quei discorsi, ma finiva sempre col ripartir­sene: il mondo era grande, perché restarsene in quel buco. Un cielo az­zurro per quanto immenso non può bastare. Investire il frutto delle pro­prie fatiche in una pasticce­ria e mettersi dietro il banco a servire i clienti, piccoli ladri che gli avrebbero sempre rimproverato le sue origini di zol­fataro? Magari avrebbe dovuto salutarli “bacio le mani”, quelle mani che feb­brilmente contavano il denaro, frutto di prestiti ad usura e si infilavano sotto le gonne delle serve che lasciavano correre per non rimetterci il pane. No, grazie. La brava ragazza l’aveva anche in Germania. Non lo era nel senso che dava la madre a questa parola, cioè timida, introversa, ignorante. Forse non sa­peva fare iniezioni. Ma non è cattiva una ragazza che dedica parte del suo tempo a la­vare le tue camicie ed aspettare alla finestra, sino a notte, che tu ritorni. La ragazza che ti ha ridato la gioia di essere uomo quando il tuo cuore sembrava do­vesse schiacciarsi sotto il peso del suo destino d’esilio.

Ma la sera, a cena, il cognato che aveva un suo piano preciso, tornò alla ca­rica tra il consenso dei familiari che gli tenevano mano suggerendo argo­menti e battute, e in presenza di Angioletta che per l’occasione indos­sava il ve­stito della festa: - Pa­sticceria. Ingrandire il locale. Accasarsi. Brava ragazza. Non sei più un ragazzino.  – C’era proprio bisogno di ri­cordarglielo? Ognuno se la porta regi­strata nel cuore la somma delle pro­prie amarezze. Come altre volte, ba­stava lasciar correre, fare finta di non capire, ma avevano bevuto e qualcuno, senza malizia, s’incaricava di riem­pir­gli il bicchiere che aveva dinanzi. Cosa vo­levano? Perché non si con­tenta­vano della rimessa mensile di denaro senza te­diargli l’esistenza? Per­ché Angioletta non si tro­vava un ragazzo e la smettesse di fissarlo con quegli occhi di pecora? Gli volevano bene. Ma è proprio tanto necessario dare fastidio quando si vuole bene?

- Nella pasticceria sarai il padrone e farai una vita di signore.

Ma lui si sentiva già signore – più dei bifolchi che sedevano oziosi in quell’angolo della piazza davanti al loro circolo - ; si sentiva signore dap­pertutto, meno che in quel dannato paese dove non c’era modo di sfuggire ad un ri­gido schema che lo ricollocava di forza in una categoria di servi, malgrado si fosse am­mazzato di lavoro per tornare con una grossa Mer­cedes. Era un si­gnore le volte che se ne andava per le strade della capitale straniera, la mano nella mano di Monica.

- Poi ti farai un appartamentino in uno dei quartieri nuovi, verso Sant’Elia, e tua moglie…

Il suo silenzio rischiava di essere scambiato per consenso a tutto quel so­lerte argomentare, perciò disse: – Io voglio partire, perché volete legarmi ad una pastic­ceria? Io non sono un pasticcere e cosa sono non ve lo so dire.

Gli era sembrato di dirlo pianissimo, ma lo aveva quasi gridato. An­gio­letta, con occhi rossi, era scappata in cucina con un nuovo pretesto, se­guita dalla so­rella più piccola che ne condivideva speranze ed ambascia, gli altri congiunti ta­cevano co­sternati.

Sua madre, con occhi che urlavano “Ho perduto mio figlio!” girava at­torno uno sguardo interrogativo, come a chiedere se tale sventura fosse davvero possi­bile, e se fosse giusto che capitasse a lei! Qualcuno opinò: - Forse in Germania si sarà creato un affetto…

La madre si volse a guardarlo feroce: - Una puttana – sibilò, – una put­tana.

  Il match 1 round 

Aveva accettato per via della borsa. No, oramai lo sapeva, la conquista del titolo era pura utopia; anche a vincere l’incontro di quella sera non l’avrebbe poi spun­tata contro Joe il massacratore, non per nulla lo chia­mavano così. La borsa. An­che a perdere era un bel gruzzolo e avrebbe potuto am­pliare il locale che aveva aperto sulla riva del lago sin dall’estate prece­dente, dove i villeg­gianti ve­nivano a cantare la sera “Firenze stanotte dei bella”.

Firenze stanotte sei bella… E intanto furono fatti uscire i secondi. Al prin­ci­pio della carriera usava farsi il segno della croce all’inizio di ogni match. Per un po’ gli aveva portato fortuna, ma poi non gli era servito più a niente e aveva smesso.

Lasciò l’angolo. L’altro era più alto e questo lo sapeva, ma non im­magi­nava che fosse così giovane e così bello. Dalle fotografie non s’indovinava. I giornali non esa­geravano quando sprecavano per lui tutta una serie di aggettivi: ele­gante… bellissimo… scultoreo…Si studiarono con reciproca diffidenza mentre il pubblico schiamaz­zava. Riuscì a toc­carlo un paio di volte al bersaglio grosso, ma d’improvviso un saettante sinistro lo raggiunse nel mezzo degli oc­chi. Massena lo aveva avvertito: - Cerca di combattere a distanza ravvici­nata, e attento al sinistro. – Aveva ragione Massena.

Uno stupido fotografo lo accecò col suo flash mentre una scarica lo col­piva ai fianchi. Il pubblico esultava. Reagì colpendo a sua volta, ma al nuovo assalto si trovò alle corde. Riuscì a piazzare un destro, ma gli occhi gli face­vano male. Suonò il gong.

 2 round 

- Bene, bene – disse Massena massaggiandogli lo stomaco. –Ma sta­gli appic­ci­cato e tieni la guardia più alta: vedrai che non reggerà sino alla settima ri­presa.

Suonò il gong e Massena lo lasciò con una botta affettuosa sulla spalla. Era buono Massena. Ricordò quando a Parigi lo aveva salvato dalla fame, dopo che aveva tra­scorso una settimana a mangiare pane e ci­liegie aspettando il vaglia di uno zio stanco di venirgli in soccorso.

Il rivale aveva gli occhi verdi e sembrava gli sorridesse anche quando lo col­piva, per fortuna non molto forte.  Un suo sinistro “telefonato” finì sui guantoni, poi riuscì a piazzargli un diretto alla mascella. Notò la smor­fia di do­lore che con­trasse quella faccia di bambola e fu tentato di chie­dergli scusa, ma il sinistro saet­tante lo colpì ancora duramente mentre il pubblico esultava con grande schiamazzo.

Si ritrovò alle corde. La faccia di bambola – anche i capelli biondi erano di bambola – era vicinissima, non riuscì a colpirla, il suo destro venne bloccato mentre avvertiva una fitta in basso, nel ventre. La bambola aveva colpito sotto la cintura: l’arbitro non se ne accorse o lasciò correre.

Riuscì ad aggirare l’avversario, a togliersi dalla posizione scomoda mentre ve­niva ancora raggiunto da qualche colpo di scarsa efficacia e la solita anima pie­tosa dalla platea gridava: – Ammazzalo! Ammazzalo!

 3 round   

- Bene, bene – disse Massena.- Vedrai che dopo la settima ripresa sarà uno straccio. Ne potrai fare quello che vuoi.

Ma prima che l’eco del gong si fosse spenta del tutto, la bambola, nel mezzo del ring – solida sulle gambe – attendeva.

Ci fu uno scambio di colpi, leggeri, poi tornarono a studiarsi mentre il pub­blico reclamava lo spettacolo, la lotta. Botte da orbi voleva il pubblico. Tornò a col­pire ma senza efficacia. I suoi colpi si arrestavano contro la guardia stretta  dell’avversario che indietreggiava a piccoli passi. Lo co­strinse all’angolo e riu­scì a piazzare un paio di colpi al bersaglio grosso.

- Forse ha ragione Massena – pensò. – Prima della settima ripresa ne farò quello che voglio.

Non sorrideva più la bambola. Ebbe qualche incertezza e si appoggiò alle corde. Forse era stanco, forse era già stanco. Aveva ragione Massena.

Dalla marea del pubblico salì un’ondata di disapprovazione per il bel cam­pione che così toglieva smalto allo spettacolo e deludeva i suoi fans, una moltitu­dine accorsa persino dai paesi vicini.  Doveva approfittarne, quanto meno doveva farsi attribuire quel round, e incalzò a testa bassa, colpendo pesante ma senza pre­cisione.

La bambola cercava di sottrarsi ai colpi, c’era disperazione e paura negli oc­chi verdi; sentì di avere il match in pugno: non bisognava lasciare tregua, re­spiro. Pic­chiare, picchiare, picchiare. Aveva ragione Massena.

- Peccato, - disse quando il gong suonò per segnare una sosta  del com­bat­ti­mento . – Peccato, - aggiunse – che lei non sia qui a vedermi.

- Puttana, - pensò. – Puttana, - disse tra i denti.

- Che ti prende? – chiese Massena. – Ricordati solo di combattere. Tu sei an­cora un buon pugile. Non devi farti distruggere da un capriccio. Non lo per­met­terò! – disse ancora mentre per la rabbia gli si riempivano gli occhi di lagrime. Aveva il pianto facile Massena.

Stava guardando verso l’angolo dell’altro senza vederlo e godeva il refri­ge­rio della spugna bagnata sulla faccia. – Perché, – si chiese – perché così, senza ra­gione, una donna decide di piantarti? Una donna? Quella donna: quella che tu eleggi tra le altre, che magari non avrà niente che an­che le altre non abbiano, ma che tu pensi valga più di ognuna.

Non disse niente a Massena che lo guardava.

- E’ stata una buona ripresa, - disse uno dei ragazzi mentre risuonava il gong per l’inizio del quarto round.

   4 round 

- Ma perché – si chiese ancora, e la rabbia che sentiva contro il mondo, contro la vita che era stata una ben misera vita che per un mo­mento aveva avuto e in un mo­mento aveva perduto significato, contro quella donna che aveva amato e che amava, lo indussero a colpire più forte il pugile-bambola, il pugile-bellezza, il pu­gile-gio­vinezza  che faceva del suo meglio, mobilissimo sulle gambe.

E nel nome della fame fatta nel mondo quando si aggirava cercando un la­voro, nel nome del padre vissuto e morto di niente; nel nome dell’amico studente  che a Pa­rigi riversava la sua tristezza in un clarinetto che piangeva tutta la sera, colpì an­cora.

Dov’era lei?

- Una sciocca come mille altre, - si disse per consolarsi, ma non tro­vava sol­lievo né a pensare questo né a colpire il pugile-bambola che però conti­nuava a pa­rare la maggior parte dei colpi  e uscì con un destro d’incontro che lo sorprese nel mezzo del ring sotto la luce impietosa che gli faceva male agli oc­chi. La bambola, a sua volta, era passata all’attacco e il suono del gong lo ritrovò alle corde, senza fiato.

- Non ti devi innervosire, - lo rimproverò Massena. – Il match è an­cora tutto da combattere.

La spugna fresca sul viso gli diede di nuovo sollievo. – Sono uno stupido, - pensò – a sprecare così le energie. Debbo controllarmi meglio, debbo lavorarlo ai fianchi.

– Ma tu dove sei, sciocca ragazza? – disse, e Massena lo guardò coi suoi occhi acquosi: - Non devi lasciarti distrug­gere da un capriccio, - disse.

 5 round 

Lo colse un nuovo gancio sinistro che lo sorprese per la rapidità dell’esecuzione. La bambola aveva colpito mentre arretrava e appariva an­cora fre­schissima, mal­grado quello che aveva detto Massena. Tornò a col­pire, uno-due.  Ma ancora non erano alla settima. Lo colse d’incontro mentre era sbilanciato e gioì nel leggere una smorfia  di dolore sul viso bellissimo. Riuscì mediante abili movi­menti sul dorso ad evitare i colpi di reazione, ma il fatto di essere più basso lo po­neva decisamente in svantag­gio.

- Vedrai che dopo la settima ripresa sarà uno straccio. Ne potrai fare quello che vuoi, - aveva detto Massena. Ma non erano ancora alla settima.

L’arbitro intervenne a separarli e gli fece cenno di combattere a testa alta. La sua presenza, la sua cravatta a farfalla, dopo tanti incontri disputati, per la prima volta gli sembrò assurda. Che ci faceva lì un signore con cra­vatta a far­falla?

Un nuovo colpo lo raggiunse tra gli occhi che ora – specialmente il sini­stro – gli facevano male davvero. Forse gli si stavano gonfiando. Li sentiva gonfi. Mas­sena gli aveva detto di tenere la guardia alta.

Decisamente andava male se il pubblico – un pubblico ostile – inci­tava la bam­bola e l’anima pia, anzi un coro di anime pie gridava: - Am­mazzalo! Am­mazzalo!

Ricorrendo all’esperienza professionale, riuscì a sgusciare dall’angolo e ad evitare una serie di colpi, ma uno lo raggiunse sbilan­ciandolo per un momento. Un fo­tografo lo abbagliò col suo flash e si sentì stordito come un coniglio colto dai fari di un’auto. Riuscì a piazzare un destro nell’addome della bambola  che indie­treg­giò boccheggiando. Si abbracciarono ancora. Il quadrato era un’isola di luce su un mare feroce e vociante.

L’arbitro intervenne ancora. Non si poteva dire che fosse staso sin lì un com­bat­timento scorretto, ma l’arbitro aveva un’aria seccata e gli in­giunse di nuovo di com­battere a testa alta.

Suonò il gong e Massena, nell’angolo, non si curò di nascondere la sua preoccu­pa­zione.

 6 round  

C’era ancora un giovane in una soffitta, a Parigi o altrove, che river­sava tri­stezza  nel suo clarinetto? E il mondo, c’era ancora oltre l’isola di luce dove l’atleta scultoreo cercava di colpirlo tra gli occhi?

C’era, in fondo a una rete di stradine affollate sino a sera di venditori vo­cianti e gente di colore, una stanza al settimo piano, e lì due ragazze sta­vano curve sui li­bri. Quanti libri!

“ Non c’è niente di male se stiamo un po’ insieme la sera. La mia amica uscirà tra un momento.” Beethoven o chissà chi sul giradischi fa­ceva un baccano d’inverno e fuori c’era freddo… “ sta preparando una tesi sui rapporti tra Ambro­gio e Ago­stino…” Si trattava di sconosciuti, non volle approfondire, non sta bene immischiarsi nelle questioni di estranei. Lei si era messa a ridere: - Sono due santi!

Sorrise al ricordo e la bambola lo colpì di nuovo.

- Non devi farti distruggere da un capriccio, - aveva detto Massena.

Cercò di piazzare un montante, restò fermo sul colpo e si fece co­gliere stu­pi­da­mente da un gancio all’orecchio.

- Vedrai che non reggerà sino alla settima ripresa, - aveva detto Mas­sena, e in­fatti la bambola appariva provata. Ora avrebbe dovuto passare all’offensiva, avrebbe dovuto attaccare come aveva fatto alla terza ripresa. Ma la volontà non ba­sta a far tornare ciò che è passato, sia si tratti di una ripresa durante la quale hai piazzato dei buoni colpi, sia si tratti di una stagione felice in cui hai creduto di es­sere amato.

Massena lo incitò con un gesto. Ma come fai a portare un attacco se ti senti ap­pe­santito da tutta la tristezza che gravita attorno alla tua vita?

Cercò rifugio nella memoria, nella stanza al settimo piano – era un giorno di febbraio, forse il giorno di San Valentino – tra divani pieni di bambole e ta­vole in­gombre di libri. Due ragazze parlavano piano – Ancora Ambrogio, ancora Agostino? - parlavano piano, ma dalla platea una voce si levò forte, altissima gridò: – Ammazzalo! Ammazzalo! Ammazzalo!

Si trovava di nuovo all’angolo – è di estrema semplicità la topografia di un ring - e contro la voce solitaria che emergeva dall’oceano di una folla mai morta, immortale, assetata di giochi feroci, volle reagire e colpì la bambola in viso sor­prendendola, e colpì ancora con odio contro i libri mai letti, contro la donna che aveva detto no, contro il destino.

Indietreggiava la bambola sempre mobile sulle gambe, ma già meno spa­valda. La folla mugghiava come un mare.

 7 round 

Le note del clarinetto continuavano a suonare in un angolo della me­moria. La città era attraversata da un grande fiume e una sera avevano ri­pescato il corpo di una ragazza. Il fiume portava verso il mare i rifiuti della città e anche la gente che la città – la capitale felice - aveva rifiutato.

Una sera, in un bistrò frequentato da gente di malaffare, due marinai ave­vano litigato tra loro e uno aveva tirato fuori il coltello. Cercavano di calmarlo con pa­role che non capiva. Parlava un’altra lingua. Lo colpì con un pugno alla ma­scella. – Bravo, ragazzo. E’ quello il linguaggio univer­sale, l’esperanto. – Era Massena, gli aveva offerto da bere, avevano fatto subito amicizia.

Quanto tempo era passato? Quante giornate andate alla deriva? Adesso era il quadrato-isola, l’isola illuminata, che andava alla deriva sul mare mormo­rante della folla. Si trovò ancora alle corde sotto l’incalzare del pugile bam­bola, senza fiato.

Forse si era sbagliato Massena. Erano già alla settima ripresa e quello, seb­bene apparisse provato, non era uno straccio. Non avrebbe più potuto farne quel che vo­leva. Sentiva le gambe legnose e a fatica riuscì a parare parte dei colpi che lo inve­stirono. Ebbe un guizzo di fierezza e re­plicò. Un montante lo raggiunse an­cora. Mas­sena gli aveva detto di stare attento al sinistro. Fu colpito ancora agli oc­chi. Massena aveva detto di te­nere alta la guardia. Sapeva tante cose Mas­sena, ma a suo modo era anch’egli un uomo fottuto, condan­nato ad una vita vuota, senza scampo.

- Non devi distruggere la tua vita per un capriccio, - aveva detto Mas­sena. Ma le cose, Massena, non sono semplici cose. Tu le vesti e dài loro tutto il si­gnificato che vuoi e che mai si sarebbero sognate di avere. Vi sono dei sel­vaggi in qualche parte del mondo che pigliano un pezzo di le­gno e dicono “E’ dio”, e il pezzo di legno è dio, Massena.

A qualcuno può capitare di chiamare amore un suo capriccio, a qual­cuno può capitare di morirne. La ragazza ripescata dal fiume forse ragio­nava così.

Si trovò ancora al centro del ring. Massena si era sbagliato: il rivale era lu­cidis­simo e riuscì ad evitare un suo destro con un abile movimento del dorso. Gli si fece da presso. Adesso erano abbracciati, ansimanti, e l’arbitro intervenne an­cora. Sentiva di avere una montagna sugli occhi e la luce gli faceva male. Av­vertì una fitta all’addome: la bambola aveva colpito ancora sotto la cin­tura. Si chinò per il dolore e venne raggiunto da una combinazione di ganci. Gli sembrò che un’arcata di lampade ruotasse so­pra la sua testa, aprì le braccia, un destro lo rag­giunse e si trovò al tappeto, in ginocchio. Era la settima ripresa: avrebbe do­vuto es­sere la sua ripresa. La testa era tutta un ronzio e le grida della folla esultante le sentì lontanis­sime. Aveva sbagliato Massena.

-…quattro…cinque…sei…

Gli sembrò che l’arbitro avesse contato sino a quattro con voce bas­sis­sima e al cinque avesse alzato il tono: - cinque… sei…

La coppia dei numeri si trovava nel numero telefonico di lei. Non lo aveva più fatto per orgoglio e ora l’arbitro pareva glielo volesse rimprove­rare: - cin­que…sei…

Dov’era finito il suo orgoglio se non aveva nemmeno concluso in piedi quel match al quale si era scrupolosamente preparato? 

Dalle fessure degli occhi stava guardando come uno stupido le scarpe bian­che del rivale, l’atleta bellissimo, mentre lo contavano. Non tentò nem­meno di alzarsi e lasciò che l’arbitro arrivasse tranquillamente sino a dieci. Poi si recò a testa bassa al suo angolo dove l’accolsero nell’accappatoio. Sulle spalle, in let­tere chiare, v’era scritto il nome di un liquore che non aveva mai bevuto e che forse non gli sarebbe nemmeno piaciuto.

Salì gente sul ring, nonostante il servizio d’ordine, per congratularsi col vin­ci­tore e i fotografi scattarono fotografie su fotografie. Non disse niente Massena. Aveva gli occhi acquosi di sempre. Forse stava pensando al “capriccio”. Lui non sa­peva niente del clarino, né della ragazza ripe­scata dal fiume e dei suoi vestiti fra­dici, né del pezzo di legno di cui i sel­vaggi in qual­che parte del mondo dicono “E’ dio”.

  Costantino 

E’ stato un bruttissimo inverno. A causa delle sottili pareti, la notte, ab­biamo sofferto della bronchite del professore, una brutta bronchite. Non faceva che tos­sire. Ora sta meglio, con le prime giornate di sole è pure uscito qualche mattina portando con sé, prudentemente, l’ombrello.

L’ho incontrato in ascensore, al mio saluto ha risposto con una spe­cie di gru­gnito. Da anni ci incontriamo senza conoscerci, non lo conosce quasi nessuno nel condominio, ma indoviniamo di non essergli simpatici. Forse in cuor suo ci di­sprezza e ci giudica una comunità di buzzurri.

Deve stare meglio se alle sette e mezzo del mattino si siede al piano­forte e riprova il suo repertorio. Attacca sempre con “Per Elisa”. Non si può dire che la suoni proprio bene, ma se la cava. E’ Chopin il suo – forse dovrei dire il no­stro - suo e nostro chiodo: c’è un punto – sempre quello! – dove il professore s’inceppa e riprende da capo. Sbaglia e ri­prova. La paura di sbagliare di nuovo lo turba e lo condiziona, ed ecco che a quel punto preciso dell’”Andante spianato”, Costantino - è il suo nome – stona, cioè ricade nell’errore che oramai è divenuto suo e nostro mo­tivo d’angoscia. E riattacca nella lotta impari, quasi a lottare contro il destino.

Diceva un mio amico – un ragazzo scanzonato, che aveva (o si van­tava di avere) una fortuna sfacciata con le donne – che in mare quella che tira a fondo è la paura di annegare. Deve essere così per Costantino le volte che riprova il suo an­dante: annega per paura.

Sono arrivato al punto di desiderare più di come desidero talune cose per me, voglio dire legate al mio personale interesse, che una qualche mat­tina Costantino si sieda al piano e l’andante venga fuori semplice e bello, senza sto­nature e senza ar­re­sti. Ne sarei felice per lui e per me, sono anni che vivo in questa casa e penso ne do­vranno trascorrere altri per me e per Costantino e per Chopin che non si lascia suo­nare come andrebbe suo­nato.

Dopo aver sofferto un inverno per la sua bronchite, non me lo sarei pro­prio meri­tato, alle sette e mezzo del mattino: mi-re-mi-re-mi-si…Elisa!

Forse c’è un’Elisa nel suo passato, un’Elisa che insiste nella memo­ria, una specie di Ofelia annegata nel fiume banale dei giorni che l’onda irrequieta ri­porta a galla o, come da copione, i vestiti sostengono. Ma, caro Costantino, un’Elisa così c’è forse nel passato di tutti, e questo, non auto­rizza a svegliare i vi­cini.

E’ triste questa ballata: è sempre Chopin, uno Chopin vestito da vec­chio pro­fes­sore in pensione, vestito da Costantino, col soprabito un po’ stretto di spalle, quando s’avvia al giardino inglese e si sofferma a guar­dare i bambini sulla giostra e, assai più spesso, senza farlo a vedere, i gio­vani che si sbaciuc­chiano lungo i viali o, senza pudore, si tengono abbrac­ciati sui gradini della sta­tua del cittadino illustre e ca­muso, di elette virtù che “diede tutto alla patria” (anche il naso?). Ci sono momenti che per­sino un borghese che suona “Per Elisa” alle sette e mezzo del mattino se ne fotte delle virtù, elette o meno, e s’avvelena il sangue per quei ragazzi che saran tutti puttanelle e delinquenti, ma sono, però, l’antica patria dove non tor­nerai, ghi­bellino del cavolo, e per la quale ti struggi di sospiri.

E allora perché ci vai nei giardini pubblici? Tanto lo sai già quello che ve­drai: i ragazzi che si baciano. Le giostre non sono per te. Bella figura ci faresti sulla gi­raffa o sul cavallino… o con una di queste ragazze in ca­pelli, come si di­ceva delle figlie nubili dei Longobardi, che scappano dai jeans che le model­lano e denudano fingendo di vestirle. Ma si respira aria pulita: non è molto, non è nemmeno poco.

L’altro giorno, la figlia del portiere, vestita così nuda, si strusciava con uno spilungone tutto foruncoli. Si è fatta bella, non sembra nemmeno la gattina di qual­che anno fa, i suoi seni, piccole arance, prorompono pre­potenti dalla ma­glietta di una misura più piccola, con tracotanza proletaria. Lo spilun­gone suona la chitarra.

S’incontrano spesso spilungoni con la chitarra. Ne incontra qualcuno an­che adesso sulla via che porta a casa, quella casa in un quartiere signo­rile nel cuore della città borbonica. La gente indugia agli incroci – attento al borsello. Qua ti scippano l’anima! - e gli automobilisti che si odiano tra loro, guardano con di­sprezzo i pedoni: i vecchi, poi, tardi e lenti, non li possono soffrire. Qui una volta era tutto graziose villette, lo ricordano quattro palme striminzite che il vento spettina a suo piacimento, ora c’è immondizia che nei giorni di vento tenta le vie del cielo. Una camionetta della polizia si ripara sotto l’ombra avara di un albero, forse stanno qui per via della scuola.

L’altro giorno davanti alla scuola, uno di quei ragazzi è stato colpito da una sassata alla testa e mentre la gente scappava, e persino i compagni scappa­vano, lui si è fermato a soccorrerlo, non si è mai troppo vecchi per divenire buoni sa­maritani: - Lascia che ti pulisca il sangue, lascia che veda cosa ti hanno fatto.

Il ragazzo lo guardava sgomento e forse si chiedeva perché mai un ma­tusa… era forse un poliziotto, un commissario… mentre la ragazzina pallida che poi si av­vicinò, forse si chiedeva anche lei se il matusa non fosse per caso un poliziotto o qualcosa di simile. Ma il poliziotto – quello vero – venne poco dopo, fiero nella sua uniforme e ridacchiò. – Ah, ecco qui uno dei delinquenti!

Costantino, che pure così amava definirli, lo guardò con severità: - E’ solo un ragazzo ed è ferito.

- Lei è il padre?

Ritenne opportuno mentire, non era davvero il caso di dirgli della pa­rabola del samaritano; disse di essere lo zio, la cosa sembrava credibile.

- Se lo porti a casa, allora. E glielo dica che è fortunato se stasera non dorme al fresco.

Si avviarono assieme, la ragazzina si teneva a distanza; all’incrocio gli dis­sero grazie. Gli lasciò il fazzoletto: - Tienilo, sanguini ancora. Dovresti disin­fet­tare la fe­rita.

- Sì, sì – dissero insieme i ragazzi e pareva avessero fretta di andar­sene, scon­fitti e un po’ diffidenti della bontà di un uomo d’età avanzata che non par­teg­giava per la lex-dura-lex.

- Sì, sì.

Si avviò verso casa. Il portiere lo accolse col suo sorriso idiota, della figlia nemmeno l’ombra.

- Ossequi, professore.

-…ngiorno.

Nella cassetta non c’erano lettere. La felicità o qualsiasi altra cosa non può che venire da fuori. A casa c’è il pianoforte – l’ultimo dito di whisky se lo era be­vuto la sera precedente davanti al televisore. – A casa c’è il pianoforte e c’è Chopin che, però, a un certo punto – un punto lungo una strada in salita, dove il cavallo stra­mazza – un punto insupera­bile denuncia un ulteriore tuo li­mite in una vita di limiti. C’è an­che un telefono inutile.  Mi-re-mi-re-mi-si-re-do-la…. per Elisa. Chi era Elisa? Inu­tile frugare nella memoria, tutte erano Elisa nel lon­tano giardino di un’altra stagione, regione o pianeta, e sfiorirono. Forse anche qual­cuna di queste ragazze in capelli ha quel nome. Attenta, Elisa! Un sasso può col­pirti alla testa, vi­viamo un tempo feroce, insensibile alla pietà e alla bel­lezza.

Rivide il ragazzo ferito, la sua compagna palliduccia che in cuor suo aveva scommesso di non piangere e c’era riuscita, sia pure per poco. Ri­cordò di avere avuto, ai suoi tempi, compagne di scuola, una aveva i capelli colore del grano e un piccolo neo vicino alle labbra.

 

L’orologio

 

Le luci di città straniere si accendono nel ricordo e spesso risento la no­stal­gia dei primi tempi. Ho molto sofferto in principio. Si fa presto a dire una donna. La donna c’era. Sì, c’era. Ma non era solo questo. Nel ricordo viveva una patria verde di ulivi, tra essi nasceva il silenzio. Anche la donna taceva, ma quando la lasciai ne­gli occhi aveva un grido represso. Le dissi che sarei tornato, poi ripensai spesso quegli occhi e quel pianto.

Le mandai una cartolina da Amburgo, credo proprio da Amburgo. Non l’ho mai rivista. Mi hanno detto che si è sposata, ha figli. Dicono pure che vive felice. Non deve essere vero.

Quando le scrissi da Amburgo le volevo bene. Forse non ho mai cessato di vo­ler­gliene, ma era un bene senza fuoco che si affievoliva man mano che il tempo passava e finivo di sentire nostalgia per il paese, per la casa e gli ulivi, che frusciavano nella memoria nei momenti di maggiore sconforto.

Furono molti quei momenti, in principio.

Ho incontrato altre donne. Le ho amate? Mi hanno amato? Son cose che non capirò mai. Una volta, in un locale, a Monaco, ho fatto a botte con un polacco per una ragazza, finii in prigione per una settimana e poi, quando sono uscito, ho cam­biato residenza.

C’è stato un periodo che cambiavo con molta frequenza: non mi sentivo a mio agio in nessun posto. Durante le mie peregrinazioni mi giunse una lettera piena di bolli. Veniva dall’Italia, dal mio paese. In essa mia sorella diceva che nostro padre era morto. Avrei voluto piangere ma non mi riuscì.

Uscii di casa e camminai sino a notte cercando qualcuno, non so chi. Qual­cuno al quale parlare del vecchio, raccontare degli schiaffi che mi dava e del bene che mi voleva.

Ma non incontravo nessuno. Nessuno col quale potessi intrattenermi a parlare e dire le cose di cui sentivo gonfio il petto. Il tempo era piovoso e andavo. Ricordo di avere bevuto moltissimo. Debbo essere entrato già sbronzo in un posto dove si ballava. C’erano tante ragazze e pochi uomini. Un locale alla moda come se ne in­con­trano tanti.

- Mambo! Mambo!

Il vecchio se n’era andato. Il fiume di coppole nere dietro la bara sul carro ti­rato da cavalli neri, il carro coi putti panciuti e dorati per le strade polverose, tra gente che si toglie il berretto e saluta. Tra gente che si toglie il berretto, saluta, me­dita brevemente sulla morte e poi torna alle proprie faccende.

- Mambo! Mambo! Balli male stasera.

Il carro traballa sulla strada sconnessa, all’uscita del paese, e i preti se ne tornano anch’essi alle proprie faccende. Pax.

- Prosit!

Perché continuavo a bere con quella ragazza stupida che mi guardava come si guarda un fenomeno da baraccone? Di essere non era male, belle le gambe e il re­sto, ma stupida doveva esserlo.

- Mambo! Mambo!

- Prosit! Credi di farcela sino a casa mia.

Ho detto di sì, mi sono persino offeso, ma abitava all’inferno o nei pressi.

Non ricordo molte cose. Mi sono svegliato l’indomani in una stanza che non era la mia. Avevo la testa tutta un ronzio. Unica traccia della ragazza, un ve­stito a co­lori vivaci spiegazzato su una sedia.

Una megera mi sorrideva e mi offriva del caffè: – Tu matto.

La vecchia rideva sempre e mi faceva cenni per farmi capire che ero pazzo. Le avrei demolito i pochi denti che rimanevano nella sua vecchia bocca. Mi ri­cordai di mio padre. Mi ricordai che avevo avuto una casa, una donna.

- Tu matto.

Raccolsi le mie cose e me ne andai lasciandole dei soldi. Stavo male. Cer­cai a lungo nel portafogli una fotografia di mio padre. Ricordavo di averla con me: una vecchia fotografia uso tessera. Non la trovai.

Rilessi la lettera come se una notte di sbornia avesse potuto mutarne il conte­nuto. Erano poche righe inequivocabili. Mio padre era morto.

Pranzai in una piccola trattoria vicino alla stazione e mentre mangiavo pen­savo a mio padre che non faceva più niente delle cose che io potevo fare, delle cose che tutta la gente faceva. Sentii la gioia di essere vivo, di potermi al­zare, muovere, cor­rere. Ebbi improvvisamente voglia di una donna, per sentirmi più vivo, per sentire più forte il mio legame con la vita. La trovai nella stazione vi­cina. Aveva un viso d’angelo caduto.

Solo la sera trovai un conoscente che mi condusse a casa sua e potetti par­lare di mio padre mentre bevevo il suo vino. Dissi tutto quello che ricordavo: della volta che aveva venduto la cartucciera in cuoio, alla quale teneva tanto, per comprare a me e ai miei fratelli i doni per il giorno dei morti. Ora era morto davvero. Dissi della volta che mi aveva incontrato, giovinetto, in compagnia di una ragazza e mi aveva salutato togliendosi il cappello con ossequiosa ironia e mi aveva fatto sentire ridi­colo.

La moglie del mio povero amico, una ragazza piccola e rotondetta, mi ascol­tava con le lagrime agli occhi e il mio amico mi versava continuamente da bere scuotendo la testa. Mi ospitarono per la notte.

L’indomani, quando ci lasciammo, sembrava ci vergognassimo un poco di quanto avevamo detto e fatto la sera precedente. Mi trattarono con tanti ri­guardi.

Ripartii quel giorno stesso.

 

Sospirato paese! Il cielo si stendeva come una vela azzurra oltre il ponte di pietra dove una mano aveva scritto “è vietato buttare immondizia”,e nessuno lo leg­geva. Un paese così, buio di notte, con tanti cani e tanta sporcizia, col solo cielo, in alto, pulito; con case vecchie e nuove che crescono in disordine e la Matrice in mezzo, bella d’archi, colonne, stucchi e marmi: giocattolo di lusso costruito per un Dio amato male che non è certo il Dio dei poveri.

Industrie niente o quasi: la miniera e l’industria del delitto, la lupara, il col­tello. Soltanto il vino ti regala un sogno da opporre all’odio e alla morte, un vino tri­ste che, poi, magari, vomiti sotto una sacra immagine votiva dove le donne ac­cen­dono lumini.

La voglia di ripartire mi ha ripreso. Ero tornato per tenere, da vivo, compa­gnia a quei morti? Non parlo solo di mio padre, ma anche di quelli che vanno an­cora per le strade e la sera giocano a tressette, degli umili che non avranno mai la terra.

Sono venuti a trovarmi parenti e amici. Mi hanno abbracciato commossi e hanno cercato di consolarmi. Mia sorella mi ha dato l’orologio: - Ha detto che è tuo, lo di­ceva sempre, – piangeva.

Mi hanno consigliato di trovarmi una ragazza e sposarmi: possiedo la casa e ho l’età giusta. Mi hanno pure invitato a fare una ramanzina ad un cugino più gio­vane che fa lo scapestrato: segno che già mi considerano dei loro. Un morto col quale gio­care a carte la sera.

Ho visto il ragazzo, un biondino timido e indifeso che si limita a farsi cre­scere i capelli e a guardare le ragazze all’uscita di scuola. Lo scapestrato scrive pure poe­sie, poesie d’amore. Non gli ho detto niente.

Non l’ho detto a nessuno, ma qualcuno deve averlo ugualmente capito: voglio ripartirmene. Non ho niente da fare qui. Porterò con me l’orologio, sol­tanto l’orologio: ha un battito sonoro. Tic-tac, tic-tac.

Ha contato le ore del vecchio. Le ore dell’amarezza e della solitudine. Tic-tac. Le ore dell’attesa e dell’agonia. Quanto tempo mi ha aspettato! Il domani diventava ieri, il futuro, passato; le stagioni scorrevano e la speranza moriva. Tic-tac, tic-tac.

Ho rifatto le valigie e ho vegliato tutta la notte con l’orologio in mano. Era come tenere il suo cuore nella mano. Era il suo cuore che batteva nella mia mano.

- Tu matto, - diceva la vecchia ridendo.

E’ ben lunga una notte. Il silenzio è fatto di mille rumori impercettibili, i ru­mori del tempo che frana verso gli abissi del nulla. Aspettavo un treno dell’alba, un treno che mi portasse verso città rumorose dove ritrovarmi e perdermi ogni notte.

- Mambo! Mambo!

Cos’ero venuto a fare se non sapevo più piangere? Forse il vecchio la­scian­domi l’orologio aveva voluto raccomandarmi di vivere e di non sciupare il mio tempo. Aveva voluto ricordarmi la brevità della vita.

Alla stazione non c’era nessuno, e quando giunse il treno presi posto tra gente addormentata. Sistemate le mie poche cose mi accinsi a prendere sonno anch’io per ritrovarmi, come uno che si svegli tra due sogni, ancora una volta straniero.

-Tu matto. Tu matto. Tu matto.

Finalmente piangevo guardando i lumi che si allontanavano sino a con­fon­dersi con le ultime stelle.

 Il colonnello non vuole morire 

Ha battuto violentemente contro il vetro della finestra e ora mi sta accanto semistordito a pancia in aria, e agita disperatamente le zampine. Le trachee si di­la­tano nel respiro affannoso.

Lo sto guardando, non avevo mai visto un insetto simile, più grosso di un cala­brone, mostra un’ingluvie giallastra, quasi voglia di ginestre, le ali sono membra­nose, incolori, e, da qualche momento, inutili.

E’ possibile che non abbia mai visto insetti così; mi ritenevo troppo im­por­tante perché dedicassi attenzione ad un imenottero (sarà, poi, davvero un imenot­tero?) e ai suoi guai. Ma qualcosa mi ha fatto capire che anch’io, muovendomi in un mondo di insidie nascoste e di appuntamenti combinati a mia insaputa, posso im­battermi in un riccio, in una talpa, o peggio in un toporagno – non mancano buoni insetticidi in com­mercio né gas tossici nell’aria – e, in ogni caso, quando meno te lo aspetti, c’è sempre una finestra contro i cui vetri andare a sbattere.

A quel punto non ti sarà servito vincolo di sangue che ti leghi al principe o al sultano: hai chiuso la tua breve giornata di gloria e svanisci come nebbia al sole; anzi non svanisci, che grazia ti sarebbe svanire, rimani ridicolmente a pan­cia in aria, agiti le tue zampe mentre qualcuno con pia sollecitudine ti chiede di mettere la tua anima tra le mani del Signore.

Allora è vero che devi morire? Non ci saranno altri voli? Che ne faranno di questo maggio, di queste donne giovani e belle, delle lunghe giornate di sole? Non ci saranno più nozze in settembre?

Te lo chiedi anche tu nelle brevi soste che la stanchezza t’inventa, quando per un momento smetti di battere le ali inutili, le zampe che annaspano nel vuoto, e cer­chi di credere che si tratti di un sogno, di un incubo, di pigliarti in giro su questa re­altà, su questa caduta tremenda; e pensi che è la tua fine decisamente cretina – uno stupido vetro pulito in un mondo così insudiciato – una fine che non ti si ad­dice, per­ché magari, presso i tuoi, presso la tua specie, sei un personaggio importante, vescovo o colonnello, condottiero di eserciti o di anime. E pensi, mentre l’ala si fa sempre più pesante, al tempo che non è stato galan­tuomo, alla vita che non mantiene le sue pro­messe, che come in un vecchio film ti scorre innanzi.

 

…Dopo le prime piogge d’aprile, vennero i giorni delle grandi proces­sioni, Eccellenza. Le cicale frinivano tra i rami del fico selvatico e frenetici ortotteri emet­tevano un verde e acuto stridio. Lo sciame volava basso quasi a sfiorare il trifoglio, da dove un popolo di ali azzurrine si levò a rendere grazie alla prima­vera. Le formi­che, come sempre avare, trovarono un pretesto per non par­tecipare al raduno e in­via­rono una rappresentanza sparuta di alate formiche leo­nine: meglio accumulare cibo per quando verranno le brutte giornate, chi prima non pensa in ultimo sospira. Pre­veggenza! Preveggenza!

- Lasciatele fottere, - dicesti: - Lasciatele ai loro proverbi ché mai senti­ranno la gioia di vivere. Sono stenocefali senza felicità nel cuore e la loro è una triste sag­gezza.

Il corteo di cicale e cocciniglie, api gialle, vespe zebrate, navoncelle e re­duvi, smesse le antiche polemiche, concordò nel non confondere i mezzi col fine e plaudì te, vescovo venerabile, presule saggio, pastore e duce, studioso profondo dei grandi pen­satori della specie – i padri lepi-dòttori zinnanti – punto fermo nell’universale nau­fragio, trave e puntello della casarca. Qualcuno ricordò ai più giovani che eri autore insuperato di ben trentuno carmina, dei quali si diceva un gran bene e che nessuno aveva mai letto, nemmeno i pazienti curculionidi di cui è nota la tenacia.

Questo tuo additare le formiche al pubblico dispregio, Eccellenza, non si­gni­fi­cava, assolutamente, incoraggiare gli oziosi, ma ribadire il valore della mi­sura, con­dannare ogni forma di eccesso (Siate pii ma non fanatici!), poiché, no­to­riamente, la ricchezza, la forza e il prestigio di una comunità si basano sulla capacità di pro­durre o accumulare dei beni.

-Le possibilità di azione sono la diretta espressione di una serie di fattori con­vergenti. Ma attenzione! Avremmo torto ad illuderci: tutto ha origine e ci proviene dalla Fede, che è la luce ed è il mistero, dal Grande Padre degli artro­podi, scarabeo divino assiso dove ala mai giunge, instancabile stercorario d’avorio e oro finissimo, che mette assieme i destini, lassù tra le stelle. Senza la Fede, fratelli e figli diletti, saremmo orrido pasto d’augelli, smarriti anòfeli, anancefali senza meta.

“Signore, salva lo Vescovo/ ch’est fisolaco et Cato/ lavatore de lo peccato / consilior de mellior vita/ nostro Padre et Archimandrita!” compose estempo­ra­nea­mente un giovane che faceva parte della locale intellighèntia. Tutti gli altri ap­plaudi­rono, il capitolo applaudì.

E poi – ci ripensi mentre un raggio di sole ti ferisce – venne la settimana di peni­tenza, il ritiro e la meditazione. Mai si era avuta tanta partecipazione di coc­ci­nelle. Forse i temi erano un po’ quelli di sempre ma le grandi domande non sem­pre trovano immediata risposta: gli elementi sono quattro o sono sette? Sono più le stelle del cielo o i giorni della terra?

Magari qualcuno approfitta di tali giornate per concedersi grosse dormite mime­tizzandosi col verde delle foglie, la macaona si finge anche un picciuolo; qualcuno ne approfitta per realizzare accordi e alleanze, ma tu, Eccellenza, non fa­cevi mai niente per gioco ed eri perciò chiamato “il pio tiranno del Capi­tolo”.

- La vita è piena di misteri, valga per tutti il mistero delle stagioni. La somma dei misteri, come la somma delle foglie forma un albero, compone il grande mi­stero che ci comprende.

-Ma un albero, Signor Vescovo, non è soltanto una somma di foglie, se così fosse, in autunno cadrebbero gli alberi.

- In verità, nemmeno una grande quantità di pietre può dirsi una catte­drale…

- Cadranno le cattedrali quest’autunno.

- Voi, padre Malagrida, vi divertite coi paradossi!

E avanti così sino alla noia, sino alla stanchezza, sino a questo imprevedi­bile vetro di finestra chiusa, contro cui batti con tutto il peso della tua dottrina e cadi, pancia in aria, e stordito t’inoltri nel mistero di una morte senza misteri. Non era la talpa, l’uccello o il toporagno, si trattava di un rettangolo di luce. Si può mo­rire di luce? Cos’è questo mistero di luce, Signor vescovo?

 

Cos’è questo mistero, Signor Colonnello?

Di certo qualcuno dei suoi amici, parlandone al circolo ufficiali, dirà di avere avuto una specie di…precognizione, di avere quasi colto un segno di que­sto suo destino per via di talune cose dette ieri, per via di qualcuna di quelle cose che di­ciamo ogni giorno e passano inosservate sino a quando – zac! – non ac­cade loro di coincidere col destino, e ciò prova soltanto, Signor Colon­nello, che l’infortunio di cui morire – nel suo caso la vetrata funesta - può capitarci ogni giorno.

Sarebbe bastato, calcolando il rapporto velocità/peso, imprimere una spinta maggiore alla coppia alare destra, tale da ottenere uno spostamento di 60° del me­so­torace e, con una opportuna inclinazione dell’addome avrebbe schivato la vetrata, rischiando, tutt’al più, di urtare leggermente con l’ovopositore. Fa rabbia che dopo avere spiegato per tanto tempo queste cose a giovani allievi del corso ufficiali e averne scritto in un opuscolo meritata­mente assai diffuso, si cada in simili errori come un principiante.

Perché, caro Colonnello, lei lo sa bene quanto me, poi vengono i soliti furbi, quelli che vincono le guerre a tavolino e sanno cosa si fa in questi casi, i grandi te­o­rici del giorno dopo ai quali sarebbe inutile raccontare di un certo profumo o di una certa musica – nell’aria o nel cuore non importa – o di una certa insolita qua­lità della luce per cui la nostra scienza venne meno, Signor Colonnello.

Ed eccoci qua, a pancia in aria, a respirare con affanno, quasi a bere gli ul­timi sorsi di questa giornata che si annunciava come le altre, forse più bella: una gior­nata di maggio durante la quale fare una miriade di cose, di tutto tranne che con­cludere la carriera in maniera così oscura, per banale accidente.

Perché, caro Colonnello, ci si scorda facilmente del Manzanarre e del Reno, delle Alpi e delle Piramidi; ci si scorda l’ansia del cuore indocile, la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, e tutto si riduce a questa caduta nella polvere che riassume tutta una vita di baionette, gavette, attenti a destr! At­tenti a sinistr!, presentat-arm!, a questa caduta nella polvere dove un distratto piede di villano può ridurla, mi creda Signor Colonnello, ad un miserabile grumo d’elitre e di sanie gial­lastre.

 

Il colonnello ha ripreso ad agitarsi, le antenne cercano un contatto e l’involucro (mai così “insectum”, diviso in parti) facendo leva su un’ala, cerca di trascinarsi verso la vetrata. Fu vera gloria?

E’ trascorso un lungo, terribile momento per convincersi che quanto è ac­caduto è oramai accaduto a lui, e che niente è possibile fare per tornare ad un mi­nuto prima dell’impatto. Sciocco stare a chiedersi “perché proprio a me?” La ve­trata era lì, c’era per tutti. Da quest’accettazione gliene è venuta una nuova forza: era quanto gli occorreva per morire. Le cure, i problemi, le ambasce oramai appar­ten­gono agli altri: viene sempre, e per tutti, il momento di lasciare questo mondo.

Gliene viene anche una nuova dignità, c’è un risveglio del suo orgoglio, e se cerca di spostarsi verso la vetrata lo fa per capire meglio di cosa si è trattato, per mostrarsi alla morte nella luce migliore: veda pure la Triste Signora che il caduto non è un filugello o una tignola dei panni. E così, vestito di sole, il colonnello sta aspettando.

 

…Le nuvole si fecero più basse e un vento di mare pregno di ineffabili pro­fumi ci trasse presso giardini sconosciuti. Curiosi gelsomini si affaccia­rono a guardare lo stormo che volava sottovento, qualcuno si protese verso noi offrendo a un bacio la ti­mida corolla.

- Parla il comandante: avanzare in formazione di battaglia. Postazione ne­mica a ore dieci, controllare riserva carburante, tenersi pronti per picchiata su aiuole con papaveri…

Stavamo attraversando una zona infestata da coleotteri e bisognava evitare lo scontro coi cervi volanti e con gli altrettanto feroci scarabei-rinoceronti. Virammo di 30° circa ad Est-Sud-Est e più in là, oltre la siepe del pitosporo, in prossimità della vite canadese, dove crescevano alberi di pepe, lepidotteri variopinti, facendo a gara con i fiori, mostravano colori festosi, e una vanessa, di certo innamorata, com­piva giri sempre più conclusi attorno al calice di un ibisco, fiammeggiante anch’esso di torbida febbre. (Oh, come mi ti stampi nel ricordo, “mariposa ano­hada en el tintero!”).

- Parla il comandante. La pattuglia degli esploratori proceda in formazione di battaglia sulla rotta due punto nove, a Sud-Ovest. Attenti al capanno ad ore tre-quattro: possibili postazioni nemiche.

Dal basso, invidiosa e triste, ci guardava una folla strisciante di miriapodi, mentre, geloso, un antònomo minava le gemme del melo.

Ahiahiahi, Vanessa! Schiacciata tra le pagine di un vocabolario, libro di parole morte che dire non sanno la mia pena. La sirena dell’ambulanza ha un suono più acuto dello stridio della locusta verde, mentre attraversiamo la città inondata di sole. I palazzi hanno mille finestre e non s’affaccia nessuno.

 

Il colonnello sta aspettando. Fiero nel suo vestito di sole, solenne e un po’ stu­pido come un vero colonnello, intronato come un generale che appare in tivù dopo un golpe fallito, sta aspettando la morte. L’ingluvie gialla, remota gi­nestra, ha brevi sussulti e le zampette annaspano nella ricerca vana di un appiglio. Fuori è primavera.

La Triste Signora ha veduto: non è una tignola dei panni, è un insetto ro­bu­sto, divoratore implacabile di derrate che assale gridando “Savoia!”. E’ ro­busto e ciò gli è stato fatale perché è giunto con la forza di un proiettile contro la ve­trata – una ve­trata pulita nel sudicio mondo, che avrebbe dovuto mandare in frantumi gridando viva qualcosa.

Fuori è primavera, tignole dei panni e filugelli in libera uscita passano con lieve ronzio. Il colonnello sta aspettando, fiero nel suo vestito di sole, ma anche se non lo dice – e a chi dirlo? – prova qualcosa che somiglia all’invidia per i fi­lugelli che passano assieme a filugelle leggere, e se ne volano in coppia in cerca del dolce miele del fico.

Di certo, senza più guida sarà un grande casino e, da quegli imbranati che sono, non sapranno più scendere a cibarsi sui campi del lino dove accorrono corvi voraci.

Sta accampando ora scuse, ricorre a mezzucci di cui non lo avremmo cre­duto capace, il colonnello, perché – rimanga tra noi –non vuole morire.

 

…Ho chiuso gli occhi. Mi sono smarrito e ho la sensazione di scen­dere… scen­dere… Lentamente, come un pezzetto di carta, sto calando in questa specie di pozzo che non è in nessun luogo e che probabilmente da sempre mi porto dentro. Vorrei che nessuno piangesse se sciolgo i legami col mondo: io sto cer­cando di non farlo anche se altissimo è il prezzo: vi amavo.

Scendo ancora. Da vero signore, disponevo senza saperlo  di questo in­ferno pri­vato, dove non posso incontrarti, falena del mio settembre, e sento freddo, son solo, ho perduto gli amici. Tutto questo è morire.

Sento freddo. Il sole che batte contro la vetrata non mi scalda, mi abbaglia soltanto. Ho chiuso gli occhi e sono un pezzetto di carta che scende in questo gorgo, che è l’inferno, e che mi portavo dentro come una cosa mia. Sono un pez­zetto di carta nel vento. Non è il vento di mare pregno di profumi indicibili né ci sono più gelsomini a porgere la corolla. Perduellione! Perduellione!

Ma vorrei che nessuno piangesse.

Ahiahiahi, Vanessa! Schiacciata tra le pagine del vocabolario inutile, o an­ne­gata nel nero calamaio dell’oblio: dal Manzanarre al Reno Flagelli di dio, Volpi del deserto, Leoni dell’Amba Alagi e Liberatori del Santo Sepolcro ver­ranno a calpe­stare la polvere cruenta, ma il mio campo e il tuo campo, cioè il luogo dove si se­mina e si raccoglie – l’ho appena capito e di già non mi serve – non era lo spazio sterminato, ma il tempo, la breve giornata concessa al nostro volare innocente.

 

Ora non si muove più. E’ vestito di sole, solenne e un po’ sciocco, quasi un vero colonnello. Ei fu.

 

La pianta

 

La stradina scende scende ed eccoci alla “Taverna” E’ un locale fine: fiori, mo­quette e un bisbiglìo discreto. Forse avrei fatto meglio a mettere la giacca. Pa­zienza. Cannelloni alla perugina, salsicce alla perugina. Il vino lo vo­glio rosso.

Lei siede ad un tavolo di distanza, la potrei raggiungere con la voce ma non lo faccio.

Da dove vieni?

Devo cercare di non esagerare né col vino né con gli sguardi. Mangia una cosa gialla – purè di patate? - . Si è voltata a guardarmi un paio di volte, non si è tradita o non mi ha riconosciuto. Ha bevuto solo un dito di vino, lo noto dalla bottiglia quasi intatta sul suo tavolo. Ha chiesto il dolce. Il vino della mia bottiglia cala rapidamente.

Cosa potremmo dirci oramai?

Picchia nervosamente con le dita sottili sulla tavola mentre finge di leggere il giornale. Finge, ne sono certo. Ostenta di avere fretta, forse lo fa per rendersi inte­ressante: ha sempre amato così recitare.

Cosa potremmo dirci oramai?

Ma potremmo parlare? Potremmo ancora parlare? E perché se fa finta di non riconoscermi? E cosa dire?

Potremmo parlare della nostra adolescenza in un vicolo di gente povera, che ri­suonava sino a tarda notte delle ciance di suo padre che rientrava ubriaco con in te­sta il suo chiodo metafisico: la pianta della vita.

Ti ricordi?

Forse è un’altra. Forse le somiglia soltanto ed è il vino – non ne ho quasi più – a renderla identica a quella di cui parlo. Anche gli occhi sono identici: az­zurri con una nota inesprimibile di viola.

Ma come avrebbe potuto conservarsi così giovane? E’ passata una vita. Nem­meno quel vicolo più esiste. “Hanno sventrato il vecchio quartiere e aperto una strada alle automobili per scendere più presto al cimitero…” Lei lo avrà sa­puto? Forse no. Non deve essere più tornata in quei posti dove più niente sopravvive della nostra infanzia, né vicolo, né case, e forse nemmeno suo padre più percorre le strade, la sera, parlando di una pianta che sapeva: la pianta della vita.

Chiama il cameriere per pagare il conto. Veste con civettuola eleganza ed è ben pettinata. Non era così bionda prima. Cosa potremmo dirci?

Potrei dirle di seguirmi, che ho una stanza in un albergo di questa città; che potremmo anche non parlare di niente e fare soltanto l’amore dopo un così lungo rin­vio; potrei dirle “Mi scusi, signora, la guardavo perché mi ricorda tanto una per­sona cara”.

Con una frase così banale, lei sarebbe costretta a fingere di non credermi, ma se è lei, come penso, finirebbe col tradirsi e finiremmo anche col parlare di quei giorni lontani e di suo padre e di noi.

Potrei anche proporle l’albergo: non posso rinviare ancora di vent’anni dopo averla ritrovata in modo così imprevedibile, in una città così lontana da dove vivo: “Ho una stanza in un albergo di questa città”.

Forse arrossirebbe. Forse direbbe no, ancora no, e dovrei aspettare ancora vent’anni per rincontrarla nel ristorante di chissà quale città, per guardarla mentre mangia il suo dolce, mentre nervosa picchia con le dita sulla tavola aspettando il suo resto.

Ha fretta. Il cameriere porta il resto e lei si alza e va via.

Rinunzio alla frutta, pago e la seguo. Cosa le posso dire dopo che se n’è an­data così?

La strada è piena di vento. E’ questa una città piena di giovani, che mi in­duce a pensare con tristezza al mio paese dove sono rimasti soltanto vecchi in­va­lidi da­vanti ai bar a narrarsi vecchie storie di morte e di miniera.

Ci sarà ancora qualcuno che, ubriaco, parlerà intenerito d’una pianta, la pianta verde e amara della vita?

Rifaccio più volte la strada, ma non la ritrovo. Doveva avere veramente molta fretta. Doveva essere veramente un’altra donna, una alla quale nessun vecchio ubriaco, in una casa di poveri, sradicata, poi, in un’alba imprevedibile, aveva par­lato con la saggezza dei folli, di una pianta tenace che d’improvviso sboccia in fiori di struggente nostalgia.

 
L’amato bene
 

Vennero giornate di sole e tornò a sedersi sui gradini di casa. Le vicine la ri­ve­devano con piacere dopo quello che aveva passato e si compiacevano con lei, non avrebbero creduto che se la cavasse, ma lei, malgrado fosse una vecchietta piccola e fragile, ce l’aveva fatta a resistere. Anche il medico se ne era meravi­gliato: “Quando Iddio vorrà mi chiamerà accanto a quell’anima be­nedetta.”

L’anima benedetta era quella del marito, morto già da trent’otto anni, ma sem­pre presente nei discorsi di Grazia e nei suoi pensieri. Non c’era giorno che non lo ri­cordasse a qualcuno parlandone o che non invitasse qualcuno su da lei per fargli ve­dere il ritratto dell’estinto, attaccato alla parete. Si sarebbe detto che il marito di Grazia le tenesse più compagnia da morto che, da vivo, anche perché da vivo aveva amato viaggiare e far tardi la sera con gli amici.

Non avevano avuto che due figli, morti, peraltro, in tenera età. Lei non ne par­lava mai, non ne aveva ritratti e forse li aveva cancellati dal suo cuore dove Ernesto, invece, regnava padrone incontrastato.

Dei bimbi non ricordava che i vagiti comuni a tutti i bambini del mondo, mentre di Ernesto aveva ancora vivi dinanzi agli occhi i gesti, e nelle orecchie, il suono della voce: “ Grazia, domani faremo questo o quell’altro; Grazia, domani andrò qui, domani andrò là.”

Avevano trascorso poco tempo insieme, era vero, ma erano state giornate così piene che lei ancora di esse riusciva a nutrire il suo cuore. Il tempo trascorso in so­li­tudine e in rimpianto doveva avere notevolmente contribuito a smussare le spigo­losità del loro rapporto, qualora ce ne fossero state. Ella non ricordava che il bene, le parole buone, le attenzioni e l’affetto. Realmente non aveva paura di mo­rire, certa come era di trovarlo sulla porta del paradiso con sulle labbra il sorriso che gli co­nosceva.

- Grazia, - avrebbe detto – ero qui ad aspettarti.

Quel giorno c’era il sole e lei ricordava di quella volta che insieme si erano imbarcati per gli Stati Uniti (good evening, the milk…); qualche parola in inglese se la ricordava ancora ed era lieta quando l’occasione le consentiva di adoperarla tra lo stupore dei vicini che gli Stati Uniti li avevano visti sì e no nella carta geogra­fica.

- Good morning – disse alla signorina del piano di sopra che rientrava dall’ufficio. La ragazza le sorrise e lei pensò che sebbene il fidanzato della ra­gazza non fosse brutto e fosse persino biondo, nulla aveva a che vedere con Er­nesto che di biondo era stato biondo, ma un’altra cosa. Un giorno o l’altro li avrebbe in­vitati, tutti e due, a salire da lei per fargli costatare come Ernesto era stato biondo e che oc­chi avesse avuto prima di chiuderli.

Il sole scomparve dietro la casa alta, stava poco nel vicolo: appena il tempo di fare provare il piacere di scaldarsi. Anche Ernesto aveva fatto così, come il sole nel vicolo. Risalì.

Ventisei scalini, ventisette, vent’otto… la sua stanza era triste e umida. Il nipote Nicola, l’erede, non aveva fatto proprio un affare ad accordarsi di darle da mangiare per il resto dei suoi giorni e comprarle un loculo alla morte. Ma oramai il contratto era stato firmato. Ernesto dal ritratto la guardò come a volere plaudire all’idea della sua vecchia, come quando il giorno della propria morte l’aveva chia­mata a sé vicino per dirle di chiudere a chiave tutti i cassetti: - Qui finisce a Babele, Grazia. Conservati i soldi in petto e chiuditi tutto a chiave. Tra poco finisce a Ba­bele.

Così lei aveva fatto. La santa anima conosceva l’avidità dei suoi e sapeva Grazia ancora troppo ingenua e inesperta per pensare da sola che appena un di­sgra­ziato muore, i dolenti, pur continuando a piangerlo con un occhio, con l’altro si guar­dano intorno per vedere cosa c’è da arraffare.

Ernesto aveva la sua brava esperienza, sebbene giovane. Un altro Ernesto? No, non poteva nascere.

Le lenzuola erano fredde, sembravano bagnate. Quando si è soli un letto di­venta immenso, come un deserto. Lei non aveva mai visto un deserto, ma ebbe la sensazione che il letto quella sera fosse troppo grande. Si rannicchiò in un angolo e pensò che nello spazio libero Ernesto aveva dormito e non dor­miva più da tanto tempo. Non aveva nemmeno lo scaldino dall’ultima volta che per poco non si arro­stiva. Le vicine glielo avevano tolto ad evitare che una qualche imprudenza le riu­scisse fatale. Ma quando ottant’anni son suonati da un pezzo, ogni cosa può essere fatale.

Prima di addormentarsi si volle recitare qualche posta di rosario per il giorno a venire: faceva sempre così e riteneva di avere un vantaggio di due o tre mesi. Pre­gare le teneva compagnia o, come lei diceva, le occupava la mente. I santi le offri­vano tanto conforto senza pretendere che lei donasse in cambio la casa o altro. Si contentavano di quelle poche preghiere che lei donava con gioia in un rapporto dove il dare trovava coincidenza col ricevere. I nipoti non sono della stessa pasta dei santi. Pensò a Nicola, aveva tutto e niente gli bastava.

Le galline, il nipote se le era portate in campagna sin dalla stessa mattina e per­ciò c’era persino più silenzio. Ora avrebbero dovuto fare le uova, intanto avevano ritenuto poco igienico che lei, ammalata, vivesse con le galline, dopo tanti anni di pacifica convivenza.

 

Le avevano portato un grande pane dalla campagna, un grande pane di fru­mento, quella mattina. Era un bel pane, ma sarebbe indurito presto, non lo avrebbe più potuto mangiare: non aveva più i denti di una volta. Ernesto aveva avuto buoni denti. Ricordava che schiacciava le mandorle coi denti e gliele por­geva. Sempre af­fettuoso, mai che avesse levato una mano per picchiarla come fanno certi mariti. Non lo aveva neppure pensato, altri erano i suoi pensieri.

Si addormentò cullata da dolci pensieri mentre sulla strada passava una fi­sar­monica. Note di vecchia mazurca campagnola  ridestarono echi negli angoli riposti dell’anima. Alla luce di lumi a petrolio – lumi spenti da tempo e relegati in soffitta con altri oggetti e inutile pattume - emersero, come da un acquario, visi giovani di vecchie compagne. Da dove torni? Da dove torni e mi parli, mia giovinezza? Qual­cuno rideva nell’ombra e un altro disse. – Si sta le­vando la luna.

Era Ernesto.

Il padre aveva gli occhi lucidi di vino, la guardava quasi covandosela con gli occhi. – E’ bello il tuo vestito, Grazia.

Le note si allontanavano – Suonate ancora! Suonate ancora! - nessuno più ri­deva e i visi degli antichi compagni s’inabissarono nell’acquario della memoria. La luna rimase impigliata tra i rami di un albero e un cane si mise ad abbaiare lontano. – Suonate ancora! Suonate ancora!

- Io gli voglio bene.

Gli occhi lucidi di vino si strinsero a nascondere il pianto: - Sei bella nel tuo vestito – e non riusciva a dire altro. Bevve di nuovo per farsi coraggio, non faceva che ridire la stessa cosa, come un disco rotto.

- Rosa o viola? Lungo e con lo strascico, il vestito. Rosa o viola? Come fai a vederlo dopo tanto tempo. Quanto? Tutto, tutto il tempo, finché ti durarono gli oc­chi. Ho ancora gli occhi? Non aprirli, non c’è più luce. – Stava parlando con Maria Eletta, una compagna di scuola, quella che piangeva sempre perché puntualmente perdeva il fiocco che teneva tra i capelli. Se ne era andata durante le vacanze dopo una settimana di febbre.

Anche lei l’indomani era bella e morta. Ricordava alle vicine un piccolo uc­cello e non poche furono a tessere elogi alla sua bontà. Il nipote venne sul tardi completa­mente vestito di nero, con la moglie più nera ancora e una parente di mezza età, im­bacuccata anche lei in uno scialle nero; ma nessuno pianse una la­grima ad eccezione di una bimba dei vicini che dei morti aveva una paura terri­bile.

La vestirono di un vestito color tabacco che lei da anni si era tenuto pronto nell’armadio, e le misero tra le mani pallide la corona del rosario. Lei non mosse le labbra alla preghiera. Aveva un buon vantaggio.

 

Si stupì di trovarsi quei panni addosso e dopo un po’ si rese conto di es­sere morta, ma le dispiacque, perché pur sapendo di doverlo fare, avrebbe voluto avere il tempo di dire a quella stupida della nipote ancora qualcosa sulle galline. Ripensandoci le cose da fare erano ancora tante. – Non si muore mai al momento giusto – si disse stiz­zita. Ma a poco a poco riuscì persino a ridere della sua stizza. – Un momento giusto – si disse – non verrebbe mai.

S’incamminò. Ernesto forse la stava aspettando e lei non ci faceva una bella figura, dopo tanto tempo, a farsi aspettare.

Andava guardandosi attorno e si avvide che non c’era nessuno ad aspet­tarla. Ci rimase male, ma volle scusare Ernesto. Doveva avere avuto qualcosa da fare all’ultimo momento. Non era così, infatti, lo vide che passeggiava con una bellis­sima bionda che si dimenava su altissimi tacchi. A lei parve una di quelle smorfiose la cui esatta definizione non era giusto pronunciare in quel luogo.

Lo chiamò forte: – Ernesto! Ernesto!

Ernesto continuò a passeggiare imperturbabile e a sorridere alla bionda che forse gli raccontava qualcosa di spiritoso. Grazia indispettita si morse le labbra e decise di raggiungerlo. Così fece. Lo raggiunse e lo tirò per un braccio.

Ernesto si voltò. Era leggermente pallido, coi capelli biondi che lei ancora ricordava, ma con un’espressione estranea sul suo viso. – Dite, buonadonna – fece e Grazia sentì cadersi le braccia riuscendo appena a balbettare: - Buona­donna? Io? Io sono Grazia – gridò con voce strozzata – Grazia!

Ernesto la guardò lievemente turbato e, non senza nascondere un certo di­sap­punto, rispose, gentile ma distante: - Sono lieto di conoscervi, signora Grazia… ma non so in cosa possa esservi utile.

- Utile? A me?… possibile che lei – s’impappinava persino la poverina – possi­bile che lei, anzi tu, tu non mi riconosca?

La bionda dava segni di impazienza, ma Grazia era veramente disperata per­ché quell’incontro le era costato una vita di preghiere, per quell’incontro aveva ac­cet­tato con letizia di morire, e ora…

Ernesto la guardò e il suo viso divenne triste: - Signora – disse – Si­gnora… - ogni “signora” per Grazia era come una frustata. – Io non vorrei far nulla che possa di­spiacervi anche se non vi conosco, perciò vi prego, vi prego come se pre­gassi mia ma­dre, di volermi spiegare tutto dal principio. Voi dite di cono­scermi?

Grazia non riusciva più a seguire il discorso. Ernesto aveva detto “come se pre­gassi mia madre… Avrebbe voluto fuggire, andarsene lontano, morire. Ma mo­rire non le era più possibile. Aveva detto ”come se pregassi mia madre”. Tutto si spiegava: lei era Grazia, sì, ma una Grazia di ottantatrè anni con gli oc­chietti sbia­diti, la fac­ciuzza grinzosa, con pochi e bianchi capelli: non era più Grazia.

. Perché non ce ne andiamo? – intervenne la bionda che sino ad allora era ri­ma­sta zitta: – la signora ti ha confuso con un altro, ecco tutto.

- Non l’ho confuso con nessun altro, – trovò forza di ribattere Grazia. - Non potrei confonderlo con nessuno. È la mia vita.

 La bionda sorrise: – Molto sentimentale.

Ernesto non sorrise, il suo viso appariva turbato nel suo pallore. – Crede­temi, signora – stavolta indugiò prima di dire “signora” – vorrei tanto ricor­darmi di voi, ma vi giuro su ciò che avete più caro, che non ricordo! Non ricordo! Non ricordo!

I suoi occhi si riempirono di lagrime e la bionda, turbata anche lei stavolta, ri­volse a Grazia uno sguardo cattivo. – Vieni, caro. Andiamo via. La signora ti con­fonde con qualche altro e la sua buonafede la fa insistere.

Le parole della bionda fecero nascere un dubbio nella mente di Grazia che chiese, desiderando di essersi sbagliata e nello stesso tempo il contrario: - Ma voi, cioè tu, non ti chiamavi Ernesto?

L’uomo aprì le braccia con fare desolato e scuotendo il capo disse: - Non lo so, signora, non lo so.

Grazia lo guardò, provò pena per quello sconforto e per se stessa: – Tu ti chia­mavi Ernesto e mi amavi. Ora non ti chiami più Ernesto e ami quella lì. - In­dicò la bionda che sorrise commiserandola.

Ernesto scosse il capo e disse, triste triste come chi recita una preghiera per defunti: – Ora non mi chiamo più Ernesto e non amo più, signora.

- Mi hai sposato – continuò Grazia, senza badargli – mi hai sposato con­tro il parere dei miei familiari che non volevano darmi a te, perché eri un contadino, scu­sami, non dovrei dirtelo ma è così: eri un contadino e ti volevo bene più di mio pa­dre, più di mia madre.

La bionda passeggiava innervosita,, accese una sigaretta, provò a farsi uscire il fumo dal naso.

Ernesto stava a capo chino: - Se lei lo dice, le credo, ma non ricordo, non ri­cordo niente. Non se ne deve avere a male; può darsi che tutto sia stato come dice lei. Tutto capita a un uomo nell’infinità del tempo, ma la memoria… la memoria non conserva traccia di niente, è un otre bucato che si svuota e si svuota. Una volta una donna mi disse di essere mia madre: non le ho creduto, tante donne hanno detto di essere mia madre. Può darsi che avessero tutte ragione o tutte torto, non le biasimo, dico soltanto che non ricordo. Per lei è semplice: lei riesce a ricordare tutto quello che ha detto perché è qui da poco, ma si accorgerà ben presto che non si può ricordare tutto e sem­pre – sorrise appena. – Perdoni la metafora, ma la me­moria è un otre bucato e si svuota.

Tacque e nemmeno Grazia parlò per un poco mentre la bionda aveva sulla fac­cia un’espressione che voleva dire “Beh, tutto è chiaro, possiamo anche an­dar­cene.” Grazia non si dava pace, però. Guardò Ernesto che la sovrastava, lei gli giungeva appena al petto; ricordò che spesso Ernesto aveva usato celiare sulla sua statura pic­colina e ricercò nella mente qualcosa, una frase, che potesse ricordare il loro comune passato, ma niente le sovvenne. Ebbe paura di comin­ciare a scordare, di divenire un’ombra senza memoria. Sarebbe stata una povertà terribile; sentì che il ricordare, anche il dolore e le cose tristi, era una ricchezza inestimabile: per anni, nel vicolo dove il sole si affacciava appena, per scompa­rire tosto dietro la casa alta, i ricordi erano stati il suo pane. Ora li avrebbe perduti, perché la memoria, come aveva detto Ernesto, era un otre bucato, un otre inutile.

- Ho paura – disse. – Ho paura di scordare tutto e persino il tuo nome. Dammi la mano. Non mi lasciare sola in questo momento anche se non mi co­nosci o non ti ricordi di me. Dammi la mano, anche se non mi vuoi più bene.

La bionda li guardava senza parlare e senza più sorridere.

- Chi è quella lì – chiese Grazia abbassando la voce.

Ernesto la guardò come si guarda una bambina, si chino su lei e le disse piano: - E’ giunta in seguito a un incidente d’auto. Tornava da una festa. Non sa nem­meno lei chi è. In principio non faceva che parlare di quella festa, diceva di essersi tanto di­vertita e di avere incontrato gente importante, un giovane avvocato che l’ha fatta ballare tutta la sera. Ma ora non sa più chi è, o chi era.

- Ecco, non lo sa – pensò Grazia. – Tra poco nemmeno io saprò chi sono, sarò un’ombra smemorata senza passato, senza ricordi, senza Ernesto. Lo in­contrerò e non saprò riconoscerlo: è terribile

- Ernesto – disse ancora stringendogli la mano – ti dispiace chiamarmi an­cora per nome?

La carezzò sui capelli, le sue mani erano leggere, fatte d’aria: - Grazia – disse – Grazia…

- Tu mi volevi bene, Ernesto, non riesco a capire come hai fatto a scordarti di tutto. Tu mi volevi bene. Non capisco ma avverto che mi accade la stessa cosa: è ter­ribile.

- No, non è terribile. Pare così in principio, poi passa.

- Dici che passa?  - Voleva chiamarlo per nome ma non le riuscì: non ri­cor­dava più il nome, eppure era stato l’unico nome che aveva contato nella sua vita. Pianse ed egli se ne accorse: - Perché? – chiese con voce dolcissima.

- Non ricordo più il tuo nome, - singhiozzò Grazia – e nemmeno il mio ricordo più. Non ricordo più niente, mi pare d’essermi persa…

Ernesto la guardò con affetto. – Tu ti chiamavi Grazia e io Ernesto, ci siamo conosciuti sulla terra e ci siamo amati. Ora sei qui con me che ti aspet­tavo da tanto tempo. Va bene?

Lei sorrise confortata e chiese. – Il nostro era un grande amore, vero?

- L’amore più grande del mondo.

- Siamo stati in America, vero?

L’uomo sorrise e acconsentì. – Sì, anche in America siamo stati. Ora devo an­dare – aggiunse. – Ci vedremo ancora, stai tranquilla, ci vedremo.

- Domani ? – chiese Grazia.

Ernesto la guardò e anche la bionda, con un sorrisetto ironico: - Qui non c’è do­mani – dissero quasi insieme. Si allontanarono ed Ernesto si voltava ogni tanto a farle un cenno di saluto. Grazia avrebbe voluto chiamarlo, ma si era nuo­vamente scordato il nome (ma egli aveva ancora un nome?). Rinunciò a chiamarlo e se­dette, ormai senza memoria ad aspettare non sapeva cosa. Passavano schiere di angeli can­tando inni bellissimi, andò loro incontro e disse solo: - Sono qui.

Quelli le sorrisero.

- Chissà perché sorridono – pensò Grazia e con quel briciolo di umanità di cui non si era ancora liberata, alla luce di quei ricordi ormai vaghi che stavano per la­sciarla, li paragonò a quelle persone che dalle disgrazie del loro prossimo traggono i numeri per giocare a lotto. Pensò così perché anche se non riusciva ormai a ricor­dare quasi niente, avvertiva un vago sentore di pena, sentiva che qualcosa aveva perduto.

Un angelo bellissimo le disse: - Vieni.

Lei lo seguì docile, unì la sua voce al coro che innalzava un inno che lei non aveva mai cantato ma conosceva da cima a fondo. La bionda di prima, quella che era stata in compagnia di Ernesto, cantava anche lei e, sempre cantando, le passò un braccio attorno alle spalle. Lei la vide bellissima e le sor­rise.

Avrebbe voluto che insieme parlassero un poco di Ernesto (ecco, si chia­mava così) ma poi pensò che non era il caso e, in fondo in fondo, non c’era più tanto da dire: tutto il dicibile era stato detto laggiù, in quel vicolo avaro di sole, nei lunghi giorni di solitaria pena. La guardò ancora ed era come guar­dare in uno specchio profondo, posto oltre il tempo, la vita e la morte.

  L'ostaggio 

Aprì gli occhi per una fitta dolorosa al fianco. Si toccò la tem­pia dove lo ave­vano colpito per consta­tare, non senza sollievo, che non v'era traccia di san­gue. Si guardò attorno: lo stavano osser­vando.

- Buongiorno, eccellenza, - disse il giovane con baffi che gli ri­cor­dava qual­cuno incontrato dalle parti del­l'u­ni­versità.

Ricordò di essere stato aggredito mentre rientrava dalla pas­seg­giata mat­tu­tina e s'informò preoccupato: - Dov'è Giuseppe? Che ne avete fatto del­l'au­ti­sta?

Il giovane fece un gesto significativo con la mano, come a be­ne­dire, e ag­giunse: - Si era messo in mente di fare l'eroe, non ab­biamo avuto scelta.

- Siete degli sporchi assassini, - disse l'onorevole che pure non amava le pa­role pesanti. - Dei killer spie­tati.

La ragazza sorrise: - E' caduto nell'adempimento del proprio do­vere. Gli man­de­ranno tonnellate di fiori e molti telegrammi. Il pre­si­dente cor­rerà ad ab­bracciare sua mo­glie.

La guardò. Fasciata nei jeans aderentissimi, da sem­brar nuda, aveva un viso vol­gare da servotta: - Siete dei folli, vi state avventu­rando per una strada senza uscita.

- La troveremo l'uscita, - disse l'altro ragazzo che brandiva il mi­tra con gio­va­nile spavalderia. - La tro­ve­remo.

Lo lasciarono solo a meditare sul povero Giuseppe, vittima di inte­ressi e cal­coli che non aveva mai com­preso a fondo.  - La vita umana, - pensò - non ha più va­lore. Quale società potrà mai venire fuori da un con­testo che ha in di­spre­gio que­sto gran­dioso dono di Dio?

Giuseppe era un uomo buono: un proletario ucciso da proletari, cioè un er­rore nell'er­rore: - Signore, perdona i suoi peccati e accoglilo nella Tua gloria, - pregò a bassa voce mentre qualcuno trafficava die­tro la porta che si aprì per la­sciare pas­sare la ragazza di poco prima.

I suoi jeans attillati erano una vera indecenza, nuda sarebbe stata meno pro­vo­cante. Nel viso volga­ruccio c'era una nota di triste se­rietà che indusse l'ono­re­vole a riflet­tere sul significato dell'e­spres­sione "gio­ventù bru­ciata".

- Proto manda a chiederle se ha bisogno di qualcosa: la consi­dera un ospite di ri­guardo e vuole che si trovi bene con noi, onore­vole.

Avrebbe volentieri risposto che voleva tornarsene a casa sua, dove a que­st'ora sta­vano in ansia. I giornali forse erano già usciti in edi­zione straor­di­naria e la ra­dio e la te­levisione si affaticavano a co­struire ipotesi. Chiese in­vece: - Chi è Proto?

La ragazza sorrise. Sorridente era meno volgare, anzi diveniva quasi gra­ziosa. Aveva letto da qualche parte che il sorriso abbelli­sce il viso delle per­sone buone, ma alla luce dei fatti era vero il contrario.

- Proto è il capogruppo.

- Non sarà il suo vero nome. Perché lo chiamate così?

- E' lui che compila i nostri comunicati per la stampa.

- Un intellettuale, quindi, - ironizzò. - Mi dica un'al­tra cosa...

- Non le dico più niente. Ho l'ordine di non con­ver­sare, cioè di non "fra­ter­niz­zare", coi pri­gionieri.

- Ce ne sono altri?

- Non le rispondo. Debbo chiederle solo se vuole delle siga­rette.

- No, non fumo.

La ragazza se ne andò richiudendo a chiave la porta.

 All'onorevole acca­deva per la prima volta di ve­nire rin­chiuso in una stanza, nem­meno da ragazzo aveva mai subìto quel tipo di puni­zione e la cosa lo rat­tri­stò mol­tis­simo. - Sono incappato in un brutto guaio, - disse forte. Cosa potevano vo­lere? Che cosa gli avreb­bero chie­sto? Un ricatto ai fini di una possibile estor­sione si esclu­deva da solo, tutti sa­pevano che la sua fami­glia non aveva soldi.

Si guardò attorno: la stanzetta doveva essere larga non più di tre me­tri e pro­fonda non più di quattro, con una finestrina in alto, in una delle pareti più strette, quasi all'angolo. Su una delle pareti più lun­ghe stava addossato un let­tuccio. Una sedia impa­gliata comple­tava l'arreda­mento. Montò sulla sedia per vedere cosa ci fosse oltre la fi­nestra: un muro di pietre grigie a circa due me­tri il cui in­tonaco era stato scro­stato via dalle intem­perie. Guardando verso l'alto scorse, sul muro, un vaso di ter­racotta con una pianta verde, smilza. - E' pri­ma­vera, - si disse e si chiese che razza di pianta fosse quella. Non era mai riu­scito a ca­pirne molto in fatto di bota­nica. Si con­solò so­spi­rando : - Non sarà certo l'erba vo­glio.

Sentì ancora girare la chiave nella serratura e scese precipito­sa­mente dalla se­dia: non voleva che lo sor­pren­dessero in quell'atteg­gia­mento che, per ragioni che non si spiegò subito, trovava ridi­colo. Entrò Proto ac­com­pa­gnato dal ra­gazzo col mitra, una faccia ottusa e fe­roce: - Deve scrivere una letterina, ono­re­vole.

- Non ho niente da scrivere a nessuno. A quest'ora già tutti sa­pranno che una banda di fanatici folli mi tiene prigioniero.

- Lei, onorevole, è prigioniero dell'esercito rivolu­zionario. Non è gen­tile da parte sua definirci banda, dopo avere capeggiato la banda più grossa del Paese.

- Voi sareste rivoluzionari? - chiese aggressivo. - Siete un pu­gno di pazzi che vive nell'ombra. Se le vo­stre ra­gioni non fossero sporche non avre­ste mo­tivo di na­scon­derle né di nascondervi: ci siamo sem­pre battuti per la li­bertà delle opinioni, siamo sempre stati dispo­nibili ad ac­cogliere ogni con­tri­buto. Ma voi non avete contri­buti da dare, voi avete il mitra.

- Si sfoghi pure, onorevole. Quando avrà finito do­vrà soltanto co­piare di suo pugno questo biglietto: sono appena una ventina di ri­ghe. Cosa sono venti ri­ghe per un uomo della sua prolissità?

- Chi vi paga? - chiese sempre aggressivo. - Debbo scrivere ai miei amici per convincerli a darvi dei soldi? Vi avverto che non sono ricco. Io non sono ricco.

- Proto lo guardò severo: - Lei insiste ad equivocare anche per­ché le fa­rebbe comodo trattare con dei gras­sa­tori. Ma gliel'ho già detto: il nostro non è un ri­catto o un se­que­stro di persona per estor­cere dei soldi, è un atto po­li­tico. Le concedo che esula dalla prassi normale cara alla borghe­sia e al sistema mum­mi­fi­cante, ma ri­mane un atto politico.

- Cosa dovrei scrivere?

- Una cosa semplicissima: avvertire che non cal­chino la mano su al­cuni nostri compagni incappati nei "ri­gori della legge" e che, in­tanto, una nostra compa­gna che si trova in avanzato stato di gra­vi­danza sia restituita alla li­bertà.

- Dicevo bene che si tratta di un ricatto. Non posso fare niente: non posso in­terferire nei compiti e nei ruoli che appartengo alla Magistratura. Lo dicevo che si tratta di un ricatto.

- Lo chiami come vuole, intanto scriva. Mitra è un ragazzo ner­voso, al­ler­gico alle parola: gli fanno schifo, per troppo tempo è stato im­brogliato dai vo­stri bei di­scorsi e dai vostri compiti e ruoli di pre­doni in combutta.

Mitra aveva davvero una faccia feroce e l'onore­vole ebbe paura di quella fac­cia di uomo di Neanderthal. Quello sarebbe stato capace di spa­rare dav­vero. Pensò che il desti­natario non avrebbe tardato a ca­pire che si trattava di una co­strizione, av­viene sempre in questi casi. Accettò perciò di copiare il bi­glietto che, osservò, era scritto in buon ita­liano: - Sei laureato? - chiese a Proto.

- Son cazzi miei, - rispose il giovane che, avuto il suo bi­glietto, uscì chia­mando a sé con un cenno Mitra che si baloccava con la sua arma.

Rimasto solo, l'onorevole risalì sulla sedia a guar­dare la pianta verde sul muro e a pensare che per il po­vero Giuseppe quello era stato un giorno fa­tale, il suo ul­timo giorno in questo mondo dove lo spazio per la pietà si re­stringe ogni giorno di più. Si chiese poi se - obietti­va­mente - questi giovani che sbaglia­vano nel metodo po­tes­sero avere una qualche ragione dalla loro parte. Di certo le cose realizzate sono sem­pre minori di quelle spe­rate e de­lu­dono spesso le pre­messe; la realtà non ha mai la sta­tura della spe­ranza. Ma i condi­zio­namenti sono tanti e mu­tare la faccia di un paese non è cosa che si possa fare dal­l'oggi al do­mani. Questi gio­vani non sanno delle re­si­stenze che si in­contrano, e spesso scambiano mo­menti tattici con con­ni­venze o peggio.

Forse le colpe più grosse, le vere colpe, erano colpe di indul­genza: se la tua mano destra ti fa peccare, tà­gliala. Si era sbagliato a non tagliare al­cune mani e que­ste ave­vano proliferato.

Non sentì la chiave, stavolta, immerso com'era nei suoi pen­sieri e la ra­gazza, entrando, lo sorprese sulla se­dia, che guardava fuori. Era riuscito per­sino a scor­gere una sot­tile striscia di cielo e a trarne conso­la­zione: - "...E tu cielo dal­l'alto dei monti / sereno, in­fi­nito, immortale / di un pianto di stelle lo inondi / quest'a­tomo opaco del male..." - disse piano.

- E' la preghiera della sera? - chiese ironica la ra­gazza che era ve­nuta a por­tar­gli da mangiare. - Pensi a man­giare (da trent'anni non vi preoccu­pate che di que­sto) e le pre­ghiere se le dirà dopo.

La guardò considerando che per l'età poteva esser­gli figlia e avrebbe vo­luto dirle della striscia di cielo e della poesia che aveva mormo­rato, ma ebbe pu­dore, e quasi paura del suo cinismo. Scese dalla sedia e si mise a man­giare senza vo­glia men­tre la ragazza lo guar­dava assorta.

- Sei stata tu a cucinare?

- Sì, onorevole. Come trova la nostra cucina?

- Come ti chiami?

- Se lo vuole sapere per denunciarmi quando uscirà, sappia che è poco pro­ba­bile che esca vivo.

Le parole lo impressionarono, pensò a Mitra e alla sua faccia fe­roce: le pa­role gli facevano schifo, aveva detto il compagno. Lo avrebbe ucciso senza par­lare, con un gru­gnito di piacere. Bevve un sorso d'acqua e con voce che cercò di rendere ferma disse: - Non lo chie­devo per questo, era una mia cu­rio­sità.

La ragazza raccolse i piatti e se ne andò. Prima di chiudere l'u­scio si volto un momento per dire: - Mi chiamo Carla.

 

Passarono dei giorni. Quanti? Non avrebbe saputo dirlo, sino a quando un giorno la ragazza, a pranzo, gli portò un dolce. Dovevano co­noscere bene i suoi gu­sti, do­ve­vano averlo studiato ab­bastanza se ave­vano az­zec­cato quel tipo di dolce che gli pia­ceva, un dolce dal nome forse tede­sco: profitterol. Oppure era una coin­ci­denza ca­suale. La ra­gazza spiegò: - oggi è domenica.

Erano, quindi, sei giorni.

La ragazza sorrideva, e ciò, contro le teorie di cui l'o­norevole aveva ri­cordo, la abbelliva. L'uomo os­servò il suo abbigliamento e disse che an­dare in giro così si­gnifi­cava provocare la gente. Lei rise e chiese pe­tu­lante: - La sto tur­bando, ec­cel­lenza?

Il professore che era in lui insorse sdegnato: - Non sia sciocca, Carla!

Era la prima volta che la chiamava per nome e la ra­gazza non riu­scì a na­scon­dere il suo turbamento. Forse aveva fatto male a dirgli il suo nome, anche se non si po­teva dire che stesse "frater­nizzando" col ne­mico. Ma un nemico che ti chiama per nome, che ne­mico è?

Non dissero altro, ma quando lei andò via portan­dosi i piatti, sulla porta si volto a salutare e a sorrider­gli. Era la prima volta che questo acca­deva e l'o­no­re­vole ne fu sor­preso al punto che non trovò tempo di ri­spon­derle.

Tornato solo, passeggiò per la stanza percorrendola più volte nella sua breve lunghezza. Da quando era stato sorpreso sulla sedia a guardare il muro, aveva ti­more di ri­farlo, trovandolo estrema­mente in­fantile. Ma cosa c'è di male se in queste lunghe giornate di ozio forzato ti concedi di essere infantile, di sa­lire su una sedia per guar­dare il cielo?  Dopo che la ragazza gli aveva detto "buon­giorno" trovò la forza di tor­nare a guardare fuori da quella posi­zione in­solita. Il cielo, per quel poco che se ne vedeva, era un bel cielo do­meni­cale. La gente quella mattina era an­data a messa e qual­cuno aveva pregato pure per la sua vita. Pensò ai suoi cari e al povero Giuseppe che non capiva niente di politica e ne era morto.

Verso sera Baffo e Mitra irruppero nella stanza con l'assurdo prete­sto di una perquisizione: come era ov­vio, non trovarono niente, ma Baffo, scorta la se­dia sotto la fi­nestra, scherzò sul fatto che l'ono­re­vole, guar­dando fuori, fa­ceva evadere i suoi pensieri, e ciò non era giusto: il pen­siero è il motore del mondo. Più tardi tor­na­rono a in­chiodare due tavole di tra­verso sulla fi­ne­stra e, per l'o­no­re­vole, la notte, alla luce fioca dell'unica lampada, di­venne più lunga.

In queste condizioni le visite della ragazza che por­tava da man­giare, i suoi cal­zoni attillati e i suoi rari sor­risi di­vennero gli unici di­versivi di cui riem­pire le gior­nate.

- Ho letto tempo fa di un topo chiuso in una gabbia che finisce con affe­zio­narsi ad un cubo di plastica ri­chiuso nella stessa gabbia, - le disse una sera. - Forse mi sta acca­dendo la stessa cosa.

- Non credo di somigliare molto a un cubo, - lei ci­vettò pas­san­dosi le mani sui fianchi e sulle cosce in­guai­nate nella tela ruvida dei je­ans. - Direi che, al con­tra­rio, sono piena di sfere, - aggiunse ca­rez­zan­dosi il seno.

- Mi riferivo alla forza delle abitudini, alla abitudi­na­rietà degli ani­mali, - pre­cisò l'onorevole.  Ma il gesto lo aveva turbato e fatto ar­rossire; gli aveva fatto pen­sare di appartenere a una generazione che, forse sba­gliando, aveva avuto un mag­giore pudore per tutto quello che ri­guardava il corpo.

- Il ragazzo ce l'hai? - chiese senza accorgersi di darle del tu, tanto gli era di­ve­nuto naturale.

- Cosa vuol dire? Se vado a letto con qualcuno?  Se mi faccio sco­pare? Sì, mi sono fatta anche Baffo una sera che eravamo entrambi ubriachi.

Era un linguaggio nuovo per l'onorevole, ma non privo di una sua im­me­dia­tezza. Quando la ragazza se ne fu andata ci pensò a lungo: " Mi sono fatta sco­pare anche da Baffo una sera che era­vamo entrambi ubria­chi." Rivide il ge­sto provo­cante nella sua sem­plicità, quel li­sciarsi le gambe e i fian­chi, quel ca­rez­zarsi il seno, e avrebbe per­sino pregato per questi gio­vani animali cui sfuggiva l'immenso va­lore della vita an­che se ne erano pieni da traboccarne. Baffo venne più tardi a dirgli che gli stavano già fa­cendo il pro­cesso.

- Lo fate senza di me? - chiese cercando di nascon­dere la sua pre­oc­cupa­zione. Baffo sorrise, anzi sghi­gnazzò: - Ma di te sap­piamo tutto, sei un uomo pub­blico, sei una cele­brità: uno statista. Persino al­l'e­stero i gior­nali ti dedi­cano la prima pa­gina.

 Bella consolazione avere la prima pagina sui gior­nali. Quando il toro è adorno di "banderillas" vuol dire semplicemente che è più vi­cina l'ora de la "muerte". Ma perché si metteva a pensare al toro, adesso? Baffo di certo vo­leva spaventarlo. Lo aveva realmente in­con­trato dalle parti dell'uni­ver­sità?

Alla ragazza, quando venne a portargli la cena, chiese una si­ga­retta.

- Mi aveva detto che non fumava, onorevole.

- Sì, infatti non fumavo più da molto tempo, ma me ne è tor­nata la vo­glia.

- Gliene do una delle mie, domani gliele farò com­prare. Cosa fuma?

Rimase perplesso. Considerava quello del fumo un vizio sciocco, ol­tre che dan­noso. Non conosceva le mar­che delle siga­rette, perciò ar­ri­schiò: - Potrei fu­mare delle ame­ricane?

- Hanno molta nicotina, - disse la ragazza con com­pe­tenza, - ma se a lei piac­ciono...

Gli fece accendere la sigaretta col suo accendino a gas e le loro mani si sfiora­rono; quel contatto lo inte­ne­riva e l'uomo cercò di pro­lun­garlo.

- Mitra è dietro la porta, - sussurrò la ragazza. - Cerchi di non farmi gri­dare se no la sigaretta la fini­sce in para­diso.

Ma appariva turbata anche lei e nonostante le parole minacciose non fece niente per sottrarsi a quella ca­rezza, anzi - così parve al­l'o­no­re­vole - ebbe un breve abban­dono, si avvicinò di più sfioran­dolo col suo corpo, con le sue gambe che i je­ans disegnavano per­fette e con­te­ne­vano a mala­pena.

Quando la ragazza se ne andò, l'onorevole, con la si­garetta in bocca, col fumo che lo faceva tossire e gli bru­ciava gli occhi, pensò che tutto era as­surdo, che tutto mi­rava a condurlo alla follia. Forse il mondo nel quale era vissuto, uomo pubblico, per­sonaggio im­por­tante, era tutto un concen­trato di ipocrisia, una solenne im­po­stura: - Ma se così non fosse, se la so­cietà non si desse delle re­gole ponen­dosi i ne­cessari li­miti, che ne sa­rebbe del mondo?  - si chie­deva, mentre men­talmente ri­vedeva la ra­gazza nei ge­sti e nelle pa­role pro­vocanti ai quali non sembrava at­tri­buire alcuna im­portanza

Fumò la sigaretta meditando e smarrendosi, conti­nuò a fumare anche quando il fuoco giunse a bruciare il filtro facendolo tossire con­vul­sa­mente. Dormì male quella notte.

 

- Un nuovo dolce? E' di nuovo domenica?

- No, - aveva risposto la ragazza mantenendo il viso severo.

- Allora si tratta del pasto del condannato? - cercò di scherzare, ma, in cuor suo, realmente preoccupato.

La ragazza non rispose, stava guardando le assi in­chiodate alla fine­stra. L'ono­revole seguì il suo sguardo e commentò: - Hanno vo­luto to­gliermi an­che quella stri­sciolina di cielo.

Lei pensò che di cielo ne avrebbe avuto a volontà, ma non lo disse e conti­nuò a tacere con la faccia tirata che la rendeva volga­ruc­cia e quasi brutta.

Andò via coi piatti senza salutare. Mitra, nel corri­doio, dietro la porta, can­tic­chiava e al suo passare disse qualcosa di spiritoso cui lei non diede retta.

Ora l'onorevole disponeva di un intero pacchetto di sigarette e aveva ri­preso a fumare con accanimento. Non avveniva niente e le giornate erano in­termina­bili. Che ca­volo faceva la polizia? Cosa fa­ceva il Partito. Quasi quasi era an­data meglio a Giuseppe, sebbene sin che c'è vita c'è speranza.

Fumava nervosamente e di tanto in tanto si sor­pren­deva a pen­sare alla ra­gazza, a quel loro attimo di te­ne­rezza che non aveva avuto se­guito se non nella sua mente: non faceva che ripensarci, a volte spe­rando che riacca­desse. Di ciò si rimproverava, ma trovava fa­cil­mente un'alibi nella condi­zione ano­mala nella quale era venuto a tro­varsi, e che do­veva pure avere una fine.  Forse tutto sarebbe finito presto, ma come sa­rebbe finito? Quando ancora po­teva du­rare tutto que­sto?

Aprirono la porta: c'erano tutti: Baffo, Proto e Mitra. La ra­gazza ve­niva per ul­tima col viso imbron­ciato.

- Onorevole, il tribunale del Popolo l'ha condan­nata a morte, - disse Proto senza complimenti.

Per la prima volta l'onorevole ebbe ve­ramente paura, si sbiancò in volto: - Cosa significa? - gridò con voce strozzata che non gli parve nem­meno la sua. - Di quale po­polo andate cian­ciando? Cosa signi­fica que­sta pagliac­ciata? Non potete... non po­tete farlo...

La ragazza estrasse la pistola e col dito irrigidito sul grilletto gli sca­ricò ad­dosso tutto il caricatore, colpen­dolo al petto, al ventre e al­l'inguine.

Gli altri la guardarono attoniti e si guardarono tra loro pallidi e un po' spa­ven­tati per quello che era ac­ca­duto.

- Perché questa fretta? - chiese Proto.

Negli occhi degli altri c'era la stessa domanda alla quale lei non seppe ri­spon­dere: - Ma se era già de­ciso...- balbettò quasi a volersi scusare, le ve­niva da pian­gere.

Baffo sparò contro la tempia dell'uomo ormai alla fine, il colpo di gra­zia: - Nel nostro lavoro, - disse - non bi­sogna lasciarsi pigliare la mano dai nervi o dalle emo­zioni. Sei nervosa, Carla. Hai bisogno di ri­poso.

Uscirono dalla stanza, Proto, Mitra e la ragazza. Per ultimo uscì Baffo con la sua faccia da identikit che non somigliava a nes­suno.

      

 

 
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