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IGNAZIO APOLLONI - DISSERTAZIONI SULLE PROPORZIONI POETICHE

 

 

          Quando ricevetti la lettera, chiusa in una busta con tanto di ceralacca, ero appena ritornato dalla foresta Amazzonica là spedito per fare delle ricerche per conto di Giorgio Celli sulle locali formiche operaie. Ne avevo ascoltato le lezioni in stato di estasi molto prossima alla venerazione. Le sue teorie da etologo (qualcuno dei suoi colleghi le qualificava piuttosto da entomologo) mi affascinavano, mi facevano persino venire il prurito: nel senso di prima o poi eguaglierò la sua bravura. Non mi parve perciò vero essere candidato dal Senato accademico alla sua successione avessi detto qualcosa di nuovo nel campo dell’adattamento all’ambiente di alcuni animali (come ad esempio i pappagalli) posti di fronte al dilemma: o mi mangio le piante e le foglie degli alberi dell’Amazzonia (ad esempio) o finiremo col fare da pasto per i suoi abitanti, ovviamente tutti indigeni.
          Fu così che tra i possibili esemplari io e il Celli potemmo scegliere. Invece che quelli di grossa taglia ci indirizzammo verso gli insetti, perché sempre appartenenti al mondo animale sono. Stante che tra questi c’erano delle strane formiche il cui comportamento era assimilabile a quello delle api nostrane decidemmo lì per lì di procedere a uno studio comparato tra le due specie. Che partissi intanto io. Lui mi avrebbe seguito dopo qualche mese. Trascorso il secondo anno non ne potei più di carne cruda; verdura nauseabonda, almeno al nostro palato; uova di piccione (perché le galline che avevo portato con me erano morte di dissenteria a causa dell’acqua stagnante – quella degli stagni – e altresì puteolente). Mi imbarcai alla prima occasione buona su una piroga; mi lasciai trascinare dalle acque piovane e dai tanti affluenti che convergevano sul Rio delle Amazzoni finché non giunsi nell’Oceano. Da lì il passo successivo mi vide a bordo di una petroliera a studiare cimici e pulci e tentare di indovinare cosa potesse debellarle. Manco a dirlo il cargo batteva bandiera nera e con stemma il cranio e due tibie.
          Sono dunque tornato al mio nido e sto stendendo il mio saggio, mentre catalogo foglie ed insetti tra i più diversi ma con prevalenza specie e sottospecie di formiche operaie. Tutto potrei immaginare – stante che ho interrotto le comunicazioni con il resto del mondo – che sentire un portalettere bussare e vedermi consegnare la busta di cui sopra. In un primo momento penso di buttarla via senza nemmeno aprirla (potrebbe distrarmi), poi però cedo alla curiosità: perché la ceralacca e perché quell’ossequioso indirizzo che recita “All’esimio Ignazio Apolloni”. Che mi abbiano scambiato per qualcun altro? Come che sia (non male il perenne come che sia) strappo la linguetta della busta; ci infilo dentro due dita come farebbe uno schizzinoso; tiro fuori la lettera; la leggo e per poco non casco per terra come una pera cotta. Chi mi invita è un certo Bruno Francisci (ma chi gli avrà detto chi sono, ed esperto di cosa); dovrei presenziare, anzi tenere la prolusione, per dare credibilità alla Rassegna dell’esoeditoria italiana che si terrà a Trento, Palazzo dell’Università, facoltà di sociologia dal 30 ottobre al 4 novembre 1971. Se accetto riceverò il biglietto di andata e ritorno in Wagon-Lit; consumerò i pasti nel Wagon-Restaurant; alla stazione di arrivo troverò due sherpa per i bagagli e fors’anche un elefante munito di cuccetta sul dorso e scaletta. È pure previsto un compenso di mille franchi svizzeri al giorno (non male neanche i franchi: molto diversi per fortuna dai franchi tiratori che non potranno non esserci e che infatti ci furono al momento della votazione sulla mozione finale). Cosa avreste fatto voi che non feci io? Misi da parte l’essay al quale stavo lavorando. Presi il primo treno in partenza, non rendendomi conto che mancano ancora sette giorni all’inaugurazione della rassegna e all’inevitabile convegno sul cosa e sul come. Giocoforza dovetti scendere a Bologna in attesa degli eventi. Tanto per non sciupare il tempo a disposizione vado a incontrare il mio professore, il Giorgio Celli, già autore de Il pesce gotico edito da Geiger. Fu prodigo di elogi e di consigli; si scusò di non essere venuto in Amazzonia; promise che non sarebbe mancato a Trento e avrebbe pure preso la parola. Non fu però di parola. Negli atti infatti non si parla di lui.
          Approfittai della sosta a Bologna per andare a trovare anche Roberto Roversi: uno degli invitati di spicco con Le descrizioni in atto (il ciclostilato in proprio di cui volle darmi una copia). Andammo insieme a pranzo a due passi dalla Torre degli Asinelli e mangiammo di gusto: io tortellini e zampone (all’epoca avevo ancora una fame da lupi: non si dimentichi infatti che nella foresta amazzonica o si mangia carne cruda oppure si ricorre ad anguille e capitoni di acqua dolce – e anche un po’ insalubre tanto da avere ospitato in più occasioni delle tenie lunghe quanto pitoni); lui si accontentò di un brodino di pollo e per bevanda finale il tamarindo. Tra una portata e l’altra ci furono serviti stuzzichini i quali chiaramente stuzzicarono la verve di Roversi. Disse di credere nell’esoeditoria, e intanto mi recita uno o più versi suoi, intervallati da un passo tratto da Gli sguardi i fatti e Senhal di Andrea Zanzotto. Si lasciò andare a un entusiastico commento sulla produzione del Laboratorio delle Arti per quindi passare ad altro.
          Sarà perché avevamo bevuto del lambrusco abbondante; sarà perché lo zampone mi risultò subito pesante smisi di prestargli attenzione per concentrarmi sulle cose fino a quel momento ascoltate e particolarmente sull’elencazione fatta delle opere edite dal già detto laboratorio sotto la direzione di un certo Domenico Cara. Poiché non avevo sentito parlare fin qui di laboratori che non fossero quelli di pasticceria o di riparazione di orologi guasti, feci qualche timida domanda sull’argomento per passare subito dopo al Cara. Sembrerà strano ma il Roversi era informato più di Google e Wikipedia messi insieme e quindi comincia a snocciolare titoli e copie stampate sia dei volumi di poesia e sia delle altre pubblicazioni edite da quel poeta. Ricordo che fece i nomi di Marilla Battilana quale autrice di Venezia sfondo e simbolo nella narrativa di Henry James con prefazione di Claudio Gorlier ma più di tutto mi impressionò la menzione de Le proporzioni poetiche dello stesso Cara. Che saranno mai le proporzioni, e per di più applicate alla poesia? Vengo a domandarmi. Sono infatti digiuno di simili cose. Bisognerà che ad ogni modo me lo faccia spiegare da lui stesso, dovesse essere a Trento. Non fu presente, purtroppo, ed ancora mi domando cosa possano essere quelle cose là.
          Alla giornata passata col Roversi ne seguirono altre sei tra Bologna e campagna emiliana. Mentalmente presi da subito a formulare un giudizio di valore sull’esoeditoria e su ciò che sarebbe rimasto dopo la ventata in atto (non a caso proprio il nostro poeta bolognese, proprietario della Libreria Antiquaria più famosa fino ad allora e tuttora, aveva scritto il bel poema dal titolo Le descrizioni in atto!). Di tanto in tanto mi sedevo sul ciglio di una strada (di collina) o sul bordo di un marciapiede (di città) e prendevo appunti vuoi diretti all’esaltazione del fenomeno e vuoi a neutralizzarne gli effetti per evitare le inevitabili delusioni. Frattanto mi andavo domandando chi diavolo fossero gli altri invitati e cosa di monumentale avrebbero portato da esporre. Finché giunse il momento fatale. Prendo la Freccia Rossa, il treno ad alta velocità che in meno di un’ora mi porta a Milano. Da lì il passo è breve. Puntualmente alle 15 del 30 ottobre sono al microfono. Superfluo dire degli applausi scroscianti.
          Mi vennero incontro e mi strinsero la mano Giancarlo Ferretti e Francesco Leonetti. Sulla guancia mi baciò Adriano Spatola, pungendomi con la sua barba ispida. Ricevetti pacche sulla spalla sinistra – vietato usare la destra – da Barberi Squarotti, Manescalchi, Pedullà e Zagarrio. Passammo infine, dopo i successivi convenevoli che evito di elencare, alla rassegna delle opere in mostra. Dovessi dire, ma non mi pare corretto, quali mi abbiamo impressionato di più, le indicherei nelle pubblicazioni sotto la sigla di Tèchne di Eugenio Miccini e nel già detto Geiger. A cose fatte feci man bassa di tutto.
          Adesso mi fregio di essere il collezionista di esoeditoria più ricco di testi e sapienza anche perché ho tutti i numeri (e vi prego di credere che non sto dando i numeri) di Ana Etcetera di Martino Oberto. Un solo cruccio comunque, non mi lascia, riempie di incubi i miei sogni: “Che saranno Le proporzioni poetiche”? Non saprei, non so, almeno fino ad ora. Spero solo che incontrando il loro autore possa ricevere le interpretazioni del caso necessarie a eliminare del tutto il mio rovello.


Ignazio Apolloni

 

 
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