Circa un quarto di secolo fa, scavando nelle rovine di Troia – non visto ovviamente perché altrimenti mi avrebbero preso per un tombarolo, arrestato, condannato e quindi infilato a mo’ di penitenza dentro una delle tombe degli atridi sopravvissuti all’incendio della mitica città – mi sono imbattuto in un libro apparentemente prezioso. Non era di carta di papiro (sarebbe stato databile); non era nemmeno di foglie di fico (facile farlo risalire all’età del bronzo, quando cioè il fico abbondava, dalle pianure del Tigri a quelle dell’Eufrate fino a toccare le sponde del Mar Nero). Capii subito come dovesse trattarsi di una reliquia, una sorta di oggetto sacro finito dalle parti di Troia e quindi introdotto nella roccaforte della capitale di Priamo dagli Achei per mezzo dello stratagemma di Ulisse. Per farla breve mi impadronii di tutti quei fogli in forma di libro, alcuni tarlati ma tutti impregnati di poesia fino al collo. E quindi a rotta di collo raggiunsi la stazione più vicina, salii sul primo treno a carbone (si immagini la puzza da anidride solforosa), continuai a tenere nascosto nella giberna il rarissimo volume temendo l’aggressione di uno o più dei quaranta ladroni che in quel momento stavano viaggiando pure loro. Giunto a destinazione, la città di Mantova (nel dialetto locale Mantua), tirai il classico sospiro di sollievo: potevo finalmente darmi a una serena lettura. La cosa fu immediatamente allietata da una serenata che un innamorato stava dedicando alla sua innamorata. Io intanto mi diletto, sfoglio le pagine del libro ed intanto sorseggio nel bar in cui mi trovo un caffè bollente al punto da scottarmi le labbra. Dovetti ricorrere alle cure del caso correndo in farmacia per comprare un lenitivo. Il lenitivo più potente tuttavia mi venne offerto dalla lettura delle poesie contenute nel prezioso tomo. L’autore? (scritto a piè di pagina, dopo ogni pagina con tanto di autografia da non lasciare dubbi) un certo Gilberto Finzi (tradotto dall’aramaico). Però! mi dico subito. E giù ad immergermi in senso metaforico prima fino alla caviglia (nel Mar Morto, come successe a Pietro al seguito del Messia), e passo dopo passo fino all’apertura nasale tant’è che manca poco e mi sento soffocare. Di cosa parlano, cosa dicono queste poesie? Mica della guerra di Troia o di Eurialo e Niso (quand’ancora non era peccato accennare a una forte amicizia tra persone dello stesso sesso); e neppure della travagliata traversata di Ulisse alla ricerca di Nausicaa. No! proprio no! Ne era passato di tempo da allora, scrive lo stesso autore nell’esergo. Aggiunge nel corso della prefazione (firma illeggibile ma dovrebbe essere sua vista l’intonazione che se ne ricava e pressocché simile allo stile delle composizioni poetiche) che potremmo trovarci indifferentemente nell’anno Mille oppure Milleduecento. Sono infatti ancora evidenti gli effetti della minacciata fine del mondo e la configurazione dello spazio in cui è ambientata la vicenda narrata costituita essenzialmente da gironi. Ci rifletto, ci penso su. Poi mi ricordo che io un certo Finzi (non quello dei Finzi Contini e neanche un tale di nome Alessandro) l’ho conosciuto, ne ho apprezzato la verve, ne ho ammirato la sapienza stilistica allorché per L’Immaginazione ebbe a scrivere la recensione di un romanzo davvero strano, fuori dalle righe, lontano nel tempo e nello spazio dai giorni nostri. Se ben ricordo aveva per titolo Gilberte. Guardo ancora più in profondità nel mio io (ovvio come non sia facile guardare nell’io degli altri) e vedo più chiaro. Leggo che assieme a Giuliano Gramigna e Gio Ferri dirige la rivista Testuale (poesia allo stato puro). Faccio dunque un sobbalzo; per poco non sfondo il tetto; epperò il soffitto resta ampiamente danneggiato. Più di tutto ci rimette il mio cranio al punto che da allora – siamo negli anni ’80 di non so più quale secolo – sono costretto a coprirlo di bende e talvolta tenerlo nascosto per intero dentro un casco integrale: con i problemi connessi allorquando finisco in una qualsiasi zona in cui sia stata perpetrata una rapina di gioielli; ma potrebbe trattarsi di merce diversa, tanto non fa differenza. Io a questo punto non reggo alla tentazione di mettermi in contatto col poeta ritrovato, simile a coloro che sempre più arricchiscono il mio immaginario. Ne ho conosciuti, mi sono sentito ogni giorno più ricco. Manca poco e divengo più ricco di Creso o di un nababbo di media grandezza. Non parliamo poi di uno sceicco proprietario di un pozzo petrolifero e perciò con un pozzo di dollari in banca. Basta pungere la superficie del suo suolo e zampilla una massa scura, una mota, una fanghiglia. Prova a raffinarla e vedi gli ottani! Insomma chiedo di qua, chiedo di là e finalmente lo scovo in una casetta che gli fa da covo, nel senso che sta sempre lì a covare poesie come fossero uova. Qualcuno mi aveva detto che a Milano c’è una certa libreria-galleria dal nome davvero intrigante. Cerco di sapere il significato di quel Tikkun e manco a dirlo è proprio lui, il Gilberto Finzi, a spiegarmelo. Resto come abbagliato, affascinato, prono come fossi al cospetto di una meteora che mi indichi la strada per Gerusalemme. La prima tentazione è quella di saltarle sopra per arrivare prima di altri; poi mi ricordo che la coda è di ghiaccio mentre la frizione del nucleo contro l’atmosfera (e poi dicono che lassù c’è il vuoto) fa salire la temperatura, e di molto. Scelgo conseguentemente la via più semplice: salirò sul vettore costituito dalla voce che si propaga nell’aria, spinta dalla velocità della luce, allorquando si passa al telefono senza fili. Il risultato è scontato. All’altro capo del mondo mi risponde Gilberto, si dichiara disposto a venire a parlare di quel romanzo al Tikkun; che abbia però un po’ di pazienza perché siamo in prossimità della festività ebraica Yom Kippur. Ad ogni modo: perché non invitare anche Gio Ferri e Giuliano Gramigna? Il lettore a questo punto si starà domandando che fine abbia fatto il manoscritto in aramaico da me trovato tra le rovine di Troia e del quale non si era accorto lo Schielimann; e in verità se lo sta chiedendo lo stesso Finzi (ciò è quanto mi sta sussurrando all’orecchio). “Non sarà” mi dice “che hai le traveggole; che soffri di allucinazioni e pertanto quello che hai in mano è La ventura poetica 1953-2000, edito da Federico Motta, magari sgualcito e perciò di difficile decifrazione”? Me ne ho a male! Ma per chi mi ha preso? Sa o non sa che so distinguere la lana dalla seta cosicché non posso sbagliare: quello che ho in mano è proprio un testo in aramaico (ciò desumo, benché né conosca quella lingua né quella dei fenici o degli ittiti)? Se non mi crede che provi a sfidarmi in una pubblica lettura, una tenzone: io a leggere le sue poesie, lui un brano della Divina Commedia o una qualche lirica del Petrarca. Succederebbe inevitabilmente che io sarei capace di capire ciò che lui declama; lui resterebbe quantomeno interdetto nell’ascoltare me. Volle comunque provarci, il Finzi. Accettò la sfida. Ci esibimmo al Central Park di New York davanti a quasi duecentomila persone. L’ebbe vinta però lui ricevendo acclamazioni da stadio mentre a me toccarono i fischi. Successe che al momento di salire sul podio gli inservienti ci scambiarono i testi – non so quanto deliberatamente, i malevoli lo pensano. A lui diedero il suo, a me rimase l’aramaico. Ovvio che quelli emessi da me furono suoni gutturali mentre La ventura fu tutta una cantata, una melodia, musica sublime per le mie orecchie e per quelle del pubblico. Ci lasciammo la sera stessa. Per la vergogna non l’ho più cercato. Leggo comunque di tanto in tanto gli enormi successi del Finzi come poeta, narratore, saggista, traduttore e conduttore della rivista Testuale – rallegrandomi naturalmente. Ho imparato frattanto ad amarne la statura e ad apprezzarne i risultati estetici e poetici. Tanto basta, non riuscendo ad andare più oltre perché potrebbe risentirsi. Ma male sarebbe stato non rivelargli la scoperta fatta a Troia della summa della sua vita come poeta con il ritrovamento di un testo in aramaico.
Ignazio Apolloni
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