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SINFONIA  PER  CONCHIGLIA

PROLOGO

Da quali lontananze giungeva

la conchiglia

che dal suo fondo faceva parlare il tempo?

Sembrava mirare essa stessa quelle lontananze.

 

A lui era parso di scorgerle

nella roccia fluida di fuoco, nel magma

che cela i primordi, nell’acqua pietrificata

ai primi geli…

 

Un misterioso vento solare accendeva

la notte di aurore su una terra ossidata

di giallo primordiale. E al sommo il magma

inquieto di un vulcano.

Scogli levigati dall’acqua o creature del mare?

Un fiume carsico di fuoco risalendo da lastre

di basalto modellava il cuore della roccia.

Sulla battigia affreschi cesellati di pioggia,

effervescenze di bolle pulviscolari, pulsare di vita.

In alto, volteggiare d’albatri e gabbiani.

 

Dal tuo abisso di silenzio non riplasmi il mondo

al suono di conchiglia, sul modello di fascini ancestrali.

Appartieni all’universo che si espande e muta

tra Storia e Eternità.

Eppure a tutt’oggi latita l’oscura materia

del mistero, il segreto dell’origine.

   

UN VOLTO REMOTO DI PATRIARCA

La tua barba nazarena

oggi è  volto remoto di patriarca.

Ti vorrei in queste lande del cuore,

a illuminarle di senso e di amore;

nel mio deserto, rosa nascosta

di Atacama.

 

Ti vedo venirmi incontro dal fondo

deserto di una strada o dalla spiaggia

ampia del Braccetto,*

inerpicarti su dune di agavi

e ginepri, a interrogare il tempo

del mondo dal fondo di un fossile

di conchiglia…

 

Dialogavi coi fruscii delle acacie,

imitavi gli strilli dei gabbiani

nascosto tra cespugli di ginestre

o incidevi agavi spinose

per saggiarne il calore della linfa;

e apparivi e disparivi

negli spazi nascosti e illuminati,

tuoi come quelli del tempo e della mente.

 

* Braccetto, o Punta Braccetto: località di mare, sulla costa sud-orientale iblea

SINFONIA  PER  CONCHIGLIA

Il ragazzo del bosco e del mare

e delle dune,

il ragazzo dal passo lieve e lesto

si  smarriva negli interminati

spazi muti

e un giorno, scorgendo ( affiorava dalla

rena, dal fianco di una duna ) un giorno

scorgendo e su di essa chinandosi d’un

colpo la estrasse dalla rena,

dal fianco della duna,

una conchiglia,

ruvida, ributtata dal mare,

figlia della pietra


( la conchiglia di Alceo? ), intarsiata

di fili di licheni e sibilante

al vento.

Vi si perse a mirarla rigirando

tra le mani la spirale del guscio,

il bianco calcare marino che

odorava di salsedine

e di abissi.

Dagli infiniti capillari contò

il tempo e rivide epoche lontane.

Con dolcezza carezzò il bianco smalto

incrostato: intarsi invisibili di

fili che si perdevano nei meandri

a spirale del fossile. Lo accostò

al chiuso orecchio ( una sfida

Inconscia alla sua sorda sorte? )…


Una musica intima al linguaggio alla

parola si apriva e disvolgeva in

una traducibilità complice

compatibile all’orecchio per natura,

ad altro, sordo.

Un pensiero nuovo lo invase

e proseguì a dilatarsi

nelle cose intorno: penetrò

come metastasi le molecole

dell’aria e di ogni creatura.

Un pensiero-nebulosa bramoso

si dilatava verso plaghe

lontane di arcane conoscenze.


Dal vuoto del fondo di conchiglia

- apparente non essere-

si dispiegavano energie di energie,

si strutturavano per verba a lui

solo chiare e in immagini di mondo,

di ere trascorse e future, di eventi

accaduti e da accadere.

Sapeva di gioie e di dolori,

di pene vissute o da vivere: gli

sembrò di coglierne il pianto

nelle lacrime di pioggia,

il soffrire nel grigio di nuvole

e nei lampi.

Nei fulmini lo schianto di creatura

che soccombe serrando gli occhi al cielo

al mondo al giorno.

Altre volte esultava se captava

la gioia o l’essere fraterno

nel volo nel canto degli uccelli,

nella brezza del cielo mattutino,

nel colore d’un fiore

assetato di rugiada,

nel chiaroazzurro mutevole

di limpidi ruscelli;

e anche il vento e l’acqua

pulsarono nel suono di conchiglia.

Visse quasi stregato da tattili

percezioni della vita.

Una musica innamorante,

una malìa di note superne

e infere, gli dava un presentimento

di fine, un languore di appressamento

ma un più tenace sentimento d’amore.

Associazioni sensoriali

liberate dalle note o dal lungo

suono di un canto, da una nenia prima

lontana, che lentamente s’appressa.

Un segreto coesistere

di amore e morte nel linguaggio

cifrato di misteriose

metafore di vita.

O l’intuizione smarrita

incerta che dopotutto

amore fosse più morte che vita?

 

 

NON AVEVA PAROLA

 

Lui non aveva scienza per sottrarsi

all’ebbrezza fascinatrice delle

armonie che abitavano il fondo

di conchiglia, pure respingeva

le mistificazioni degli arpeggi

-mormorio di cascate che fluivano-

sin dentro il suo essere.

Anche le piante e gli alberi

cantavano nel vibro delle foglie

lo scorrere del tempo

e i colori delle stagioni

e nel luccichio della rugiada che

si scioglieva in impercettibili ritmi

percussivi, in trilli e vocalizzi e gorgheggi.

Il vento che infilava la conchiglia

non ha flauto né siringa

ma ugualmente lo inebria,

orgiastico, con folate di suoni

improvvise e sferzanti. Freme

per inaspettati incontri.

Quella musica era parola

che parlava alla mente: sentiva

crescere in se la coscienza

della vita.

Quella conchiglia gli fu maestra e madre.

I suoi boschi erano lontani dal mondo

degli uomini, tra il mare e i monti.

Il ragazzo dei boschi non aveva

parola, sarebbe stato una presenza

scordata

tra gli uomini o malaccordata,

così apprendeva dalla conchiglia

la metafisica della musica,

comprendeva i messaggi dell’oltremondo,

viveva in tanto incantamento.

 

Musica inespressa, non sonora,

anteriore al suo stesso creatore

e alla prima corda vibrante.

Ma il suo orecchio ne percepiva l’onda

sonora, di musica intelligibile.

Eccitava, l’ineffabile mistero

musicale, la sua vitalità, lo spingeva

a un cammino insondabile, al mistero

dell’amore. Mistero di Dio

nelle profondità trasparenti

eppure dense di sensi ambigui

al di là delle tenebra cieca

della notte, al di là del silenzio.

Come un mormorio di profeti

nel vibrare di foglie,

nella nota incredibile della notte.

Quale segreto

nella musica notturna?

Dei suoni indicibili egli coglieva

lo charme e ne intendeva la labilità.

Pensava a qualcosa di fragile, che

può esserci e non esserci,

che c’era e non c’è. Né tornerà.

Un amore. Un’immagine cara. Una persona.

Un figlio.

Perciò viveva la caducità

nella malinconia e nella tristezza.

Inquieto si apriva alla saggezza,

alla visione effimera del giorno,

al vivere acquietante della vita.

 

Il tempo si sfoltiva

si stilizzava lieve

come un’aurora o il volo

di una gru o un’aquila reale.

Si sentiva abbagliato

dalla vita epperò tutto restava

incerto come un progetto irrisolto.

Gli sembrava  di scorgere

l’ Assoluto -  abbaglio di epifanie - nei

suoni che lo rapivano e subito

lo abbandonavano all’immanenza.

 

Tra metafisico e metaforico

il silenzio

esprimeva nel concerto di suoni

la parola,

una parola

che desidera e che vuole e che soffre;

che ha luce e colore e amore.

Parole

che sperano, che sognano,

che lasciano intravedere.

Parole

che si disperano,

si dispiegano in altre

parole,

in altre valenze semantiche:

nei sensi nascosti nei significati

profondi dell’essere e del morire.

Dell’essere – nel – morire.

Parole

profonde, nascoste

nelle pieghe dell’allegoria.

La Parola il Verbo il Logos.

Scopriva gioia e dolori lontani

poggiando l’orecchio alla

conchiglia,

esponendosi all’attraversamento

delle armonie che gli giungevano dal

tempo che lo precedette.

Un’epoca dell’amnio? Un’epoca ctonia? Un’epoca galattica?

 

Conosceva le passioni e le gioie  pure,

incontaminate, come in certi

canti purificatori, associando

in sé l’incantesimo all’incanto:

lo sguardo stravolto o quello ispirato

da incanto incantato.

Un’estasi beata apriva la sua

mente al mondo, alla natura:

amava parlare agli alberi

agli animali all’acqua dei ruscelli.

Parlare nell’incantesimo della

conchiglia.

Non temeva il furore delle bestie

né della natura, ma l’indifferenza

sorda dei simili, l’atteggiamento

sufficiente, la condiscendenza

di comodo, la falsa benevolenza.

 

 
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