di Andrea Guastella
Uno nessuno e centomila. Colloquio con Franco Cilia
Ci sono pittori che desiderano essere giudicati per la loro opera, per il risultato finale conseguito. Altri, invece, si circondano di una mitologia che diventa parte integrante del loro lavoro. I primi eliminano dall’arte ogni traccia che conduca alla loro esperienza biografica, mirando al maggior grado possibile di oggettività. Nel caso dei secondi, l’identificazione tra opera e artista è così forte che il senso del loro percorso è incomprensibile senza la conoscenza diretta di dati biografici, di note esplicative. Non si può, ad esempio, interpretare il ciclo pittorico di Franco Cilia “Cilia è morto” senza sapere chi è Cilia, perché è morto, che cos’è per lui la morte … Glielo ho chiesto viso a viso in una lunga, appassionante conversazione nel mio salotto di casa, ripresa poi tra le pareti affollate di quadri del suo studio di Via San Vito 44, nel centro di Ragusa, dimora cui l’artista ha tra l’altro dedicato un suo racconto. Franco Cilia non è infatti solo un raro caso di autodidatta in pittura riuscito a scalare le vette della notorietà internazionale. È anche uno scrittore, un sensitivo e un attore dalla voce profonda e tenebrosa. Una voce che la pagina scritta non può rendere, ma di cui è percepibile il calore.
“Il romanticismo è figlio del Nord, e il Nord è colorista; i sogni e gli incantesimi sono creature delle brume. L’Inghilterra, che è la patria dei colori più accessi, le Fiandre, una metà della Francia, sono immerse nelle nebbie; la stessa Venezia affonda nella laguna. E i pittori spagnoli, poi, sono più pittori di contrasti che coloristi. In compenso il Mezzogiorno è naturalista, perché quivi la natura è così bella e luminosa che l’uomo, non avendo nulla da desiderare, non trova niente di più bello da inventare al di fuori di quello che vede: qui l’arte sotto la luce del sole, qualche centinaio di leghe più a nord i sogni profondi nel chiuso del laboratorio e l’occhio della fantasia sperduto nei grigi orizzonti”. Mi soffermo su questa geografia degli stili sfuggita dalla penna di Baudelaire perché quanto egli scrive sul naturalismo, sulla vivida luce del Sud si addice bene alla tua pittura. Il fatto è che lo stesso vale per i suoi accenni al romanticismo, ai sogni fiammeggianti e ai languidi incantesimi di un Turner o di un Nolde …
Siamo siciliani, e la nostra isola è da sempre un crocevia di tradizioni. Una sorta di Giano bifronte, che ti consente di mettere a fuoco il lato notturno e quello solare del paesaggio e dell’anima. Pensa, per quanto riguarda l’architettura, all’innesto di elementi normanni sulle forme degli arabi, e allo stile originalissimo che ne è derivato. Ti lascia ancora sorpreso il matrimonio tra sogno e naturalismo, luce meridiana e orizzonti fantastici della mia pittura?
Questo rapporto tra fonti d’ispirazione diverse ma complementari mi fa pensare al rapporto tra esperienza biografica e avventura creativa, tra opera e vita.
È un discorso complesso, che vorrei affrontare senza cercare di darti comode e concordate risposte. Per me la pittura è un corpo a corpo con la vita, a cui affido quello che sono, senza mascheramenti o finzioni. Tu sai che sono riuscito a piegare a mio favore un destino già scritto, che mi voleva ai margini della cultura. Gibran, il libanese, in un suo libro mi ricorda che la cosa più triste che possa capitare a un ragazzo è il sentirsi portato a svolgere attività creative pur nascendo nella famiglia sbagliata, in un ambiente sbagliato, che gli impediranno di vivere le cose per cui è nato. Non voglio scomodare i padri della psicologia, ma certamente il lato oscuro dell’infanzia, se si è sinceri nell’arte, è difficile da nascondere. Ecco da dove hanno origine i miei mostri degli anni Sessanta e Settanta.
C’erano anche dei Generali: un riferimento a una figura paterna autoritaria e ingombrante?
No, nessun riferimento, solo un’indagine spietata sulla condizione dell’uomo di ieri e di oggi. Cito a memoria il compianto Mario Luzi: “E che cosa c’è dietro queste maschere nauseanti di Cilia, l’uomo o la sua sparizione, la sofferenza o la perdita di ogni sofferenza in tutta l’umanità?”. Erano, quei generali, lo specchio fedele della difficoltà a comunicare in un mondo che neppure internet e la globalizzazione sono riusciti, col tempo, a modificare. Quanto alla figura paterna, la ricordo con dolcezza. Era un contadino che aveva avuto in sorte un figlio di cui andava orgoglioso, malgrado non ne comprendesse fino in fondo i bisogni.
Quali bisogni?
Il mio diritto alla conoscenza. Sono venuto alla luce in un’epoca stanca, in una Sicilia stanca, e non di sole solitudini. L’arretratezza economica che toccava alcuni segmenti della società era spaventosa. E quando si ha la pancia vuota non si pensa a nutrire lo spirito.
Eppure la tua è sempre stata una pittura colta, carica di simboli e di citazioni. Come è avvenuta la tua formazione?
Parlando del mio passato, è come se mi inoltrassi nel racconto di un’altra persona. Quello che è mi accaduto ha dell’incredibile. Mentre altri fortunati potevano studiare, a me era precluso. Finite le scuole elementari, per un decennio non ho fatto altro che ascoltare di giorno il respiro del lavoro manuale, pesante e indicibile nella sua durezza, mentre la notte i libri erano i miei compagni più fidati. Ma alla fine di quel decennio, misurandomi con chi aveva seguito un percorso scolastico regolare, il vincente ero io. E lo dico senza falsa modestia.
Lo credo bene. Spiegami, però: hai fatto tutto da solo o qualcuno ti ha aiutato?
Di sicuro Qualcuno, per vie misteriose, chiamiamole pure esoteriche, ha saputo guidarmi nel difficile cammino della sapienza. A che tipo di esperienza ti riferisci? (Un lungo silenzio precede la risposta) Se ti parlo di medianità, molti diranno o che sto barando, o che voglio fare il misterioso. Eppure il mio maestro Federico Zeri, rispondendo a una mia domanda analoga alla tua, affermò che la stessa Divina Commedia è il risultato di una sensitività superiore. Quando sostengo che la mia vita ha dell’incredibile, mi riferisco a questo: non appena presi per la prima volta i pennelli in mano, non avevo bisogno di imparare, sapevo già tutto.
Il dipingere consta di una serie di gesti materiali, che richiedono mestiere. Una volta, per conoscere i rudimenti dell’arte, i pittori andavano a bottega; non mi dirai di aver appreso anche questi per corrispondenza medianica!
Spargere i colori sulla tela è stata per me, da subito, un’azione estremamente naturale. I miei primi tentativi risalgono all’infanzia. Immagina un ragazzo di dieci anni o giù di lì che, munito di carbone e di pezzi di cartone, entra nel Duomo di San Giorgio, a Ragusa Ibla, e, affascinato dalla potenza delle pale d’altare, cerca di ricopiarle. Il vecchio sacrestano, osservandomi, borbottava: “Questo ragazzo ha i diavoli in corpo”. Per spiegare a se stesso, si capisce, la mia innata abilità. Altri modelli furono i vecchi che, appoggiati ai loro bastoni, dormivano sonni tranquilli sulle panchine dei Giardini Iblei. Se poi, giustamente, questi trascorsi ti sembrano lontani dalla pittura come militanza e come professione, ricordo che sin dalla prima volta che partecipai a un’estemporanea – credo fosse il 1968 – ho vinto un premio speciale. Come è possibile? Non saprei dirti, davvero.
Proviamo allora a seguire un andamento cronologico. Quali sono stati i tuoi primi soggetti?
Inizio dipingendo e scolpendo le ossa della terra siciliana, le mie pietre antropomorfe.
Qualcosa del genere, se non sbaglio, l’aveva fatta Fiume.
Sì, era andato in Africa. E aveva iniziato a trasferire sulle rocce i medesimi soggetti dei suoi quadri, dalle isole alla De Chirico, con l’asino al posto del manichino, alle battaglie alla maniera di Paolo Uccello. Io sono partito dallo stesso punto da cui era partito lui, non da quello cui lui era giunto. Dei classici, Fiume aveva infatti scelto di riprodurre il lato più facile …
… o il più decorativo.
Esattamente. Pensa alle molte serigrafie di donne somale, che hanno contribuito al suo successo commerciale, ma anche al ridimensionamento del suo valore artistico. A me, invece, interessava il mistero, l’umana vitalità della pietra. Se ne accorse il poeta Giorgio Caproni, di passaggio a Ragusa per il premio Vann’Antò che, visitando una mia esposizione di sculture ai Giardini Iblei, esclamò: “Sono una pietra anch’io”. A guardarle bene, queste pietre, nascondevano delle forme bellissime, che una natura matrigna non aveva portato a compimento. Rievoco un altro episodio dal passato. Quando ero piccolo, abitavamo in un basso in Vico Chiasso La Cetra 3, a Ibla. I muri anneriti dal fumo del forno per gli altri erano semplicemente coperti di macchie oscure. Io, in quelle macchie, scorgevo invece delle figure, frantumavo la barriera dell’apparenza per cogliere la sostanza delle cose. Lo stesso può dirsi delle mie pietre antropomorfe. Da giovane, recandomi al Prado, riconobbi i profili che avevo ritrovato nella roccia nei Capricci di Goya.
Di Goya parleremo più in là. A parte le pietre, mi pare che il tuo sguardo si sia posato assai spesso sulle donne, sulla bellezza femminile …
Sì, sebbene non sempre nello stesso modo. Nelle mie opere degli anni Sessanta la donna è collocata alle spalle del mostro, della maschera senza volto, dell’uomo vuoto che non comunica. Col passare del tempo, il mostro arretra e la donna avanza. Questo perché avevo vinto la mia battaglia coi fantasmi del passato e potevo guardare in faccia la vita senza infingimenti né paure.
Nella donna che guadagna il primo piano possiamo anche trovare un’anticipazione della fortuna femminile a cavallo del nuovo millennio, che ha visto una donna diventare cancelliere di Germania, un’altra paladina dei pakistani, un’altra ancora gareggiare per le presidenziali Usa, per non parlare di Madre Teresa e Lady D …
Ti faccio un esempio un po’ banale ma che mi sembra illuminante. Sotto sotto, la donna ha sempre comandato. Anche nella nostra società apparentemente patriarcale. Se un figlio si comporta male, la madre dice: “Stasera, quando viene tuo padre, ti faccio punire”.
In questo modo le apparenze sono salve. Oggi si ricorre sempre meno a certe “coperture”.
Hai ragione. Ma, tornando al femminile nella mia pittura, avevo scelto la donna come immagine del bene. Negli anni Ottanta ogni mio ritratto di donna aveva in mano un libro, la scatola magica della cultura, e lo teneva ben stretto, perché non le venisse strappato dal mostro alle sue spalle, ansioso di impadronirsene per distruggerlo. Ora, io ho portato in giro queste fanciulle in fiore per il mondo, ottenendo il successo anche commerciale che i mostri, pur apprezzati, non mi avevano dato. Un giorno, però, nel mio vecchio studio di Via Ecce Homo 233, ho sentito su di me gli occhi delle maschere del passato. Era come se mi urlassero contro: “Tu ti sei fatto valere nei punti attivi della cultura grazie a noi, che rappresentavamo il lato oscuro della società, quello che nessuno vuol vedere. Adesso che ci hai abbandonato, che ti sei prostituito per vile denaro, non sei più lo stesso. Sei morto”. Da allora in poi, lasciando in un angolo le mie donne in attesa di un loro ritorno, sotto una dettatura inconscia ho iniziato a scrivere su ogni tela “Cilia è morto”.
Frase che riguarda te, ma che in senso lato riguarda l’uomo.
Ho iniziato a rendermene conto in Germania, dove alla galleria Apicella di Colonia presentai la mostra “Cilia ist tot”, Cilia è morto. Erano gli anni Ottanta. Qui la storica dell’arte Christiane Vielhaber mi fece comprendere come ero arrivato al risultato di questa morte annunciata partendo da tra angolature diverse. Intanto, sosteneva, ogni avvio di un ciclo è un po’ morire, quindi la mia morte era una liberazione dal passato per andare oltre. Si chiedeva poi: “Cilia dove è nato?”. In Sicilia. Ma se togliamo alla Sicilia la “S” e la “I” non rimane forse Cilia? Infine, l’artista non è forse di Ragusa, e Ragusa non sorge vicino all’antica Siracusa, dove la Fonte Ciane apre le porte al regno della morte?
Anziché muoverci per facili allusioni, mi soffermerei piuttosto sul come, in questo ciclo, la morte diventi garanzia di vita. Se Cilia è morto, le sue opere vivranno, anzi la loro vita, la loro funzione testimoniale verrà ad alimentarsi della di lui scomparsa.
Ti dirò di più. Quella morte artistica dell’uomo è coincisa con la caduta del muro di Berlino e dell’impero sovietico. La mostra fu esposta anche a Weimar, e in questa città così importante per la storia europea, dove sono tornato il 23 di agosto per una collettiva intitolata Disaster con alcuni mostri evocati dalle ombre del passato, mi resi conto di aver anticipato i tempi. Il mio voltare pagina coincideva infatti con un cambiamento di portata epocale, di cui ancora avvertiamo le conseguenze. Finiva la guerra fredda, confini consolidati da secoli si dissolvevano come nebbia al sole.
È questo il momento in cui ridisegni i confini dell’Europa con una pittura molto fisica, molto gestuale.
Potevo non rimanere coinvolto? Dovevo. Poiché l’artista autentico, come ho già detto, è un tutt’uno con la vita, non sa barare come il mestierante. Se vuoi entrare nei salotti bene basta fare una pittura patinata, servirsi di mercanti compiacenti. Il portafogli si riempie, ma l’anima resta vuota.
Ricordo un grande artista che aveva iniziato la sua carriera come pittore della corte e della nobiltà, ma che un giorno divenne sordo …
Tu parli di Goya, del suo periodo nero, quando si rifugiò nella Quinta del Sordo e iniziò a ricoprirne le pareti coi suoi mostri. Ciò che accadde a Goya è accaduto anche a me.
Sei diventato sordo …
No, ho cercato di dipingere la sordità del mondo. Goya, e io con lui, quando negli anni Settanta ho studiato la sua pittura nera, ha rinunciato a tutti i colori della vita e con le figure tracciate sull’intonaco con le dita e direi quasi col suo sangue ha fondato l’arte moderna. Nato in un’epoca rivoluzionaria, egli ha accettato la sfida, facendo della sua arte una sonda che registra gli abissi del cuore umano. Una sua incisione famosissima ci dice tutto: “Il sonno della ragione genera mostri”. Quando la ragione dorme, i mostri si risvegliano. I miei mostri non fanno che ripetere che la ragione dorme ancora.
Lo hanno gridato quando Comiso è stata sede di testate nucleari.
Sì. A tale riguardo mi viene in mente un convegno sul nucleare organizzato a Ragusa dal Partito Socialista. In quella occasione esponevo una trentina di opere sul tema. Visitando la mia mostra, Baget Bozzo, uno dei relatori, chiese all’uditorio: “Avete visto la mostra di Cilia?”. Tutti risposero in coro: “Certo”. “Siete bugiardi”, riprese. “Voi, in trenta secondi, dite di averla vista tutta, ma non avete visto niente. Io, in mezz’ora, non sono riuscito ad andare oltre i dieci quadri perché il cuore non reggeva”.
Quella volta inseristi nelle tele fogli, ritagli di giornale.
Ho utilizzato quanto il nostro tempo ci offre. Il giornale è la voce della cronaca, ma se accolto e trasfigurato in un quadro, diventa il notaio della storia: dura secoli, e dice quasi sempre la verità.
Come Goya, mi pare.
Goya ha incarnato più di ogni altro l’onestà in arte, soprattutto nei ritratti. Qui la sua analisi era spietata: metteva a nudo ogni debolezza e ogni virtù.
È dunque da Goya che hai appreso l’arte del ritratto, in cui spesso ti cimenti.
Senza di lui non sarei quello che sono adesso.
Senza di lui non ci sarebbero stati né Nolde né Munch …
A proposito di questi e altri artisti che chiami al nostro tavolo, voglio raccontarti un episodio. Tornato da Weimar, vidi sul Corriere della Sera una foto di Federico Zeri; un personaggio difficile, temuto dai pittori moderni, che considerava delle somme nullità. Partendo da quell’immagine, rifeci un pastello coi lineamenti del suo viso e, senza troppe speranze, glielo inviai. Zeri mi rispose con una lettera che conservo tra i cimeli della mia biblioteca. Scriveva che il ritratto gli era piaciuto e che, se volevo, potevo andarlo a trovare nella sua villa a Mentana. Nel tempo, però, non subito. Quel tempo si fece lontano. Si arrivò a un Natale. Su un 10 X 15, un cartoncino, dipinsi un paesaggio ancora legato alla terra iblea, dove un carrubo solitario sembrava reggesse il peso del cielo e, col rovescio del pennello, vergai sul colore ancora fresco la frase: “Auguri, Zeri”. Lui mi chiamò alle sei in punto del mattino. Mi disse: “Caro Cilia, ho ricevuto il suo regalo natalizio. È molto bello. Le do un tema. Mi dipinga dei cieli. Abbassi l’orizzonte più che può, e li colori con quello che ha dentro. E mi raccomando, elimini il carrubo: non serve”. Io mi sentii come un curato di campagna chiamato dal suo vescovo per ricevere un incarico importante. Rinnegai in apparenza tutto quello che ero stato sino ad allora e cercai di giocare la partita tra il cielo e il mare. Dopo aver dipinto una ventina di 30 X 40, partii alla volta di Mentana per incontrare Zeri. Lo trovai circondato da sopraintendenti, giornalisti, gente della televisione. Lui, con negli occhi un balenio di luce terribile, luciferina, mi disse dinnanzi alla corte al gran completo: “Coraggio, mostri quanto ha saputo fare”. Le mie maschere mostruose senza occhi, senza bocca erano diventate paesaggi: le ore del giorno e della notte. I presenti osservarono: “C’è Nolde, c’è Turner!”. Pittori che ovviamente mi erano noti, ma nella cui opera non mi ero mai addentrato. Zeri fissò i miei quadri compiaciuto, come se li avesse fatti lui. Esclamò: “Bravo, continui così”. Poi scrisse un testo, in cui si dichiarava sorpreso della mia capacita di captare albe dorate e tramonti rilucenti come solo l’Oceano ne conosce e diceva che ero approdato a Turner dopo esser passato per Nolde. Incuriosito, corsi a documentarmi, e scoprii che Nolde, pittore tedesco odiato dal nazismo, aveva amato profondamente Goya. Tutto si tiene. E in un quadro di Goya c’è un cielo così bello che diresti l’abbia fatto Turner in persona.
Nei tuoi paesaggi “alla Turner” si materializzano spesso figure allungate che vedono il cielo popolarsi di presenze. Da dove provengono le une e le altre?
Dalla lettura attenta e partecipata della Divina Commedia e delle Rime del grande fiorentino, che ho illustrato per la Casa di Dante a Torre de’ Passeri in Abruzzo, diretta da Corrado Gizzi.
All’ultimo verso delle tre Cantiche della Commedia potrebbero anche ricondursi i tuoi cieli stellati.
Sì. È l’interpretazione più appropriata.
Le ombre, invece, richiamano certe sculture di Giacometti.
Ma anche opere di ignoti scultori dell’Etruria che ho visto a Volterra. Immagini simili a ombre inquiete, che non possiedono più il loro corpo e vagano alla ricerca della perduta integrità. Alcune di queste ombre, sagomate su un foglio di acciaio lucido, verranno presto istallate presso Cava Gonfalone, un’antica miniera di pietra dal cui ventre è nata l’antica Ragusa e che la Sopraintendenza, su progetto di Salvatore Scuto, intende far rivivere.
Non è la prima opera che doni a Ragusa. Penso alla Sfinge di Piazza Vann’Antò.
Amo la mia città. Merita questo e più. Spero inoltre che altre “ombre” possano accompagnare i colori di una pietra antropomorfa – la più grande – alle porte di Ragusa: uno sperone roccioso denominato dai nostri avi A timpa ro nannu che, grazie all’Amministrazione Comunale, sarà dotato di un’illuminazione permanente.
Alla città, e precisamente al Museo della Cattedrale, hai regalato un Crocifisso. Segno di un tuo speciale legame con il sacro?
Sì. Attraverso Velázquez, cui mi sono ispirato, ho imparato cosa significhi, per Dio, soffrire come un uomo. Molti anni fa mi sono confrontato con il mistero della Natività nel mio dramma È ancora natale, rappresentato nella settecentesca chiesa di san Giuseppe a Chiaramonte Gulfi e nella Cattedrale di Clermont de l’Oise, in Normandia, dove sono presente con molti miei lavori.
E che mi dici di Munch. Se ben ricordo hai persino abitato nei suoi luoghi.
Un amico cui debbo molto è Saverio Avveduto, ispicese, sino agli anni Novanta Direttore Generale della Pubblica Istruzione per gli Scambi Culturali. Avveduto mi scelse come ambasciatore della cultura italiana nel mondo, passando per Parigi, Madrid, dove il maggiore quotidiano spagnolo scrisse che Goya si era fermato a Ragusa, Lisbona, Città del Messico, Rio de Janeiro, San Paolo, Istanbul, Copenaghen, Buenos Aires e per tanti altri posti ancora. Uno di questi fu Oslo. Per quindici giorni abitai effettivamente nei luoghi di Munch, ed ebbi modo di assorbire la sua solitudine, il suo paesaggio, la sua luce.
Ne hai dato prova nella tua ultima mostra a Odense, in Danimarca.
Noi tutti abbiamo ricevuto dei doni, di cui dovremo un giorno rendere conto. Io ho ricevuto quello della lingua, la capacità di padroneggiare la lingua degli altri come se la avessi parlata da sempre. Naturalmente parlo del linguaggio della pittura. Per quanto riguarda le lingue straniere, sono un disastro!
Insisto con Munch perché mi pare che nel suo lavoro sia la chiave della compresenza, nella tua pittura, di figura umana, soprattutto femminile, e paesaggio.
Dici una cosa essenziale, che si commenta da sé.
Un altro aspetto che mi piacerebbe approfondire è la contiguità di pittura e scrittura.
È come dipingere con due pennelli diversi. I miei, e credo si capisca, sono i libri di un pittore. E un pittore è il protagonista di Elena, un racconto dove indago la psiche femminile, che uscirà ad ottobre per le Edizioni Prometheus di Milano.
Pirandello, uno scrittore a te molto congeniale, torna spesso sulla relazione tra maschera e persona e sulla vita come rappresentazione, come teatro.
Non ti nascondo che, se non fossi stato chiamato a servire la pittura, avrei recitato. Io non ho fatto corsi di recitazione, ma ho avuto la fortuna di frequentare personaggi come Lydia Alfonsi. Di recente Francesco Rando, dopo avermi chiesto di dare colori all’opera filosofica di Carmelo Ottaviano in una mostra che ha accompagnato due convegni in suo onore, mi ha chiesto di prestargli la mia voce, di misurarmi con attori professionisti per l’incisione di un Compact Disc e di un DVD didattici. Studiando, chissà dove sarei arrivato.
Ma l’assenza di studi regolari può averti arrecato un vantaggio in termini di libertà.
È vero. In un servizio trasmesso di recente su Rai Tre, Nuccio Vara mi ha chiesto: “Come ti definisci?”. Dopo averci pensato su una trentina di secondi, ho risposto: “Un gatto di strada”. Vedi, un gatto casalingo se lo butti in strada muore, un gatto di strada lo uccidi chiudendolo in casa. Credo che una certa “dispersione”, una tendenza ad andare qua e là e a fiutare tutt’intorno sia connaturata al mio carattere.
A cosa è rivolta, la tua pittura di oggi?
Alla musica. A “I colori della musica”, che è anche il titolo della mostra che ho appena inaugurato a Saltum, in Danimarca. La musica è per me l’arte più completa, perché non ha bisogno di parole per essere spiegata e perché ogni volta che la ascolti suscita un’emozione nuova. Il mio sogno è creare un colore che vada oltre gli angusti limiti della cornice e ogni volta che lo guardi si rimescoli da solo.
Zeri ti aveva suggerito di abbassare l’orizzonte. Il passo successivo sarà forse cancellarlo?
No. Contemplando il paesaggio danese ho scoperto il taglio diagonale della tela, ho inserito la spiaggia. E la spiaggia è diventata il luogo in cui la figura femminile di Munch che guarda il mare a cui tu prima accennavi è la cerniera tra finito e infinito, l’essere parziale che si incontra con il tutto.
Il taglio diagonale mi fa pensare all’ombra.
Certo, al lato oscuro.
Ma anche a ciò che dà peso e consistenza. Chi non ha ombra è privo d’anima.
Pirandello è uno dei pochi che hanno saputo scherzare sulla propria ombra e su quella degli altri. Io spero, nel mio piccolo, di fare altrettanto.
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