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MIMMO PALADINI A VILLA PISANI: TESTO DI FRANCO SPENA

 

 

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MIMMO PALADINO A VILLA PISANI


Pensiero e riflessione, anima che si coglie nella scenografia assordante e imponente della fastosità settecentesca di Villa Pisani a Stra, nello splendido paesaggio del Brenta, come “vento d’acqua” che avvolge e odora, sono gli elementi dell’atmosfera dalla quale si è avvolti nel percorso, che non è solo dello sguardo, che Mimmo Paladino mette in opera. In un allestimento nel quale si viene colti da un alternarsi, da un intrecciarsi di storie, che dalla sontuosità dell’impianto scenografico di Villa Pisani, modulano un linguaggio che si fa assenza e distanza metafisica e ancora struggente e intima narrazione, inquietante presenza anche, nel vibrante teatro di un misterioso gioco delle parti nel quale è protagonista l’enigma dell’essere.
O dell’esserci, del trovarsi all’interno di una relazione che azzera il tempo e che diviene fruibile in un’unica soluzione formale, nello steso spazio che diviene opera. Opera altra che si propone ad altre intenzioni di sguardo.
Ci sono opere che, decontestualizzate dal “cubo bianco” della galleria o del museo, perdono gran parte della loro leggibilità e hanno bisogno di diversi adattamenti di visione; altre che, come i personaggi di Paladino, connotano di aura il luogo che, in fondo, potrebbe non essere deputato ad accoglierle, anche se agiscono, in questo caso,  per vie di natura, per il tramite della pietra di Vicenza che è la stessa delle statue settecentesche del parco di Villa Pisani
Certo le opere di Paladino non hanno bisogno di una scena, ma sostanziano l’ambiente con la loro presenza inquieta. I “testimoni”, personaggi quasi monolitici nel loro equilibrio formale, portano con sé i segni di una rappresentazione immaginifica che mette in tensione l’ambiente per le analogie suggerite dagli elementi che li compongono, mettendo in atto una sorta di attraversamento che non è solo dello spazio teatrale, ma appartiene anche a un passaggio inafferrabile del tempo che, in ogni caso, rimane perduto, sospeso nella fissità degli sguardi che dal tempo stesso dichiarano la loro imperturbabile assenza, in un luogo che accentua la loro metafisica e silenziosa presenza.
Simboli essi stessi e contenitori di segni che non richiamano altro ma, enigmaticamente, enunciano romanticamente se stessi - monumentali e immobili -  il loro insondabile porsi al di là della storia, al di là di ogni possibile interpretazione, come le “eliche” nella casa degli agrumi e gli “elmi”, come le dodici “dormienti” rannicchiate sull’acqua della grande fontana, quasi in un fatale sonno amniotico, in un ritorno alla madre. Tutti segni in fondo, lambiti da un “vento d’acqua” che ne enuncia la spaesante, la pensosa solitudine, nell’intervallo barocco senza tempo delle architetture della Villa.
A pensarci, elementi tutti di un vocabolario col quale Mimmo Paladino modula una serie di relazioni, di rimandi, per la costruzione di apparati fortemente evocativi nei quali la suggestione provocata dagli oggetti e dai frammenti rimane sospesa tra mito e storia. Una storia che si presenta come architettura, magico teatro monumentale e barocco, e l’impenetrabile silenzio dei testimoni, metafisici complessi di figure essenziali e articolate, nello stesso tempo, nelle analogie che li compongono. Attraverso anche il recupero di una figurazione evocativa che fa della sintesi lo strumento per mettere in tensione la forma con ciò che la circonda. Le figure attorno alla grande fontana, oltre a costituire un inquietante apparato scenico, fondono contemplazione e assenza, misteriosa distanza e forte presenza scultorea. 
Un mito che, mentre radica nel quotidiano, colorandosi quasi di toni, di accenti domestici, sfuma a volte anche nel dramma. Come nel grande elmo, nella torre e nei grandi scudi in terracotta, dai quali fuoriescono grandi scodelle che sono esse stesse frammenti e contenitori di ulteriori frammenti sospesi in un’archeologia che affonda radici nel mondo caldo dell’antropologia, tra un gesto che le ritrova e i racconti dell’uomo che possono portarsi dietro, attraverso richiami alla che si fanno presente.
“Ogni storia è storia contemporanea” direbbe Benedetto Croce e, nel suo raccordarsi col presente che la evoca, negli scudi si fa intimo narrare di gesti, gesti che cercano, che raccolgono, che dispongono in un silenzio, comunque, che è voce di mistero. Il mistero che segna la frattura e la distanza fra gli oggetti i quali, in ogni caso, sembrano declamare la loro lontananza da una realtà che tuttavia li contiene. Li accoglie forse, fra assonanze e contraddizioni, come segni nello spazio, ma anche come corpi sospesi fra la materia che li compone e la forma che li esprime. Così i fucili sugli scudi, le grucce appendiabiti e gli stessi numeri che, sottratti al loro razionale comporsi, emergono dalla materia, materia essi stessi, opera della  mano e quindi di poesia.
Fondamentalmente Paladino opera una riduzione a segno, sia che si tratti dei “testimoni” attorno alla fontana del parco, sia che si tratti degli oggetti “ritrovati” in terracotta, che nelle forma di scarpe, nell’inferriata delle scale o, ancora, quando riduce gli elementi della sua ricerca a forme geometriche essenziali, quasi plastici pittogrammi, nella spaesante enigmatica  fissità delle sculture nel labirinto di bosso, geometriche presenze enigmatiche, forme archetipali, impenetrabili icone arcane, “guardiani” del labirinto, chiavi indecifrabili per aprire probabili vie di uscita.
In ogni caso  segni sorretti da una geometria intima, una forza che li contiene, quasi una gravità che dona vigore alle forme, nell’impenetrabile compattezza dei “testimoni”, compressi nel loro plastico silenzio, lo stesso che si fa stupore e fa tacere anche la storia nel vigore arcano degli “elmi” e che diviene dramma e solitudine estrema nelle teste sospese tra le “eliche” o divenute sagome fragili nel gesto che le fa anche pittura.

                                                                          FRANCO SPENA

 
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