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CIRO VITIELLO

 


Pietro Terminelli:
del pensiero, delle forme poetiche
di Ciro Vitiello


“Il tempo è un dio che aggiusta / ogni evento”.
 Sofocle, Elettra


Esiste una figura, non rara, di poeta che, in vita, è obbligato a operare all’interno del circuito esoeditoriale pur rappresentando, ben subito, una forma letteraria sovvertitrice dei modelli vigenti. Tale poeta è un intellettuale emarginato ma non marginale; per questo, tuttavia, può godere pienamente del piacere dell’autonomia e della libertà. Il suo profilo di letterato è molto forte, perché impregnato dalla determinata coscienza di costituire un ineludibile deterrente alle illibertà che tanto selvaggiamente (a disdoro del principio roussoiano) l’uomo contemporaneo sta ingenerando. Egli procede con fermezza controcorrente, convinto e sicuro che da quel “contro” germini la vera autentica arte la quale, scatto tra ragione e rivoluzione, scommessa della creazione sul nulla mostruoso della storia, sola propone il più profondo segno di una presenza vitale di riferimento. L’intelligenza di costui, inferendo con lucido sovvertimento – nei plurimi livelli della scrittura, o semantica o linguistica o strutturale, ecc. – per propria natura eversiva, deve affrontare un destino ritenuto ingrato da benpensanti ma fecondo dal poeta medesimo, che nella propria sofferenza ed esistenzialità affonda le radici della propria ragione di vita. Allora non gli è sufficiente la pura ispirazione ma ha bisogno di una possente capacità intellettuale e critica, nell’attesa che il suo pensiero si protenda alla sua lotta verso un orizzonte pervicace e deragliante. Trova comodo e naturale l’operare poetico chi si annida nella tradizione e da essa, assuefatto, deriva il suo credo poetico quantunque dia un suo apporto di cuore e di sentimento. Invece chi si spinge sulla strada della provocazione, della creazione, del diverso o, detto con un vecchio termine, “nuovo”, deve costruirsi ogni elemento del poetare, il linguaggio, lo stile, le forme, le strutture. Per questo gli necessitano forza di pensiero, prospettiva filosofica, conoscenza della dinamica del linguaggio, coscienza civile. Continuare moduli è meno arduo che inventarli; connettersi ai Maggiori è più comodo che opporvisi, per un’avventura in mare aperto e tempestoso con i propri soli nudi mezzi; tuttavia è limpida e fervida saggezza assimilarli e tramutarli, come cibo si tramuta in sangue. Cosi nel rischio che la lotta impone giova l’assoluta consapevolezza che quello che esclusivamente vale a mettere in campo è l’implosione dei valori, la forza dei linguaggi, la tormentata gestione delle forme, una natura singolare e autentica di creazione della realtà, e non già farsi governare dall’assuefazione, dal conformismo. Che cosa sfida il tempo se non quella determinazione di autenticità sigillata nel nuovo istinto della poesia, la potente sostanza simbolica del mondo? Tale è il destino di chi vive al margine della mistificante gloria a lui contemporanea. E però il tempo venturo può riprendersi – e talvolta si riprende – quanto il tempo passato non ha illuminato.
Un poeta, indicativo di questa perversa logica oggettiva a servizio del mercato, che probabilmente ha una statura da essere ripresa e guardata, scrutata, indagata, sistemata in una prospettiva critica e storica giusta e non parziale come accade – infatti i critici costruiscono i canoni letterari in virtù di propri criteri estetici ma anche per il modo di apprendimento della produzione – può essere Pietro Terminelli. Siciliano d’origine ma poeta italiano, impregnato di cultura di sinistra, vivida coscienza civile, sempre pronto alla lotta poetica, ebbe l’intento di perseguire una poesia totale, intessuta cioè di tanti linguaggi e di vaste tematiche – dell’economia, della filosofia, della politica, della sociologia – e liberata dalle forme fisse, liriche o elegiache, retoriche o didascaliche, e non secondariamente finalizzata a comprendere l’universo della società, in contrappunto di valori. Prefando Poesie antigruppo del 1973 Luciano Cherchi sottolineava, tra l’altro, che in esse “converrà individuarvi la critica anche spietata alle vecchie forme postermetiche-neorealistiche liricizzanti, sopravvissute ad ogni contestazione ideologica e sperimentalistica e l’irrisione di un mondo rimasto ancora a crepuscoli o albe mitizzanti, tinto di sovrastrutture malate di gigantismo, di titanismo, di cosmogonie ed epifanie variopinte”. Furiosamente disintegrava, il Terminelli, le vecchie antiquate e incoerenti forme con duale ardimentosa capacità di costruzione? Allora continuava il Cherchi: “Si ha, per dirla con l’autore, la risultanza di un magma petroso, resistente con lo stato di incandescenza linguistico-ideologico”. A indire la problematica questione è lo stesso poeta, la cui proiezione mitopoietica ed ideologica è individuabile in due entità: 1) la realtà non preesiste, ma sussiste; 2) il poeta non vive in assenza, in una solitudine aurea o drammatica, ma agisce in seno al popolo, anzi addirittura ne rappresenta il soggetto/oggetto. Radicalmente, la coscienza di classe ha un compito messianico, di correzione delle anomalie del capitalismo e, nel contempo, di ridistribuzione del surplus dei valori aggiuntivi per un’eguaglianza non solo economica come riscatto dai bisogni ma soprattutto sociale e civile. Terminelli ha ludica consapevolezza della missione del poeta come soggetto/oggetto, e fonda la propria fede sui principi di un socialismo efficiente e sano, infervorandosi sui principi di un Engels, di un Marx, di un Mao, che sono i sapienti da lui più citati (dove si vede il cedimento di una poesia ai tempi, nella partecipazione alle lotte estrinseche ed ideologiche. Oggi, che mille volte à cambiata la storia e mille volte il mondo, nella disintegrazione delle ideologie, resta, a monito dei tempi, il gesto poetico, la voce riflettente, il pensiero denunciante).
Ecco, è lo stesso Terminelli, allora, a connotare il suo pensiero. Intatti scrive, nel 1976, che di una poetica “il meglio si affaccia dalla distorsione del messaggio semantico, dalla simbolazione, dal mito trafugato nella frustrazione/oscurantismo societario di modelli di autori (...). La realtà contrapposta necessariamente è sempre dovuta a un esercizio ideologico nella fusione dei simboli”. L’intellettuale ha il dovere di rompere l’ordine borghese, deputato alla maggiore gloria della classe, e pertanto ha da farsi attivo e propositivo, operando per la educazione della massa affinché essa si elevi alla comprensione delle conoscenze e quindi diventi padrona di sé e artefice della propria storia. Significatamente, urge che si persegua una grandiosa impostazione di un istituto culturale che faccia da pendant con quello esistente, di impronta borghese (onde si deve pervenire a una sorta di collusione prima ideale e poi di lotta, come dire Popolo – non massa – contro Borghesia, per un finalistico traguardo di vittoria del popolo sulla borghesia). Ma in che modo possa una lotta simile condurre all’affermazione? Terminelli indica non tanto il cammino, quanto piuttosto, da intellettuale, la modalità di attacco: “Una cultura alternativa nel senso dell’ordine della struttura di classe antagonista deve nascere ovviamente dall’impadronimento dei mezzi di produzione estetica da parte del popolo, all’interno del popolo, in cui lo scrittore, il poeta ne sia soggetto/oggetto che si spinge negli interessi interreagenti, intersoggettivi, antagonistici dei rapporti di classe”.
Siamo insomma sul discrimine tra potenza e debolezza, tra lusso e bisogno, tra politico ed estetico, perché, per Terminelli, ciò che sommamente conta, nel percorso verso la conoscenza che liberi dalla schiavitù dei bisogni, è la problematica che la classe bassa sa assimilare e conquistare (ogni conquista è sapore di lacerante lotta, ferita di sangue e di piaghe). Talché centripeta è la dinamica dell’ideologia, che, in Terminelli, assume sfumature sue tutte particolari, tanto che è portante del suo pensiero ma anche coassiale alla sua poesia, dal momento che il termine è privilegiato a titolo di testi e di volumi. L’ideologia, per sua natura, istituisce una forma di rivoluzione della realtà attraverso l’idea, in una dialettica e costante cooperazione tra forma e idea, tra implosione e inversione. Per Cattaneo essa si imbeve all’esperienza umana, come atto sociale, giacché il pensiero è agente sociale adeguato a mutare la realtà. Tuttavia sul piano filosofico decisamente il poeta si rifà al testo Ideologia tedesca di Marx ed Engels, i quali pensano la parola tedesca Ideenkleid come “vestito di idee”: ideologia allora opera ma raffigurazione che ricopra con immagini e giustificazioni illusorie, la realtà degli eventi, delle cose, dei fatti. Se ne deduce che ideologia connoti l’insieme dei fenomeni storici e sociali che costituiscono tipiche produzioni intellettuali (filosofiche, religiose, politiche, ecc.). Su tale orizzonte si innesta la concezione culturale di Terminelli, che egli esplica nel saggio accolto nel primo numero della rivista Involucro; ma il suo concepimento filosofico è sfalsante, volto a una società ormai estremamente matura, che già mostra i segni ipertrofici di esplosione. Per i tempi, a mezzo degli anni ottanta, la sua interpretazione appare cocente e coerente, altamente critica, mentre nella coscienza storica già appaiono i primi sintomi dell’inutilità delle ideologie statiche e sclerotizzanti e in estremo esaurimento: “Le ideologie vanno considerate nella fatiscenza del complesso societario, nell’appunto e nel disappunto contrappositivo delle classi, nell’azione insita e/o coazione interagente, fluido nel magma, amalgama di apparenze, inflorescenza e caduta di massi dall’alto nella praxis della società”. Il suo ragionamento è sempre più stringente: “Le ideologie, perciò, vanno scansate davanti all’apprezzamento straordinario delle analisi vuoi teoriche vuoi limitatamente della praxis”, conseguentemente, la poesia ha l’obbligo di denuncia nel farsi costruzione, deve liberarsi da eccitazioni sensoriali o sentimentali e rendere fungibile la pura nuda essenzialità materiale passata attraverso la luce noumenica; talché lo sforzo di risveglio consiste nella volontà di costringere le ideologie a risollevarsi “dall’esercizio e dalla benistanza del più a protendere della versificazione e del testo interagente, speculare della realtà, dell’oggetto costitutivo, pertinente e non ri/frenante”. Ma Terminelli fa un balzo a lato, purifica il suo pensiero dalla massiccia assimilazione marxista per tendere, ben subito, già alla fine degli anni Settanta, a una più compatta, tagliente cognizione della intelligenza critica, arrivando a differenziare bellamente l’ideologia di impianto filosofico dall’ideologia di struttura poetica. Finché, in piena maturità giunge ad affermare che finalmente la letteratura non ad altro somiglia che a un’avventura: “Ricordo che un vecchio professore, contestando una collega professoressa di lettere diceva: “la letteratura è il giornale quotidiano”- e se è azzardato questo enunciato, dobbiamo pur dire che la nostra letteratura non è il giornale, e sfugge dai fatti di cronaca e si avventura nei vicoli ciechi, dove nessuno ci capisce, né tanto meno ci trova ai livelli dei festival di San Remo”. Insomma la storia e l’intelligenza vengono a colludere. La realtà scivola via come l’acqua del fiume, la quale passa ed appare tuttavia sempre dentro al nostro sguardo: ed è appunto il nostro sguardo a dare all’acqua una funzione, un colore, un abisso.
Nell’universo linguistico di Terminelli vi sono termini che hanno un ruolo privilegiato, dacché si caricano di una elevata forza strategica; vengono, pertanto, a segnare lo spazio grandioso di una tematica, di un mondo gravitazionale entro il quale la materia linguistica si addipana fredda e oggettiva, deprivata dell’io, cui è attribuibile, nell’evoluzione, il vasto ventaglio di emozioni, impressioni, sensazioni, memorizzazioni, per un’aura di tristezza e di ripiegamento sul passato. Terminelli, già in ragione di poetica, abolisce dalla realtà l’accordo dell’io, il suo persistente intrigo, la sua inquietudine; ne mostra l’intenzione di farsi giudicare, per penetrare nella dinamica della storia, dacché l’io adduce, semmai, negativamente, a una sorta di psicologia personale e soggettiva, con una comunicazione diretta con l’oscuro dell’interiorità dove è assommata tutta la conoscenza, di persona, e di civiltà. Pervicacemente l’io, tuttavia, se è eliminato nel soggetto, e se il soggetto è rovesciato come oggetto guardato (quindi non più, come nella tradizione, guardante) per cui è, apparentemente, assente dalla scena della rappresentazione, addiviene che è la mente, come ente a sé, a gestire e dominare il flusso irruente e massivo delle immagini, che avanzano in disordine: l’io ormai ideologicamente e politicamente, in un tenore di economia tecnologica massiva, è deprivato di statuto sociale ed alienato non solo – o non già più – dalla brutale forza lavoro ma dall’asetticità terrificante della tecnologia che consegue il più alto ed assurdo grado di estraneità dell’uomo e della sua psicologia. In coerenza con l’educazione marxista, per il poeta l’io scompare per farsi noi, altro: egli non ha un minimo dubbio, “(...) l’esterno è un po’ l’immagine dell’interno, dove va una condizione lontana, non interagente di ego in ego, sempre lontano questo dal noi, dell’universale recondito umano e l’altro ancora di noi sempre più meno noi “in voi altri” che sono la funzione palliativa dell’ego, dello sperpero dei sentimenti neutralizzati, (...), intrecci fuorvianti e opachi di una realtà che s’intende, naturalmente altra, esplosiva e tale da enuclearsi, densamente nello specchio visibile del ritrovato linguistico e poetico”. Neumann, allievo di Jung, nel saggio del ‘54 ed edito in Italia nel ‘75 L’uomo creativo e la trasformazione, connota il carattere divergente del rapporto interno/esterno: “Il processo della differenziazione della coscienza, seguendo il suo schema di duplicazione, interno – esterno, psiche-mondo, divide (...) l’immagine unitaria e simbolica in una immagine interna – cosiddetta psichica – e in una esterna – cosiddetta fisica”. Terminelli tuttavia, da materialista, capovolge l’ego e lo situa nell’altro, nella realtà, nella storia, nell’avventura dinamica e progressiva dell’uomo, che assurge a tramite-sintesi di lotta, di disordine, di mescolamento. Il capovolgimento significa trasferire, al posto dell’ego ormai abolito, nello spazio esterno la mente, come coattiva funzione del rapimento delle immagini che nascono da incipit cosali o situazionali. È lo stesso poeta a illuminarci in proposito in una “ apologetica” che introduce al testo del ‘91 Immagini e ingrandimenti. Se la coscienza è messa da parte, se l’io è proiettato nella storia-cronaca, allora ci si domanda: in che modo si costituisce geneticamente un atto poetico? Donde deriva l’imponente, inarrestabile magma fuoriuscente dal cratere della mente? L’occhio vigila, ma dove esso è collocato, chi lo dirige? La mente è eletta all’apice della comprensione, della interpretazione, destinata a disciplinare l’ammasso tumultuante e smisurato che si agita nel cosmo / uomo / mondo / storia. Subentra sempre un input primario, un “la” che provoca la catarsi, mette in moto l’azione partenogenetica dell’operazione poetica. Meramente, “ il dato esteriore è una matrice di linguaggio che nell’oggetto occorrente corre per vie fluviali e da lì ne carpisce stimoli e nuove fasi richiamanti i meno accessibili lidi, i fattori che in contumacia assediano l’intelletto e attendono altre coabitazioni di effluvi e immedesimanti coabitazioni”. Quantunque in altro carattere e intenzione, il gesto terminelliano dell’incipit non sembra estraneo all’ipotesi montaliana dell’occasione: (“Buffalo! – E il nome agì”) gesto però – il suo – esente da simbolo e dunque immediato e diretto (per lui vale il vero moto del termine, ob-cadere, ciò che cade davanti allo sguardo e si presenta allo spettro della mente. Un campione lontano, positivo, indiretto della struttura organizzativa della sostanza delle poesia di Terminelli – tutta esteriore – appare Keepsake – in Occasioni di Montale – costituita con personaggi “ridotti a pura essenza nominale, flatus vocis”, desunti da opere e operette, con l’eliminazione totale dell’io (che però sussiste come agente dell’ordito). Lucidamente lo stesso Terminelli sancisce: “L’incipit può essere un’occasione di un momento fuorviante di una dinastia di linguaggi e testi già resi operativi, scartati per una nuova produttività, un aggancio della mera pulsione di dati meno stratificati riveduti per essere dimensionati in una struttura altra meno divisoria”. L’obiettivo teleologico della strategia che dalla poetica si riflette nell’operatività della scrittura, nella sua funzione d’uso e di partecipazione di un ideale di mondo, viene, a dimostrazione della salda conoscenza del come immagini e frasi si sedimentino e si stratifichino, a definire il comparto originario del suo costruzionismo linguistico come “(...) idea non troppo pallida, ma schiumosa della risonanza, ridondante di mere immagini scolpite, frasi di atteggiamenti e colori, giochi privilegiati fuori dal potere industriale, in una situazione primaria di accadimenti nel mondo che riflette senza alcun involucro il salmo della inefficienza tra il dire e un fare di nuovi codici”.
Si prestano dunque a essere segnali di mondi, precisi, impregnati di eventi di cronaca e di costine e di evoluzione culturale, termini come ideologia, antigruppo, involucro, ingrandimento (ecc.): infatti, nel lessico terminelliano – non settoriale ma ampiamente aperto a tutti gli apporti dei linguaggi conoscitivi (letterari, sociologici, politici, economici, ecc.) – essi assurgono a indice di tematiche, che, di tappa in tappa, fluiscono massive in una virulenza magmatica. Dalla portata filosofico-politica, ad esempio, la parola “ideologia” passa a significare la tipologia gestionale del verso e il correlativo valore dei significati: in tale uso essa viene a indicare il “comportamento fruibile dell’ordito linguistico”, ossia una sorta di mai invecchiata gnoseologia dell’idea, della sua potenza e incisività. “Involucro” esprime il senso dell’esteriore (contenitore) che accoglie la posizione delle immagini e la disposizione dei lacerti verbali, che “se esclude la sostanza, si pone e si porge a sostanza esso medesimo, si insinua come sospetto di ipotesi della costruibilità” (per questo rinvio al mio saggio che è nel primo numero di Involucro). “Ingrandimento” emblematizza un non secondario aspetto della scrittura di questo poeta, che rende debordante, mistificante, roboante, ipertrofica la funzione della realtà storico-sociale. Nella morfologia strutturale della poesia il verso è mortificato nella sua accezione ritmica e retorica, come misura quantitativa distinta e definita (settenario, novenario, endecasilabo, ecc.), tuttavia viene riqualificato e sviluppato come un lungo, inarrestabile procedere la cui natura è solo docile alla volontà della mente che accosta, accatasta, aggrega, ammassa in un debordare che dà il senso di sazietà e addirittura di crapula. Per questa ragione la poesia si sostanzia di tutto quanto di tempo in tempo accade, guerre, lotte, ideologie, frizioni sociali, modificazioni di costume e di morali, lacerazioni culturali – tutto, sempre, nella più assoluta neutralizzazione del personale e passionale. A caso qui presento qualche campione, a illuminare il tipo di procedimento che incalza. Primo esempio, da Antigruppo: i servi del padrone: progresso in base alla Filosofia della Reazione e Prezzolini la voce vociana / prezza, apprezza il qualunquismo copertura a destra / / La CISNAL ha gli extrasindacati come MSI la SAM e l’ORDINE nuovo, / / la contestazione ha movimento, lo stimolo centrifugo-centripeto, rapporto dei gruppi extraparlamentari, Mao Tse-toung, la filosofia / della libertà del Sud – Est asiatico, (...) / Gli Anti in letteratura compromettono, coinvolgono ogni clausura, / il blasone servizievole di Gian Carlo Ferretti, il freno a pedale de “L’Unità” (Poesie antigruppo del ‘73). Secondo esempio, da Ideologia della misura: “La strategia di Nixon si accorda in tutto il mondo tra un abbraccio di Breznev, / una promessa a Van Thieu, una raccomandazione al generale Franco, cascame delle termiti, / tramite trama Kissinger, il bello in parabola, parola di Metternich nello sferraglio, / il cigolio del cancello chiuso con lucchetto, spalancato dalle idee della filosofia. / Nixon nell’amen prega animum, “Fatebenefratelli” con il sodalizio in questura per la strage opera prima diretta da G.F. Bertoli” (da Ideologie politiche, ‘97). Terzo esempio, da La locomotiva: “La scienza collabora alla vita immettendo respiri ai suoi robot, di umana intelligenza, / di artificio, di annacquata saliva alla parola, dalla megera medusa a squalificare il progresso, / l’ingresso dell’intelligenza multipla, nella diramazione dei neuroni, / dalla fibre contuse del mondo, nei globi sferici, nelle tenute dei capi nei movimenti di mani e piedi, a due a due” ( da Immagini e ingrandimenti, 1991). Quarto esempio, da L’Involucro di una finta morte nell'ottocento di Giacomo Leopardi: “Il Leopardi ritorna immortale tra i figlioli del dio amore e Cupido con la freccia / intreccia infilzamenti nel volo dell’etere di cuori trafitti da baldracche e figli e figli, fagociti e psicopompo, / (...) / i canti orfici, di Soffici al suo nemico con il manoscritto nascosto nel baule, / nel sempre vegeto linguaggio di accadimenti stagionali di Cardarelli, / e gli amori non troppo sediziosi di Saba con Trieste e una donna, / e sempre padre Leopardi sino alle “ultime cose” di un atto sessuale, / (...) / nel secolo dell’ottocento da parte di Alessandro per conte-padre” (da Involucro, ‘92). Da questa campionatura, per quanto minima, emerge la forza ma pure la debolezza di una poesia esteriorizzata e neutralizzante l’irruenza di un ego che implica altro universo, quello imprevedibile che è dietro la coscienza, ossia nell’oscurità della nostro essere originario e nell’inappagante sommovimento dei sogni, che nella Teogonia Esiodo chiama figli della Notte e Euripide in Ecuba figli della Terra (“Terra ch’io venero, Madre degli oscuri sogni alati”). È fin troppo evidente che il “clima d’epoca” (corrosivo di fenomeni ed eventi fruiti nel linguaggio insito all’epoca medesima) è dominante. Il che è conseguente quasi coatto della poetica, di rappresentazione estrinseca al mondo interiore, in cui l’anima del poeta è tenuta a parte, a tutto vantaggio della mente o, meglio, della ragione.
Spostando l’indice sul versante della valutazione, sobbalzano alcuni non peregrini interrogativi: una poesia che è tutta calata nella realtà storica e culturale – la mente non altro compone che l’essenza, di essa – ha un destino duraturo? E a essere configurata in un’epoca successiva, che appare totalmente mutata non solo nella forma ma anche nelle radici delle sue costumanze e dei fenomeni culturali e linguistici, regge di essere inserita nel nostro presente, di elevarsi a forza di rappresentazione di sé? Oggi che la società non detiene più nulla di appena cinque anni fa, che sono aborrite come lebbra le ideologie – assi portanti della struttura politica e sociale – le composizioni massive e oggettive di Terminelli perdono di efficacia. Che la poesia non è la storia, non è la psicologia, è lapalissiano; semmai può divenire simbolo dell’essenza della storia, simbolo delle travolgenti inquietudini della umana personale esistenza, innalzato a modello di una emblematicità extratemporale. La poesia è singolare, si raffigura come unicità e, nel contempo come infinita ripetibilità, fenomeno conseguibile grazie appunto allo spirito simbolico che presentifica, nel gesto, nell’azione, nell’immagine, il sempre uguale che vive nel sempre diverso. Il verso dantesco “E caddi come corpo morto cade”, denota un atto di sopore immediato ed inemotivo, deputato a chiudere la rappresentazione di Paolo e Francesca, tuttavia è proprio per l’alto potenziale simbolico che quel verso, connotante un gesto cinetico, si configura come “unico e infinitamente ripetibile”, per cui, sforando il suo tempo, diventa senso del nostro tempo, nuovo e rigenerato: dunque, ci prende e ci esprime. Tale penso sia il destino vero della poesia. Allora le estreme domande qui squillano: Terminelli è legato all’epoca storica che visse? O esistono delle zone, nella sua produzione, che gli consentono di essere ancora insieme a noi?”. Certamente, nei suoi testi magmatici ed onnivori, spesso, brillano ripiani nuovi, spazi acquiescenti, dove l’intuizione apre sorvegliatissimi spiragli di immedesimazione personale Di questa natura i testi più efficaci sono, ad esempio, in Immagini e ingrandimenti, dove il flusso magmatico si dirada, e lascia trasparire una più ragionevole riflessione sulle immagini e sugli eventi: ormai la mente non più è tumultuante, non agisce automaticamente, ma ritorna in sé, rasserenata ma non pentita. Primo esempio, da Il clown: “In nascondiglio del volto le palpebre vaganti concorrono aperte davanti al discorso, / alla multiforme e schematica avventura della battuta incalzante, / tra fuochi di rughe nella parete degli anni; bolse occluse agli occhi occipitali: / inchiostro ad accomunare zig-zag degli zigomi, danze sparviere ai movimenti comportati nella realtà giornaliera”. Secondo esempio, da Il trapezista: “Sul trapezio di Euclide s’innesta un piede, il piede in due piedi a passettini, / lentamente fluenti a mantenere l’equilibrio; / e poi è uomo e donna a combinare voli e trasvoli nello spazio, a rincorrersi / risaputi, appesi a un trapezio isocrono(...). / La donna profuma le palpitazioni, le guance di belletto, le braccia salde sul petto ansante, / il corpo consueto della cipria, rossetto, spicco sulle labbra, artefici sulla dentatura”. Terzo ed ultimo esempio, da Sulla convalle: “Ai bordi della sera la memoria non smemora sulla con / valle, / sulle alture delle cime, cima a cima, concime dello stallatico; / regge resa una striscia biancastra di silenzio,”. Meramente, ora, il poeta calcola e soppesa le parole a chiarire, a determinare, di tempo in tempo, la pienezza di un’immagine, la frammentarietà del reale. Perché la poesia è unicità. “La posizione – afferma Harold Bloom – assunta da un poeta, la sua Parola, la sua identità immaginativa, il suo intero essere devono essergli unici e rimanere unici, se non vuole perire come poeta”.

 Ciro Vitiello

 

 
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