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GIOVANNI OCCHIPINTI: RACCONTI

 

   Chrisia di Mitilene, nel racconto che ne aveva fatto Antonio Maria de Rubeis mettendo insieme i frammenti del diario, non fu una personalità semplice. Né da fanciulla né da donna né da vecchia. E soprattutto fu tutt’altro che donna da mura domestiche. Finalmente in grado di scegliere, preferì il ruolo di donna di compagnia (hetaira) per amore verso l’istruzione e il sapere, poiché non le interessava -si giustificava così- un compenso ma il vantaggio della vita pubblica. Sapeva bene, da figlia di cortigiana impegnata e civilmente arrabbiata (era solita ricordare a se stessa e agli altri che la propria madre era stata coinvolta in segreti sul colpo di Stato di Cilone, il quale voleva governare sull’Acropoli) che una cortigiana è pur sempre una cortigiana e che su di lei si sarebbero posati occhi rapaci, ma anche interessati, generosi, benevoli. Tuttavia, trovò sempre certezza nel conforto che a distinguerla dalla prostituta, cosiddetta di rango, sarebbero stati la cultura e lo stile.


   Dai giudizi di Antonio Maria de Rubeis, Chrisia -il lungo chitone allacciato alla spalla destra le scendeva modellandosi in drappeggi sul corpo slanciato e regale, come il suo portamento-, visse la vita così come la concepì: con immediatezza di azione e di pensiero che, nel suo caso, erano la spregiudicatezza e la passione. Passionale e appassionata della vita, fece scelte radicali da cui difficilmente tornava indietro (sulla stessa linea di impegno della madre, partecipò alla sommossa contro il divieto di coltivare la terra sacra in cui sorgeva il santuario di Delfi. Diceva che sarebbe stato più utile dare ai contadini la possibilità di coltivarla): scelte radicali e azzardate. Una volta, confusa tra le file di Falaride, prese parte alla difesa di Imera contro i Sicani. Pare che in quell’occasione avesse incontrato, a Siracusa, Kleomenes, l’autore del progetto del tempio di Apollo; ma che avesse apprezzato di più il tempo trascorso con lui sulle rive del fiume Ciane. Una delle sue scelte radicali fu per esempio la presa di distanza dalla religione (il mito e gli dèi): un rapporto tormentato, dunque, col Monte Olimpo; o forse soltanto un atteggiamento di emancipazione dal Monte. Cosa che agli occhi degli altri la faceva passare per una donna miscredente e corrotta: perché respingeva le rivelazioni del mito sulle forze supreme degli dèi e dichiarava la sua poca o nulla fede in esso?
   Preferì, invece, battersi sempre per la schiavitù, che sentiva legata alle religioni sacrificali: ciò le faceva sentire più prossima la verità intorno a un Dio Unico, che ponga la creatura umana di fronte alla propria libertà di azione, anche se talora malvagia. E al mito continuava a opporre la propria resistenza, sostenendo che esso coltiva un’illusione di verità che non può trovare riscontro e fondamento nella vita di tutti i giorni. Insomma, a lei appariva come una verità neutra e falsa, perché inganna e non rappresenta né il presente né il passato né il futuro.
   -Il mito e gli dèi mi sono indifferenti- confessava, aggiungendo sottovoce: -Ma non voglio correre il rischio di morire ammazzata come Esopo, che fu lasciato precipitare da una rupe, perché non aveva preso sul serio l’oracolo di Delfi.-


   Come poche donne della sua epoca, Chrisia mostrò sempre di sentire che la vita è affanno e tormento.


 Ad Antonio Maria de Rubeis, da alcuni accenni, battute allusive e reticenze colti qua e là nel diario della bella Chrisia, era parso di capire che a distrarla dai problemi esistenziali, o come lei era solita dire: dai guai della vita, fosse la poesia (poiesis) insieme alle altre arti: pittura, scultura, musica; e quindi gli artisti e i poeti (poietai).
   A costoro, secondo quanto sosteneva l’archeologo, la donna raccontava la propria vita mentre li massaggiava. Ai discorsi, qualche volta di natura metafisica, inframmezzava le giustificazioni dell’estetica del massaggio a sfondo erotico: dall’eleganza e dall’armonia del corpo al rilassamento dei nervi; e intanto manipolava muscoli e articolazioni con essenze e profumi che rendevano il massaggio più sensuale ed eccitante. Ungeva e frizionava la pelle con olio fragrante e fresco, ma ne approfittava per ammirare i corpi scultorei distesi su tavoli profumati come legno di sandalo. Sosteneva con convinzione che quel suo particolare ungere e frizionare sciogliesse la tensione dei pensieri e il groppo alla gola per le fatiche e le ansie e le ombre cupe della mente, anche se poi non riusciva a nascondere l’irrequietezza che l’assaliva tutte le volte che faceva quel lavoro. Confessava di sentirsi crescere dentro una istintiva complicità col corpo massaggiato con sfioramenti e vibrazioni. Sfioramenti striscianti palpanti percussivi. Inevitabilmente anche lei finiva per sentirsi invasa e penetrata dal calore, dopo esserne stata piacevolmente avvolta nel corpo. La medesima sensazione provava via via che si abbandonava alla voluttà del signore dei sensi ovvero il succo della vite, che strappa il dolore della carne e lo nientifica. Si esprimeva così, parlando. Per la verità, Chrisia, non nascondeva di amare il vino. Ne apprezzava la naturale ambiguità: “La verità è ambigua -si sorprendeva a pensare mentre massaggiava i corpi.- È ambigua e dura; e il vino la rende dolce e la difende, nascondendola”.


   Antonio Maria de Rubeis mentre raccontava di Chrisia, aveva davanti agli occhi l’immagine del Monte Tauro, maestoso e cupo, che dominava il grande bosco e il fiume Melas...
   In uno dei villaggi, ai piedi di quel monte ricoperto di foreste, a Est della Panfilia, ricca di sorgenti che precipitano da alte rocce, venne alla luce una bambina di rara bellezza, dagli occhi azzurri e dai capelli nerissimi. La madre era greca e del padre, mai conosciuto, correva voce che fosse fenicio. La chiamarono Chrisia.
   Crescendo, ella si era dedicata dapprima alla pastorizia, pascolando come le altre ragazzine, le greggi sulle pendici aspre del Tauro. Si alzava al cantare del gallo per abbeverare e mungere gli animali, ma se pioveva rimaneva nel gineceo a filare la lana; se poi il sole ritornava a splendere andava a correre in compagnia delle amiche per i folti boschi della montagna e sin dentro le grotte che ne squarciavano le pareti e serpeggiando si intricavano per i cunicoli del suo ventre freddo.
   Curiosa del proprio e dell’altrui corpo, Chrisia spesso cedeva alla curiosità e al piacere di tastarli, facendo scorrere le dita sottili sulle forme morbide e calde che si distendevano e rilassavano alla pressione leggera della carezza e degli sfregamenti...
   Ancora adolescente, dovette abbandonare a malincuore un figlio appena nato. Non si sentiva di rinunciare alla vita che già vedeva ricca di promesse. Aveva nascosto la maternità alla madre e alle compagne che amavano i giochi lesbici negli antri e sui bordi dei laghetti delle Ninfe sparsi nelle grotte...


Era corsa furtiva ad abbandonare la sua creatura sul ciglio erboso di un sentiero solitario, battuto da carovane di cammellieri che smerciavano mercanzie nella lontana penisola del Sinai. Da quel momento il suo umore era cambiato. Sentiva dentro di sé il lavorìo di un profondo cambiamento. La tristezza e la pena, insieme al senso di colpa, la spinsero a lasciare la Panfilia, dove per un certo tempo evitò di tornare. Si stabilì a Mitilene, giungendovi per mare dopo una navigazione fortunosa, sia pure costeggiando l’Asia. Sulla nave, anche nei momenti in cui la situazione si faceva più drammatica, continuava a tormentarsi al pensiero del suo piccolo. Non aveva alcuna idea, ora, dei tratti del suo volto e del colore dei capelli e degli occhi. Non avrebbe saputo dire se fosse bello o brutto, se avesse un corpo sano o malato. Ricordava soltanto gli strepiti del neonato quando era venuto alla luce e poi quando lo aveva adagiato sull’erba umida del mattino...
   Le onde che caricavano la nave, sballottandola e facendola impennare di prua, le sentiva come una minaccia imminente alla sua vita. Tuttavia, pensava che se un maroso violento l’avesse inghiottita insieme alla sua pena sarebbe stato un sollievo e forse la giusta punizione alla sua colpa.


   Approdarono quando ormai le stelle erano state nascoste dalle nuvole. Chrisia aiutò l’equipaggio a tirare in secco la nave, onde trascorrere al sicuro la notte sulla costa.
   In una grotta, tra la ghiaia e la sabbia, dovette lottare e protestare e gridare per respingere le pretese di un giovane marinaio che alla fine si arrese alla pena per la storia di dolore della donna e ne divenne anzi il custode contro gli attacchi insidiosi dell’equipaggio assatanato di sesso.


   Della corruzione della rinomata Mitilene, che batteva perfino quella di Atene e di Sardi, Chrisia ebbe nozione a mano a mano che si calava nella vita di quella città. Situata tra l’Attica e la Lidia, come un balcone sulle coste dell’Asia, Mitilene guardava il mare azzurro e limpido di Atarnea, il porto di Pergamo. In quella città, rimase vivamente impressionata dallo splendore delle stoffe multicolori sparse per le numerose viuzze. Avrebbe voluto indossarle tutte e sfilare ammirata da fanciulle e ragazzi. I colori la esaltavano, non meno della leggerezza quasi impalpabile delle tuniche di porpora e di jacinto e delle cicladi di seta trasparenti: si sarebbe fatta avvolgere volentieri da una delle tante pellicce, morbide e calde, distese a lastricare le strade lunghe e strette, movimentate da un continuo andirivieni di gente di ogni età e etnìa. Le donne ostentavano orecchi ornati con grandi anelli d’oro e perle gregge, braccia con cerchi d’argento massicci cesellati; ai piedi avevano calzature gialle. I capelli dei maschi erano lucenti di olii profumati, dalle loro caviglie nude si levava un tintinnio di periscelidi, le larghe spire di metallo collocate sopra il tallone.
   Vagabondando, Chrisia si rendeva conto delle caratteristiche commerciali diverse da un quartiere all’altro: in alcuni si esponevano tappeti dai colori cupi, in altri gualdrappe di filo d’oro, in altri ancora ninnoli d’ambra e d’avorio. Nessuna tregua nelle attività commerciali, la notte si confondeva col giorno. A tutte le ore si udivano musiche e grida di donne e rumori e suoni di danze.
   Una notte fu tentata di partecipare ai festini delle suonatrici di flauto, ma ne fu allontanata, perché proibiti ai giovani. Osservava gli adulti mentre si abbandonavano al piacere del vino o si lasciavano andare tra le braccia delle danzatrici. Le donne tra le braccia di altre donne: si amavano di delicata passione, secondo quanto insegnava Saffo, caposcuola e sostenitrice di amicizie femminili.
   Chrisia era stata amica di Saffo e da lei aveva appreso l’arte del canto e di tramandare ai posteri la memoria delle persone care e soprattutto degli amori finiti. Aveva appreso l’arte di amare e l’arte di vivere l’eros al massimo del trasporto e della fantasia. Per un certo tempo ella aveva vissuto con Saffo momenti di passione travolgente, giungendo a condividere con lei Mnasidica. Dolce e innocente, la fanciulla era stata amata a Lesbo da Saffo, la quale la ricorderà nei suoi versi. Altrettanto farà Chrisia, che la esalterà cantandola e magnificandone la bellezza e lodandone la pronta disponibilità all’amore. Fu assai gelosa di lei, ma mai si stancò di amarla. Se si decise, poi, di abbandonarla fu per eccesso d’amore (così giustificava la sua scelta) e perché a lungo andare le era divenuta inaccettabile qualsiasi forma di eclettismo amoroso, specie dopo che -complice Saffo- avevano fatto trovare nel letto di Mnasidica un giovane sconosciuto. Quella volta pianse la fanciulla, cedendo alla voglia dei tre.
   Cipro, come la sua Panfilia, era greca e fenicia allo stesso tempo, come Chrisia. A Cipro,sia pure da scettica, entrò a far parte di un tempio frequentato dalle cortigiane di Amatunte, protette da Afrodite e così belle da suscitare invidia nella sacerdotessa Frine; e come Frine, per le occasioni, indossava vesti ampie e drappeggiate: allo stesso modo delle bellezze muliebri rappresentate dalle statuette di Tanagra.
   Gran cortigiana, Chrisia ne ebbe i pregi e le debolezze.

 
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