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Philip Hipwell

Nasce il 24 Dicembre 1942 a New York City USA.

1956-1960 - School of Art and Design N.Y.C.
1960-1964 - School of Visual Arts N.Y.C.  Teachers: Burne Hogart, Frank  Roth, Richard Pousette-Dart, Lester Johnson, Jim Wines, Nicola Caroni.
1974 – Shows in New York, Soho.
1976-1977 – Peter Rose Gallery.
1980 – Group Shows: P.S.I.
1981-1983 – Joyce Sampson Gallery
1998-2000 - Catania Officina d'Arte.
2004 – The Black Album, Galleria Colombo Milano
            Natural-Mente (a cura di E. Santese) Istituto Europeo Arte Contemporanea. Catania
2005 – Personale, Istituto Europeo Arte Contemporanea. Catania
2006 – Collettiva l'Arte di amare l'Arte -Museo Civico Castello Ursino- Catania
2006 – Personale Monastero dei Benedettini -Catania

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Un catanese venuto da lontano

Philip Hipwell e' un buddista osservante, pacifista convinto, per certi versi religiosamente anti-americano. Conduce la sua esistenza con una sua strana filosofia che lo colloca, a volte, lontano dal mondo reale e come Artista romantico e idealista, ripudia ogni logica mercantile.
Molti anni addietro lascia New York e vaga  pellegrino per il mondo. Dieci anni orsono trova approdo a Catania e vi mette radici inestirpabili, divenendo un catanese anomalo solo perche' continua a parlare inglese, non per vezzo ma perche' tutti quelli che lo avvicinano si ripropongono di esercitare con lui la loro modesta conoscenza della lingua, impedendoli di imparare bene la nostra.
Dei catanesi ha preso le abitudini pur restando un sognatore concreto; abbacinato dalla luce del sole e dal mare, all'Etna riserva un amore primordiale, quasi divino. Il resto per lui conta poco. Nel segreto del suo studio non rinuncia al suo passato. Sul filo della memoria rivive emozioni mai cancellate: le foreste di Woodstock, la musica afro-americana, i musicisti che ha conosciuto e amato oggi appartengono ancora al suo sogno e rivivono sulle tele con la forza prorompente della vita: a quelli morti riserva ancora il brandello di immortalita' che  loro spetta di diritto. Tra gli artisti italiani dimostra di avere grande predilezione per Pasolini che ha ritratto molte volte.
Le foreste, gli alberi, gli uomini, con i loro misteri, fanno parte integrante della memoria che alimenta il sogno. L'America e' ormai lontana e non ne sente nostalgia. In questi anni vissuti a Catania egli ha conosciuto la citta', i suoi monumenti, i suoi anfratti piu' reconditi e la citta' ha imparato a riconoscerlo. Infatti e' popolarissimo per la sua aria “americana” trasognata, per la sua esistenziale disponibilita', per il suo sorriso, per la sua modestia.
Personalmente, nel mio lavoro, non mi sono mai lasciato influenzare dai curriculi (spesso conquistati per amicizie influenti politiche o mercantili) ma ho cercato di apprezzare gli artisti dal risultato del loro lavoro.
In Philip Hipwell ho sempre trovato una grande qualita' pittorica attualissima; un'evidente anomalia e' la sua  poetica vissuta come dettato dell'anima: egli dipinge solo quello che sente e quello che vuole, senza nessun possibile condizionamento. La sua onesta' intellettuale lo porta a lavorare con una serieta' maniacale compiacendosi a volte egli stesso dei risultati ottenuti con il candore di un bambino.
Nei suoi paesaggi in bianco e nero egli esalta luci e ombre del ricordo nostalgico e incosciamente doloroso, al punto che essi sono divenuti “la cifra” del suo operare, il segno distintivo del suo lavoro.
In Philip Hipwell ritrovo intatta le connotazioni romantiche del pittore d'altri tempi, per questo ho apprezzato il suo lavoro fin dal suo primo approdo nella citta' e, con entusiasmo, me ne occupo professionalmente gia' da alcuni anni, certo che presto il suo talento, divulgando adeguatamente le sue opere, raccogliera' i consensi di quanti sanno giudicare le opere con gli occhi illuminati dalla mente.

Virgilio Anastasi

 

 

Ho spesso pensato che la più grande qualità, la più bella virtù fossero quelle di tacere, di fare silenzio. Non ho mai interpretato i miei quadri, cercato di comprendere ciò che potevano significare. E del resto devono per forza significare qualcosa? Ecco perché ho evocato la mia vita così di rado, trovando inutile raccontarla. Invece di esprimere me stesso, mi sono sempre preso la briga di esprimere il mondo per mezzo della pittura.
Balthus, Memorie, Milano 2001, p. 36

I paesaggi di Philip Hipwell sono silenzi.
Boschi, radure, alberi, tronchi, rami, foglie che disegnano una trama foltissima senza luce e senza uomini.
Sopra un biancore abbacinante di cielo, compatto e nitido come un foglio bianco. Altri silenzi.
Si alzano spartendosi le linee e rarefacendo lo sfondo fino a segnare sulla tela le direzioni degli alberi che salgono, come se l’artista li guardasse dal basso, dal fondo di una terra misteriosa di cui vuole definire soltanto alcuni confini.
Philip Hipwell (nato nel 1942) è un americano capitato per caso in Sicilia. Non ama parlare della pittura né della sua vita; dipinge moltissimo. Divide la sua pittura tra le sequenze di questi paesaggi in bianco e nero, raffinati e precisi come stampe cinesi, taglienti nel segno sottile d’ incisore, e alcune sequenze di ritratti, personaggi - cantanti, pittori - dipinti a spatola. Rivendica all’artista una libertà estrema. Scegliere i modelli, cambiare stile e tecnica, usare linguaggi diversi. La pittura è un “territorio vuoto”.
La sua passione è per il disegno, e per chi, nella storia, “sa disegnare”, per chi abbia avuto una buona mano, a “good hand”. “Andy Warhol aveva una ‘good hand’”; e pure De Kooning “had a good hand”.
Dopo aver frequentato la School of Visual Art di New York (dove ebbe per compagni Calvin Klein e Gerard Malanga, il poeta e fotografo di origine italiana che divenne uno dei principali protagonisti della Factory di Andy Warhol), si mise a fare ritocchi sulle fotografie per la pubblicità, lavoro destinato a scomparire pochi anni dopo l’avvento del computer.
Le mostre non gli interessavano: ne ha fatte due in trent’anni: non sopporta sentirsi dire che cosa deve fare. 

Divide gli artisti della storia tra quanti “sanno disegnare” e gli altri che “non sanno disegnare” e snocciola i nomi dei maestri, nelle diverse epoche e nazioni, a cui ha guardato come modelli: Turner e Constable per il paesaggio, Whistler, Sironi, Balla, l’americano Thomas Eakins, Bacon e David Hockney. Una genealogia disordinata e distratta, che comprende anche Michelangelo, “some Michelangelo”, “lo scultore”. Gli artisti devono imparare dai migliori, “borrow from the best”.
Hipwell sa disegnare. Ama Whistler, il primo artista che abbia indotto gli europei a comprendere la pittura americana, “a real hero”, dice. Tra coloro che “sanno disegnare” aggiunge Rembrandt, Watteau, Goya, Degas, Schiele e Kathe Kollwitz.
Vive da tanti anni in Italia ma non gli importa di capire o di parlare italiano.
La sua idea dell’arte convive con l’aristocratico isolamento che gli ha permesso di continuare a dipingere per anni senza esporre, scegliendo di trasformare il suo sentimento per la natura e le sue idee di anarchico, di buddista, di pacifista, in una pittura potente e unica, concentrata e autosufficiente.
Dipinge come un incisore, dosando i bianchi e i neri, come se nulla esistesse, né prima né dopo. La tecnica è affinata e precisa, ma, spiega l’artista, quando incomincia un nuovo quadro, non ha idea di che cosa possa succedere. Gli capiterà di “trovare il cielo e di trovare il fondo” (“find sky find the bottom”). Nessuno dei suoi alberi nasce da un progetto preciso, premeditato. Dipinge da un’era primordiale, dove l’uomo, i palazzi, le “proprietà”, non esistono.

Di avvicinarmi dunque all’oscuro mistero della pittura la cui rivelazione è cosa lenta e aleatoria. (…) I differenti stati di un quadro rivelano il brancolare instancabile del pittore per arrivare a quello che pensa sia lo stato definitivo, concluso, compiuto.
 
E’ ancora Balthus, nelle sue umane e bellissime pagine delle Memorie.
Il segreto di Hipwell sta nell’inesausta capacità di porsi di fronte al paesaggio con l’umile devozione alla natura di tutti i grandi di ogni tempo che sembrano sempre aspettare, rivolgere una domanda e attendere una risposta mentre coprono con le loro linee gli spazi, i chiari, gli scuri, quei bianchi che dovranno diventare paesaggi. E’ allora che l’uso del bianco e del nero, con l’infinita capacità del grigio di assorbire, anticipare, riassumere, unire, rivela la  concentrazione di una meditazione assoluta. Che non conosce mediazioni, che non vuole sapere più nulla di quel che accade nel mondo, americano o italiano che sia, perché accetta la sua sfida da solo, in un paesaggio bianco e nero, che deve dire tutto, con pochi mezzi se non la sua sola bravura solitaria.
Le opere in bianco e nero, giocate magistralmente su tonalità soffuse di grigio, rappresentano una sfaccettatura di concetto all’interno dell’opera pittorica di questo autore. Se da un lato la grande padronanza tecnica di Hypwell è divenuta caratteristica distintiva della sua pittura, la ricerca sull’evanescenza delle tonalità di grigio apre un altro possibile discorso sul suo lavoro.
Fin dal 1965 infatti un altro grande pittore, francese di origine polacca, Roman Opalka si dedicava ai suoi Dipinti numerati, dove la sequenza dei numeri in ordine progressivo andava scemando d’intensità, numero dopo numero, riga dopo riga, quadro dopo quadro e giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, nella costante, registrata diminuzione del contrasto, avrebbe portato il quadro al suo biancore originale. L’affiancare a questo progetto, a partire dal 1972, una registrazione della propria voce nell’atto di contare, ha portato Opalka a sconfinare nell’opera concettuale a tutto tondo. Tuttavia questa vera e propria prova di resistenza tra il colore e la sua sparizione è presente anche nell’esperienza pittorica di Hypwell. La sua tenacia nell’accettare il contrasto del paesaggio che si staglia controluce, per poi annullarlo virandolo al grigio o al nero, verso il monocromo, crea un percorso affine tra questi due artisti, presenti nella descrizione, ma con la mente altrove. Pittori di concetto, quindi.

“Il nero richiede rispetto”, scriveva Odilon Redon nella sua autobiografia. “Non si lascia prostituire. Non rallegra l’occhio e non risveglia alcuna fascinazione dei sensi”.
Hipwell ha scelto di raffigurare i suoi boschi in bianco e nero. E non si concede nulla. Ma i passaggi, le infinite gradazioni di tonalità che gli derivano dalla lunga consuetudine con questa attitudine volutamente austera e monacale, sembrano premiarlo. Gli restituiscono la grandezza misteriosa di una natura non doma e non perduta, infinitamente imperscrutabile ma duttile, umana perfino.
Le sue pennellate sottili, il suo istinto, la sua pazienza, la sua devozione sembrano restituirgli la pacifica certezza della bellezza, depositandola sul quadro.
Quella di Hipwell è una natura bella, intatta, intonsa.
Il rigore del bianco e nero le restituisce una sorta di primigenia serietà.
Soltanto i grandi incisori non fanno rimpiangere il colore. Hipwell fa dimenticare il colore degli alberi.
Non ha più nessuna importanza. E’ una storia che non gli appartiene.
Si misura invece col colore in una vicenda strana, che racconta sbocconcellando le parole. E’ la storia di “Angelica, la nipote di Hitler”. E’ una pagina completamente diversa, dove la sua libertà d’artista rivendica la possibilità di dipingere altre cose, in tutt’altro modo. Figure viste da dietro, che guardano lontano. La “nipote di Hitler”, la figlia della sorella, personaggio oscuro recuperato da un americano che ha tagliato i ponti con ogni forma di storia, personale o universale, diventa l’immagine eterna di una donna, sola, tradita, abbandonata, in attesa.
Di una donna. “E’ come Ifigenia”, commenta Hipwell. Una donna che si sacrifica, che viene sacrificata, che indossa l’abito migliore per attendere il suo destino, quale che sia.
L’ampia parentesi di queste figure non è facile da decifrare. Gli abiti bianchi che indossa fanno pensare che Hipwell abbia investito in queste figure brandelli di ricordi personali, momenti di vita sua più di quanto non confessi. Sono bellissime figure di donna, abbigliate come per una festa nuziale, che sanno di dover perdere la sfida con la vita. Tutto accade in quello sguardo negato, nella circolarità che addensa in un solo istante il passato, il presente, il futuro. Sono di spalle, come nei quadri di Friedrich e dei suoi coetanei romantici tedeschi.

Il silenzio è uguale a quello dei paesaggi, ai boschi.
Il segreto di questo pittore sta nella capacità di stagliare un tronco di betulla in mezzo alla radura. Qui non c’è nessuna storia da raccontare, e, lasciata la parentesi dei suoi volti incombenti o di quella strana presenza che si concentra in una nostalgia assoluta, in una sconfitta totale, in un’assenza, resta la brulicante foresta che ogni giorno sembra rinnovarsi, come sotto le mani di un creatore felice.
I boschi di Hipwell sono boschi che vorremmo percorrere, anche se sappiamo che non li percorreremo mai.
E’ qui che la vicenda della donna misteriosa e quella dei suoi paesaggi, apparentemente più accostabile e comprensibile, trovano un punto in comune.
La sua natura non esiste, come, forse, non esiste una natura, ma un modo di vederla, che, nel caso di Hipwell, fa trapelare una nascosta nostalgia, una sorta di amore sommesso, uno slancio trattenuto.
Per l’uomo che non c’è, per l’uomo che non sa più guardarla.
Philip Hipwell parla come se fosse la natura stessa, che si dà, ma non concede tutto. Perché dell’uomo ha, giustamente, paura.


Beatrice Buscaroli
27 novembre 2006


 
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