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FRANCESCO CARBONE: LE FAVOLE PER ADULTI - UN'INVERSIONE DI TENDENZA

 

LE FAVOLE PER ADULTI
UN’INVERSIONE DI TENDENZA


“FAVOLE PER ADULTI” di Ignazio Apolloni consentono di riconsiderare la nozione di autore favolistico, di frantumarla nella sua etimologia, nella sua didascalica tautologia, per essere ricostituita subito dopo nel disincanto delle sue virtù. Un’inversione di tendenza postulativa scardina, sin dalle premesse, la struttura ordinaria della narrazione fiabesca per rifondarla, per esempio, al di là del mondo incantato di cui parla Bettelheim circa l’uso, l’importanza e i significati psicoanalitici delle fiabe.
E se Bettelheim sostiene che le fiabe del repertorio tradizionale non possono e non devono essere considerate sorpassate, o addirittura giudicate diseducative e come tali proscritte, Apolloni insiste invece su tale superamento, ipotizzando una nuova e più consona individuazione nella fiaba, forse più perspicace e laterale rispetto a quella perseguita da Marie-Louise Von Franz, e quindi data come trasferimento di tempi, di luoghi e di soggetti narrati nei quali lo stesso concetto di individuazione non è più la via d’iniziazione dello sciamano, la ricerca dell’eroe, né la via del mistico o l’incontro con un nucleo interiore del sovrannaturale.
Nelle Favole di Apolloni tutto questo è decantato dall’annientamento di architetture concettuali chiuse o finalizzato ai bisogni di un sistema etico prefigurato, affinché non la morfologia della fiaba si disponga alla ricerca di unità folkloriche universali, ma perché il linguaggio sia metamorfosi prima di se stesso e poi luogo di irruzione di un diverso immaginario sintattico, e spazio scomposto di posizioni e di funzionamenti differenziati per i soggetti narrati.
Così, Apolloni pone a se stesso e al lettore l’interrogativo sui nuovi supporti del linguaggio o sulle nuove forme della dicibilità favolistica.
L’autore si chiede cioè di cosa è possibile parlare in questo campo e cosa è stato sostituito sino ad oggi al classico dominio della fiaba; se le forme del linguaggio non abbiano subito mutamenti di comunicazione per rigenerarla. Ciò significa che il linguaggio è, per lui, un gioco di segni, ordinato meno secondo il suo contenuto-significato che secondo la natura stessa del significante; ma anche che questa regolarità della scrittura è sempre sperimentata dalla parte dei suoi limiti: si trova cioè sempre nell’atto di trasgredire e di invertire tale regolarità, che accetta per poi sfruttarla.
La scrittura si dispiega come un gioco che oltrepassa infallibilmente le proprie regole, passando così all’esterno.
Nella scrittura, quindi, il pericolo non sta nella manifestazione o nella esaltazione del gesto di scrivere: non si tratta di incastrare un soggetto in un linguaggio; si tratta dell’apertura di uno spazio in cui il soggetto scrivente non sparisce.
Ed è proprio ciò che sa evitare Ignazio Apolloni, la cui presenza nella scrittura si è sempre costituita per aggiramenti tattico-linguistici, in una sorta di gioco a rimpiattino nei quale il lettore deve “scovare” dove si nasconde non tanto il significato, ma il meccanismo mentale che lo presuppone.
Ripartite per categorie semantiche: Favole ecologiche, medievaleggianti, letterarie, politico-ideologiche, femministe, pubblicitarie, queste favole si attengono alle indicazioni di massima che le preannunciano, ma è il modo attraverso cui si dispiegano sugli indicibili territori dell’invenzione fantastica che le rende genialmente dissacratorie e diverse.
Esse diventano cioè accensione di un immaginario che è segno dell’appartenenza come dell’assenza, della riproposizione della storia, o delle storie, fuori dal tempo e dallo spazio convenzionali.
Tempo e spazio, in queste favole, cessano di essere ferree coordinate per diventare strutture mobili dell’ironia che a loro volta possono restringersi o dilatarsi in modo da comprendere o da escludere a piacimento ciò che è utile o meno allo strutturarsi della favola del pensiero.
La favola del pensiero è tipica dell’antropologia e segna il distacco dal ripetuto e dal seriale in favore dell’imprevisto e dell’originale.
Scrittore provocatorio e complesso, sottile e aristocratico, ma al tempo stesso divertente e accattivante, Ignazio Apolloni potrebbe appartenere benissimo - insieme a Donald Barthelme, Purdy, John Barth, Pynchon e Brautigan - ai più significativi rappresentanti della cosiddetta “post-modern-fiction”.
Il termine postmoderno è ormai talmente diffuso da disorientare spesso chi cerca di definirne il significato. L’iterazione, infatti, non sempre lo chiarisce.
Lo stesso Lyotard, autore com’è noto della condizione postmoderna, dice che il Postmoderno è, più che una teoria o una filosofia, “uno stato d’animo”. Più semplice e fruttuoso sarebbe a questo punto il ritorno alla lettura diretta di quegli autori che comparvero sulla scena letteraria negli anni sessanta sotto altre etichette (Beat, Pop, ecc.) e che vennero quindi definiti agli inizi degli anni sessanta dal critico americano Hassan “postmoderni”: sicché, ciò che sembra emergere non soltanto dalla produzione favolistica di Apolloni, ma dalla sua struttura poetico-narrativa complessiva, è un amore vissuto e costante per tutto ciò che, in modo intelligentemente ironico, grottesco, satirico, paradossale. sottolinea la mancanza definitiva di valori positivi dell’esistenza.
Visto che compito della scrittura non è più quello di rappresentare miticamente ciò che non può più essere organizzato in modo sistematico (in quanto l’esistenza ha ormai assunto come unico predicato il divenire non controllato), essa non può fare altro che ritornare su se stessa.
La scrittura in tal modo si trasforma in gioco; e scrive di se stessa facendo il verso beffardo e irriverente a tutta la propria tradizione.
Non è un caso, dunque, che a subire le conseguenze di tale operazione, sia proprio la fiaba, genere che, forse più di ogni altro, privo com’è di finalità esplicite, accoglie e legittima la compresenza di realtà e irrealtà.
E non è neppure un caso che, in una società dominata dai mass media, la fiaba prescelta per questa operazione di rivisitazione per molti sia la classica Biancaneve: non solo quella narrata dai fratelli Grimm, ma anche quella, forse più viva, di Walt Disney.
Solo che a differenza di chi propone una Snow White attualizzata, il gioco di scrittura che Apolloni pratica e trasmette con straordinaria vivacità, non è rivolto a rivisitare il già stato, né a riprodurlo con pretesti variamente mascherati, ma a crearlo di sana pianta, per cui paradigmi riferibili a repertori favolistici considerati ormai classici, restano nei confronti di questo personalissimo autore vaghe “forme della lontananza”.
Alle filosofie che hanno assunto come loro caratteristica la negazione di strutture stabili Apolloni - a differenza di altri - non oppone la forza della scrittura che peraltro ripete e rifonda, ma l’esigenza della perplessità, della dissolvenza, del distacco critico, del vario sperimentare, dei baluginii dell’altro, del fuori linguaggio, cioè quello che sta sia al di là che al di qua della totalità del senso e della necessità del segno.
“Malgrado i confini tra lingua e linguaggio - osserva lo stesso Apolloni - non siano stati ancora definitivamente tracciati, può assumersi per certo (o per “convenzionalmente” certo) che la prima esprime il dato storico oggettivo (la staticità o quanto meno sincronia), mentre il secondo connota la lingua nel suo uso quotidiano (per cui può ben parlarsi di ‘dinamismo’ o diacronia)”. Su queste premesse, dunque, un’analisi semiotico-strutturale di queste favole induce a rilevare come l’autore sia riuscito a stravolgere tutti gli schemi sia teorici che storici con cui esse sono state analizzate sin qui.
Di solito si può parlare dell’origine di un qualsiasi fenomeno solo dopo che se ne sia fatta la descrizione.
La favola invece è stata esaminata principalmente da un punto di vista genetico, senza un tentativo, nella maggioranza dei casi, di descrizione sistematica preliminare, quella che conduce poi alla classificazione.
Alcuni degli schemi, già adottati, stabiliscono la ripartizione in favole di contenuto prodigioso, favole di vita, favole di animali.
Ripartizione proposta da V.F. Miller, mentre W. Wundt, nella Psicologia dei popoli ipotizza un altro tipo di ripartizione, così concepito: a) favole apologo-mitologiche; b) favole di magia pura; c) favole e apologhi biologici; d) puri apologhi di animali; d) favole “sull’origine”; e) favole e apologhi buffi; f) apologhi morali.
Qual è, allora, la contrapposizione sincronica che non ripartisce ma slega temporalità e nessi logici, metafore, locuzioni riferiti a queste favole? È quella che risiede nelle decise snodature sintattiche, dove l’enunciato favolistico intraprende per proprio conto uno stupefacente viaggio iperbolico, migratorio, e tuttavia sempre presente nei gangli del pensiero concreto.
Nelle favole ecologiche, per esempio, tutte le nove parti di cui esse si compongono, vivono in un continuo alternarsi di invenzioni, dove ogni deviazione dai modelli dati è direttamente rapportabie alle disgregazioni semantiche degli eventi immaginati.
Così, ciò che permette di individuare il discorso favolistico sugli eventi non è, per Apolloni, l’unità di un oggetto, non è una struttura formale; nemmeno è una coerente architettura concettuale, né una scelta filosofica fondamentale; è piuttosto l’inesistenza voluta di regole di formazione per tutti gli oggetti delle sue favole (così opportunamente dispersi come sono); per tutte le sue operazioni linguistiche (che non possono né sovrapporsi né concatenarsi); per tutti i suoi concetti (che possono benissimo essere incompatibili): per tutte le sue opzioni teoriche (che spesso si escludono l’un l’altra).
Questa assenza dell’unità dell’oggetto favolistico tende ad accertare tra l’altro, non la pianificazione delle conoscenze o lo stile generale delle ricerche, bensì lo scarto, le distanze, le opposizioni, le differenze.
L’episteme cui tendono dunque quelle favole risulta essere diversa, sostanzialmente diversa da quella convenzionale alla quale ricorrono regole e norme, formazioni attinenti alla favolistica classica; e dalle coordinate che sono alla base delle morfologie praticate da Wladimir Propp.
Per Apolloni, invece, il sistema favolistico non è una sorta di grande teoria sottostante ma è uno spazio di dispersione e di ribaltamenti (etici, ideologici, poetici, narrativi, linguistici, comunicativi, ecc.); è un campo aperto e senza dubbio indefinitamente descrivibile di specularità conoscitive.
Questo gioco simultaneo di permanenze ironico-deduttive che sconvolge le regole, le logiche precostituite, le gerarchie sintattiche, nonché le cronologie sistematiche degli eventi favolistici, vogliono dimostrare come per lui ironia, arguzia, paradosso, iperbole, motto di spirito - in quanto prodotti di un’intelligenza attiva che elabora e trasmette - non appartengono allo stadio generale della ragione, ma a un complesso rapporto di decalages successivi.
Appartengono ad un particolare versante del fantastico nel quale si identifica, giacché l’universo favolistico di cui è autore, supera le coordinate spaziali e temporali, che sono le caratteristiche del reale e gli strumenti mentali di governo del reale, cioè la ragione e le sue procedure logiche, per offrire al fantastico ironico concezioni e dimensioni a-storiche, nonché procedimenti suggestivamente analogici, tali da determinare fratture nette rispetto alle considerazioni formulate da Calvino secondo cui: “il racconto di meraviglie magiche, dal ‘c’era una volta’ iniziale alle varie formule di chiusura, non ammette di essere situato nel tempo e nello spazio”.
Queste considerazioni presuppongono, quindi, una risposta alla domanda se la fiaba possa essere utilizzata come documento storico.
Se è impossibile, infatti stabilire dove e quando è nata una fiaba, è viceversa possibile, osserva Lavagetto, stabilire in quale luogo e in quale momento quel racconto viene narrato.
Le ricerche sulla morfologia, da Propp a Lévi-Strauss, a Greimas, a Jolles non hanno pregiudicato la possibilità di servirsi della fiaba in una prospettiva storica. Per Apolloni, al contrario, questa prospettiva storica diventa traslato di un orizzonte indefinito, di un altrove che conferisce alla Favola per Adulti l’indeterminatezza di luoghi, siti, eventi, personaggi, situazioni riscontrabili, simultaneamente, nella fenomenologia del vissuto sociale e in modo più diretto nella temporalità urbana e metropolitana per cui, anche per lui, “ridurre la fiaba al suo scheletro invariante contribuisce a mettere in evidenza quante variabili geografiche e storiche formano il rivestimento di questo scheletro; e lo stabilire in modo rigoroso la funzione narrativa, il posto che vengono a prendere in questo schema le situazioni specifiche del vissuto sociale, gli oggetti dell’esperienza empirica, utensili di una determinata cultura, piante o animali di una determinata flora o fauna, può fornirci qualche notizia, che altrimenti ci sfuggirebbe, sul valore che quella determinata società attribuisce loro”.
Ciò non significa tuttavia che Apolloni non affacci a questo proposito legittime riserve, soprattutto perchè gli intrecci linguistici di cui si compongono le sue strutture favolistiche, si dividono a loro volta in classi di unità.
Queste unità funzionali vanno ripartite in un piccolo numero di classi formali. Se si vogliono determinare a questo punto le stesse classi senza ricorrere alla sostanza del contenuto (referenza psicologica, per esempio) bisogna considerare il modo nuovo attraverso cui egli organizza almeno due livelli del senso: le funzioni e i suoi indizi. Questi dovrebbero già permettere una certa classificazione dei racconti: alcuni fortemente funzionali (come è il caso dei racconti popolari) e, al contrario, certi altri fortemente indiziali (come succede per i romanzi psicologici).
Tra questi due poli, esiste poi tutta una serie di forme intermedie, tributarie della storia, della società, del genere umano. Ma è anche da “questi” poli che le “Favole per adulti” si discostano, per attivare uno scardinamento deciso e tranquillo della storia o della vicenda nella sua verità tradizionale.
“La storia (questa storia) non solo è stravolta ma è accantonata per essere reinventata con contaminazioni di ogni genere, molto selezionate; in un contesto ambientale di assoluta anonimità (non però di rarefazione) anche quando in apparenza singolarmente definito. E i racconti architettati con attenta e calcolata misura, le contaminazioni o le singole invenzioni, spesso vigorose e provocanti, sorprendono”.
Queste lucide considerazioni di Roberto Roversi sono contenute nella introduzione alle “Favole per adulti”, le quali restano forma aggirata di una struttura creativa fondata sull’ironia: ironia che significa, a questo punto, senso del contrario al codice e allo schema, cioè contrario alla totalità del dato.
Da visione dell’ironico, quella di Apolloni si tramuta ancora una volta in straordinaria ironia visionaria, incisiva e caustica, deflagrante, giacché essa si produce nel momento in cui l’autore, anziché registrare l’atto o il proprio gesto, per esplorarlo e definirlo, subito lo giudica, innescandolo nella scrittura mediante un processo di semiosi illimitata, il cui svolgimento costringe il destinatario a decodificare la parola originaria per quel tanto che gli serve ai fini della comunicazione intrapresa o degli usi di riferimento per il quale lo stesso autore intende applicarlo. Già in “Niusia”, un romanzo ludico-visionario, come lui stesso lo ha definito, si ha una dimensione fortemente accentuata della diversità non soltanto umorale ma di struttura, appunto, riferita alla capacità dell’ironia di trasformare l’istituzione delle logiche (letterarie) precostituite in continui rischi istintuali affidati ai flussi divaricatori e irregolari della stessa.
È certo che nelle Favole per adulti, delle quali stiamo parlando, la distinzione anagrafica non è un segno premonitore, né un topos riservato ed esclusivo, ma un traslato dell’infanzia; anche in questa occasione il dominio del tempo e dello spazio narrativo in dimensione ultramanipolare, non è dunque, per lui, la condizione necessaria dello sviluppo del linguaggio usuale.
Così, mentre ogni sistema di comunicazione linguistica - e quella ironica in particolare - deve comportare da un lato, per Escarpit, una memoria e dall’altro un vettore, per Ignazio Apolloni comporta invece la decostituzione di entrambi questi elementi in favore di una comunicazione che non subordina il linguaggio alla normativa di elaborazione e d’uso convenzionale, ma lo offre invece alle controversie linguistiche e agli impareggiabili disincanti di una favolistica intelligentemente innovativa, quanto acutamente impudente e trasgressiva.

Francesco Carbone

 
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