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EUGENIO MICCINI - TESTO DI FRANCO SPENA

 

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FRANCO SPENA


EUGENIO MICCINI
Parole riscattate


Eugenio Miccini nelle sue opere fa della parola un evento, una sorta di cambiamento di stato, per offrirla con quello stupore che sopravviene per quei processi di straniamento attraverso i quali, a volte, alcuni dati della realtà vengono decontestualizzati dalla loro funzione storica per essere sottoposti a quello sguardo che le codifica secondo nuove e diverse identità. In questo modo il discorso che le parole conducono o di cui fanno parte, viene sottoposto ad una serie di processi di liberazione attraverso i quali è possibile percorrere le strade della poesia. Viene a realizzarsi un processo di dirottamento dalla letteratura che, per contaminazioni o per purificazioni successive,  trova interlocutori nelle immagini che le permettono di caricarsi di sensi imprevisti.
Miccini in tal modo produce un riscatto semantico della parola che si propone nuova in un impianto, leggibile anche, o forse soprattutto, alla fine, sul piano estetico.
E’ la poesia che si fa immagine o sono le immagini che traducono la loro iconicità in segni successivi, per condurre il discorso in un altrove che si muove in una diversità di tracciati percettivi.
In effetti, nelle opere di Eugenio Miccini, ci troviamo di fronte all’evento dell’immagine che si fa parola e della parola che si fa immagine. Non certo per operare una fusione che annulla l’una e l’altra poiché entrambe le categorie non si fondono per una operazione di pittura, ma per trovare nuovi accordi plastici che fanno dell’una e dell’altra tratti segnici che si sviluppano, se si può dire, attraverso una musicalità che si compone per altre successioni di ritmi. Perché, in fondo, è sempre sul piano della composizione che si ri-compone il senso della sua operazione, che rimane comunque attenta al rispetto di una sintassi accorta ai significati come alle sollecitazioni della forma.
Anzi l’artista, che proviene dalla poesia lineare, usa le precipuità linguistiche della parola e la polisemia delle immagini per comporre, attraverso una serie di rimandi, suggestioni, coreferenze, un tutto unitario, articolato e complesso, che permette di andare oltre la parola, che consente di andare oltre l’immagine.
La parola permette cioè alle immagini di acquisire quei sensi la cui lettura non si presenta subito evidente, mentre l’immagine, con la sua apparente estraneità alla parola a o al suo impianto segnico, concorre a costruire livelli di significato che probabilmente rimarrebbero nascosti.
Nella loro fondamentale diversità, le parole e le immagini vengono a situarsi in una collocazione compositiva tale che le mette in tensione facendole divenire fonte di una particolare espressione sospesa tra l’iconico e il verbale che origina poesia.
Il linguaggio visivo e il linguaggio verbale appaiono così intrecciati secondo una pluralità di sensi che il poeta architetta ed orchestra facendosi artefice di un nuovo livello di comunicazione.
Sviluppa una sinestesia tra codici espressivi dei quali è generalmente portatore il linguaggio dei media che con le sue continue contaminazioni attiva dei modelli di espressione che finiscono per standardizzarne le forme.
E’ proprio dall’esigenza di restituire alla parola utilizzata dalle nuove tecnologie della comunicazione una economia che le offra un riscatto che la restituisca alla dimensione dell’estetico, che nasce la “Poesia Visiva” di Eugenio Miccini, esposta insieme a quella di Lamberto Pignotti, nella prima mostra del Gruppo ’70, una poesia  “fondata sull’impiego di moduli e materiali tratti da linguaggi tecnologici (pubblicità, giornalismo, moda, burocrazia, commercio, ecc.) dirottati dal loro uso normale e riscattati esteticamente”.
La parola poetica di Miccini si configura come parola “riscattata”, per una “intenzione” che non la rinvia né alla letteratura, né all’immagine, caricata di ambiguità quel tanto che è necessario per liberarla dalla univocità di senso della scrittura tecnologica, ma anche per essere dirottata in una nuova configurazione poetica all’interno di quel complesso sistema di segni e di possibilità espressive che costituisce l’immagine. Eugenio Miccini si impadronisce e gestisce così una nuova tecnologia che fa parte di quella particolare condizione antropologica che caratterizza il linguaggio dei media e che finisce con l’abbracciare in maniera “fredda” processi di sensorialità che coinvolgono contemporaneamente ambiti percettivi di diversa natura. E’ il carattere proprio delle “Poesie Trovate” nelle quali il poeta viene coinvolto dalla galassia molteplice della comunicazione presente nel sociale, attraverso la ripresa di frasi e di “forme” tipografiche, caratteri di scrittura tratti dai rotocalchi, scardinando il discorso e utilizzandone i frammenti per creare effetti di straniamento che, mentre tradiscono il senso degli strumenti linguistici utilizzati, portano lo spettatore ad esperire piani di lettura che ancora si pongono come riflessione e problema.
Miccini, in particolare, utilizza il linguaggio e i meccanismi del messaggio pubblicitario manipolandone il senso, restituendo alla comunicazione il lirismo di una eticità perduta cogliendo, in tal modo, la valenza poetica del rapporto parola-immagine.    
Proprio per decontaminare i segni della parola, l’artista si affida spesso ai contenuti e ai significati, per una decontestualizzazione che esplora altre semanticità.
La poesia trovata, in questo senso, assume toni di “rivolta”, sia come rottura del senso comune, sia come riflessione su una condizione sociale i cui elementi alla deriva vengono ricomposti, recuperando parole già dette, ri-sistemandole per altre direzioni, per costruire racconti di emozioni per un “novolinguaggio” che indaga non solo sulla parola, ma sull’essere di una realtà che  si manifesta attraverso le sue contraddizioni.
A proposito della Poesia Visiva dice Filiberto Menna: “I poeti visivi hanno un’intenzione che è anche di ordine ideologico, in quanto tendono a sconvolgere un ‘ordine del discorso’ predisposto dai centri di potere. La pratica della poesia visiva è, da questo punto di vista, un procedimento di decostruzione dei mass-media e si presenta quindi come una pratica critica in quanto produttrice di un contro-discorso fondato su un intercodice visivo-verbale ed immessso dentro circuiti di significazioni diversi da quelli posti in atto dalla società del consumo”.
Un “buone vacanze”, in un suo collage emblematico, suona così drammatico, quando l’immagine di una coppia in crociera, introdotta dalla scritta “Rilassatevi sull’Atlantico / al centro di un mondo fidato”, entra in tensione con immagini di militari, di caduti in guerra distesi in ordine sul terreno, di una donna col volto straziato dal dolore e di un’altra che porge un fiore e con frasi a caratteri cubitali come “I signori della guerra viaggiano altrove”, “I signori della guerra sono già al lavoro” e ancora “Le capitali dello spettacolo, New York Londra, Parigi, Hanoi, Saigon”.
Cito le espressioni presenti in un’altra “poesia trovata” realizzata con caratteri di scrittura diversi e frammiste a una serie di volti campiti nella pagina insieme con un’immagine di donna in atteggiamento provocatoriamente sensuale. “Quando” “il mondo dell’inconscio in perenne lotta col mondo”, “della realtà”, “caccia i vostri problemi personali oltre i confini della realtà”, “le stelle della malasorte hanno” “pericolosamente vicine”, “precipitato nell’angoscia”, “avvelenati pensieri”, “non si può vivere con paura”, “tenete desta” “la coscienza”, “più amore”, “per cambiare la vita”, “cronaca vera”, “poesia trovata”.
E’ un Miccini comunque che non dimentica di essere stato poeta lineare, che sa cogliere e mettere in risalto anche quei sensi che gli permettono di riscattare la crudezza delle espressioni e delle immagini, a volte attraverso composizioni che colpiscono per il loro lirismo.
Ancora, in un tondo, un collage del 1991, intitolato Poeti”: “Poeti”, “state tenendo in mano una rivoluzione”, “elegante”, “progettiamo”, “la bellezza del duemila”, “conia”, “fantasia”, “e l’impegno civile”, “e il primato della parola”, “e la suggestione”, “dell’immagine”, “l’avanguardia”, “può ancora”, “servire”, “l’arte”, “e la civiltà”, “il di più non è”, “opera”, “soltanto”, “d’artista”.
Oltre la ludicità attraverso cui spesso si rappresenta per quella giocosa ri-messa in gioco delle parole attraverso le loro stesse immagini, o l’imprevisto utilizzo di un vocabolario di mmagini, la sua poesia visiva si connota per i forti contenuti sociali. Da una parte la festosità, la rutilanza del colore, il gusto verso una certa esteticità del comporre, l’uso del collage che assume caratteri pittorici, dall’altra una certa icasticità della comunicazione che, uscendo dal contesto visivo, si stacca dal vortice delle immagini e delle parole per dichiararsi incisiva e forte. Miccini finisce così per agire sui linguaggi non solo innescando un processo metalinguistico, ma operando una riflessione sulla cultura e sulla comunicazione per incidere in un sociale fortemente sentito anche, a volte, attraverso una pensosa ironia.
Malgrado l’utilizzo di una tecnologia diversa, la sua provenienza dalla “poesia” gli consente di strutturare la pagina come versi in disordine miscelando con attenzione e senza retorica i significati, manifestando il bisogno di connotare di una certa eticità il discorso, riducendo a segni gli strumenti del comunicare coi quali riesce a strutturare una rete semiologica dalla quale filtra una semanticità ritrovata.
Allo stesso modo incide nella sua formazione di “poeta visivo”, la  precedente pratica di pittore avvezzo all’uso della forma, degli equilibri, del colore, poiché c’è comunque un “ordine”, una gerarchia di piani, una sistemazione di superfici, nelle sue composizioni, che dall’apparente “disordine” delle “Poesie Trovate”, lo conduce nel tempo a ripercorre e citare immagini mitiche della storia, del costume e dell’arte, del cinema, del tempo presente, componendo ritagli il cui assetto tradisce un’attenzione misurata alla composizione come alla distribuzione nella pagina delle immagini e delle parole. Come nella serie dei “Rebus”, degli “Ex libris”, delle “Biblioteche”, nei quali il percorso dello sguardo  è suggerito attraverso una struttura più serena della composizione, articolata secondo criteri che tengono conto di personali soluzioni spaziali, o ancora quando usa la fotografia o torna ad utilizzare la superficie dipinta come nelle opere “La giustizia è conflitto” o “La natura ama nascondersi”, entrambe del 1991, inserendo anche elementi materici come ceramica, lettere metalliche, fiori artificiali, manifestando anche l’interesse per una oggettualità dell’opera che si evidenzia in molta parte della sua ricerca, come l’interesse anche per una sinestesia dell’espressione che lo conduce  spesso sul terreno della performance.
E’ lo spazio, infatti, che conquista sempre più la dimensione estetica della sua più recente ricerca che, mentre lo porta a campire spesso grandi dimensioni, lo conduce nel contempo a sminuzzare sempre di più il valore semantico della parola nella fantasmagoria di grandi composizioni che conducono ad un apparente perdita di senso del discorso.
I ritagli sempre più sottili vengono ricomposti in grandi composizioni di impianto spesso circolare,  ovale, od ottagonali, sistemati a raggiera, a spirale, a circonferenze successive, per cromatismi ricchi e articolati, secondo un sistema di segni o di immagini che converge verso una parte centrale all’interno della quale campeggia un motto, espresso con la gravità di una sentenza, una chiave di volta che riordina l’apparente caos del senso perduto e che riconduce la “pittoricità” dell’opera verso quell’orizzonte semantico che rimane  matrice del suo discorso.
Alcune espressioni significative che modulano il senso del viluppo compositivo dei segni: “Quando i simboli parlano la voce del silenzio leggere è un’avventura”, “Excessive language dangerous”, “Ogni volta che dico io intendo dire noi”, “Identità con le cose del mondo”, “La forza che tu sai quanto è pressante del banale”, “Una misura espressiva nuova elimina il vostro malessere”.
Da un punto di vista artistico le opere si configurano per un forte coinvolgimento visivo, inducendo quasi il “lettore” ad entrarci dentro, a penetrare in un teatro di forme e di colori che divengono parola in una surrealtà gioiosa e visionaria.
Assistiamo al sogno della parola che ruba all’immagine la dimensione, la forma, il colore, la polisemia, la capacità di produrre visioni, la possibilità di andare oltre la concettualità del suo proporsi per comunicare con l’immediatezza data dall’essere parte di un concorso di forme, di accostamenti, di aggregazioni compositive, comunque di armonie, di equilibri che danno allo sguardo, oltre il messaggio, il senso di una giocosità serena, di una compassata saggezza, di una razionalità che è quella dello studioso e del semiologo che, pur mantenendo un legame sentito con la realtà e il sociale, si pone in posizione di distacco, quasi sacerdotale, di calma quasi metafisica che gli consente di formulare espressioni come sentenze che non si fermano al loro dettato visivo, ma divengono massime filosofiche il cui significato impone una riflessione, un’indagine profonda nella complessità del senso.
In un collage del 1965 dice:
“Parlate poesia vi intenderete meglio
leggete poesia se volete
prendere il mondo al balzo.
Quello che avete a mano non serve.
Con modica spesa e minima passione
la ns. Società dà in cambio del vecchio
(ciò che non siamo, ciò che non vogliamo)
un mondo nuovo con lo sconto.
Non rimandate a domani, è acquisto da farsi subito.
Meglio del mondo
non c’è che il mondo”.
Questo nell’opera del poeta e dell’artista, del filosofo, di una personalità complessa che aggiunge, in un’opera più recente, su un fuoco scoppiettante di ritagli di giornale, di frasi al rogo,“Il poeta incendia le parole” – espressione ricorrente anche in altre opere -  per esaltarle forse, ma anche per sfaldarle, per bruciarle, per purificarle,  per farne cenere, per riscattarle, per ricondurle a quello stato originario anche di assenza di suono che le dispone a nuove nascite, che le rigenera a nuova voce poiché, come aggiunge in un’altra serie di opere, “Anche il silenzio è parola”.

 

 

 
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