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ALDO GERBINO: LE NEBBIE TATTILI E LE FERITE

 

LE NEBBIE TATTILI E LE FERITE

 


    Per Walt Whitman, il veemente autore di “Foglie d’erba”, il poeta va visto come una moltitudine. E’ il caso di Stefano Vilardo che lancia nel suo puzzle verbale l’io e gli altri e poi sono gli ‘altri’ che sovrastano l’io o meglio l’io si confonde col dolore, la gioia e le attese degli altri.
    Egli dunque, (il poeta – come scrivemmo – ne “I ‘luoghi’ della poesia” ) non è soltanto colui che ci propone un’immagine o ci sorprende con una interrogazione o ci pone un dubbio esistenziale o innesta, nel middle ground linguistico comune, la luce di una metafora, o ancora ci fa riconoscere quel tremulo confine che divide realtà e irrealtà, ma è moltiplicatore di tutte queste esperienze. Il poeta è come una vera e propria muraglia umana verso la quale ogni nostra richiesta può essere fagocitata e ridistribuita nel popoloso pianeta delle non-soluzioni che contraddistinguono la realtà dell’uomo, la verità, il bene, quelle categorie insomma, che sono il pane giornaliero di ogni uomo, di ogni poesia per (da) l’uomo. Questa immagine del poeta è una “dimensione” che fa riferimento a quelle “entità forti” che più di recente furono teorizzate da Bloom  nella sua “Anxiety of Influence” ove la titanicità del “Grande Inibitore”, attraverso scarti e inquietante angoscia, costruisce nuovi itinerari della poesia nel suo divenire.
    La situazione inquieta del poeta deve essere soprattutto vista attraverso la lotta (confronto tra la ’tradizione’ e il ‘presente’), con quel che è rimasto d’inesplorato nella tradizione affinché possano essere percorse strade “altre” della creatività.
    Se non sono visibili queste radure il poeta può tentare la via del mascheramento, o meglio, secondo Bloom, la via della dis-lettura (Misreading) o come la traduce E. Raimondi “de-lettura”, che caratterizza il doloroso percorso del fare poetico ma anche la visione percorribile del futuro:

And our vision, the vision of poets, the most
solid announcements of any.
[ “ E le nostre visioni, visioni di poeti, gli annunzi
più  saldi di tutti gli altri”].
scriveva nel 1881, nel suo “ Mentre percorrono questi solenni giorni “ (Dal Meriggio alla stellata notte), W. Whitman.
    La poesia quindi vive solo in parte della realtà e può usare una “realtà” che è collocabile in questo o in altro luogo:
Che importanza può avere il luogo (reale) nella poesia?
    Quando noi crediamo di riconoscere il luogo nella poesia o quando il poeta stesso ce lo indica con minuziosa precisione, siamo sicuri che è quel luogo? Il poeta stesso è sicuro che è quel luogo?  E il luogo del poeta non è forse il luogo della sua poesia? perimetro verbale dove tutti i luoghi confluiscono?
 - Il mio posto è sulla soglia.
 - L’uomo  è legame e luogo scritti.
 - Una lampada è nel mio tavolo e la casa è nel libro.
 - Abiterò finalmente la casa.
 - Camminerei dentro il libro: ogni pagina è un abisso dove l’ala riluce con il nome.
    Sono parole di Edmond Jabés dal “Libro delle interrogazioni”; allora luogo e abisso, casa e labirinto, oggetto e pensiero, qui e infinito sono categorie che si confrontano e si affrontano nella “poeticità” della poesia.
    E’ certo che la forma non ci dà la misura della poesia, essa è spesso un orpello, un grazioso ninnolo che abbaglia coloro che della poesia, o di quello che finge d’esser poesia, appare nel variegato
orizzonte letterario.
    Nella sua “Poetica” Aristotele già affermava come – il poeta ha da esser poeta di favole anzi che di versi in quanto egli è poeta solo in virtù della sua capacità mimetica e sono le azioni che egli imita. -  E Manara Valgimigli annota, nella sua traduzione della Poetica aristotelica, come egli è “creatore”, come per “capacità mimetica” bisogna intendere la capacità “creatrice” e comunque, le “azioni” non sono i “versi”.
    Se già Aristotele metteva in evidenza nella sua opera polemica (Poetica) come la poesia debba essere creatrice e che deve essere armonica come un organismo, oggi  più che mai ci si accorge che è sempre più difficile sottrarsi alla didascalia, ai facili costrutti. Contro quella “pedestrità” cui si fa riferimento nella “Poetica” viene esaltata la determinazione della “elocuzione poetica” ad esempio l’uso dei vocaboli “peregrini” cioè “ le parole rare, le metafore, le parole allungate, tutto ciò insomma che si allontana dall’uso normale”.
    Nell’Ecoutez la lecon du vent qui passe (l’incipit degli Astratti Furori di vittoriniana memoria), vi sono micro e macrotoponimi d’una poesia verso la quale Stefano Vilardo appare fedelmente legato sin dagli esordi della sua ricerca. Questo vento attraversando il gioco dilagante delle “onde luminose delle campane” s’inerpica nei luoghi del cuore, piccoli centri abitati, santuari, contrade: Gibilmanna, Mollo, Vatalara, Campella, Cafalù, Ferla. Poi s’insinua, con la rapidità delle volpi, sino a raggiungere le radici della memoria, quindi altri luoghi: Caltanissetta, Delia e il nisseno in genere.
    In questo percorso il poeta s’incontra con quella “infetta realtà che si rifiuta” per scorgervi le “agonie della vita” sempre alla ricerca di un “evento impossibile”, di una “parola chiave” che ci renda liberi (il poeta e noi) dalle  “sfere opache dell’indifferenza”.
    Eppure il tracciato creativo di Stefano Vilardo, maturato attraverso “I primi fuochi” (Sciascia, 1954),
 “ Il frutto più vero” (Sciascia, 1960) e “tutti dicono Germania Germania” (Garzanti, 1975) sembra articolarsi nell’ambito di una triade categoriale: pietà, morte e amore. In questi orditi dell’animo e della biologia esistenziale la poesia di Vilardo s’è andata, per così dire, stratificando. Da una “vita sostanzialmente minerale e di fauna e di flora” già messa in evidenza da A. Cremona per “ Il frutto più vero” s’è ancor più consolidata nelle iniziali prove letterarie quella “disposizione naturalistica (…) [ove] le immagini sono sempre cupe e l’aggettivazione tanto abbondante da apparire spesso querula “ indicando la “qualità adulterata delle cose”, lo ricorda N. Tedesco a proposito delle prime esperienze poetiche di Vilardo. Una adulterazione alimentata dalla costante osservazione condotta dal poeta sulla caducità delle cose, sulla negligenza naturale di ciò che ci circonda, sulla cadenza musicalmente penosa di un prossimo che sempre meno ci appartiene.
    Quindi una immagine dolorosa, angosciosa se vogliamo, della natura e della vita, di una natura che metaforicamente viene coniugata alla vita stessa dell’uomo. “Torrenti incidono scrive Vilardo in un testo deliano del 1964 – bianche ferite travolgono pietraie e l’acqua s’infossa in limacciose pozze di miseria”. Una miseria soprattutto umana, sensazioni inquiete e condizioni di dolore che prendono origine da un vissuto che si addossa il travaglio collettivo. Un intendere la poesia come momento oltre che individuale, sociale, ancor più per Vilardo, come trasmigrazione del mondo individuale al mondo collettivo determinata attraverso operazioni di (ri)scrittura in modo da (ri)creare, come accennava L. Sciascia in prefazione a “tutti dicono Germania Germania”, eventi e situazioni di forte carica poetica. (Ri)scrittura, (ri)creazione diventano, per dirla con C. Milanese, e come avviene in certa poesia post-moderna,  “scrittura”.
    E se Sciascia ha parlato sin dai”Primi Fuochi” di una “sensibilità nuova della parola” di stampo quasimodiano, c’è da osservare che per diversi aspetti un legame sottile è stato mantenuto con il poeta modicano  non tanto, come è più facile credere, per quel (lo metteva in luce De Robertis) “ gusto preesistente per la bella forma, per i modi classici, per certi movimenti d’obbligo e anche una difficile facilità di scrittura” quanto per una certa epigrammatica voluttà  nel risolvere determinate situazioni ambientali proprio nel creare (e ricreare) il rapporto spaziale tra poeta, elementi umani e territorio.
    Perché  il territorio, per Vilardo, è stato una molla di notevole spessore. La valenza, attribuita, ad esso, oltre che culturale, è stata biologica. Il poeta si avverte pasolinianamente come elemento proiettivo della sua terra, gioco interiore dei suoi colori, motivo di accorata ispirazione alla verità.
    La ricerca del rapporto tra “luogo reale” e “luogo metaforico” viene vissuta in maniera corale nell’epopea dei 42 racconti poematici di “tutti dicono Germania Germania” dove nella elaborazione di una scrittura  magnetofonica la (ri)creazione avvalorata da Sciascia s’avverte come un tono aggiunto al substrato poetico precedente. Ai quadri d’occasione, vissuti soprattutto come investigazione personale e collettiva, si aggiungono nuove e più urgenti tassonomie dell’animo, riverberi, sussulti sentimentali.
    Vilardo trasforma allora l’investigazione della realtà in levitazione della realtà con l’uso, e sotto l’influsso spontaneo, ma vigilato della sacralità e della metafora, di modulari fossili del proprio pensiero, (ri)immaginati, rivissuti come quei “segni di stratificazione” già evidenziati da Percy B. Shelley nella sua a Defence of Poetry.
    Shelley recita che il linguaggio dei poeti “is vitally mataphorical; that is, it marks the before unapprehended relations of things and perpetuates their apprehension, until the words which represent them, become, through time, signs for portions or classes of troughts in stead of pictures of integral thoughts” (è vivamente metaforico, rivela cioè, i rapporti prima non percepiti fra le cose , e ne perpetua la percezione fino a che  le parole che le rappresentano divengono nel tempo, segni di stratificazione o di classi di pensiero invece che rappresentazioni di pensieri integrali). Queste classes of thoughts diventano in Vilardo momento antropologico che sganciato dal suo potere di cristallizzazione, accusa una spinta sociale al canto: vero e proprio luogo dove i versi si sostanziano, lo annota C. Marabini, di un “tono di grigia lapidarietà” e ricorda, a tal proposito, la Spoon River di Lee Masters.
    L’ esprit social di Vilardo si consolida così nella poematicità di “tutti dicono Germania Germania” della quale nell’apparente ‘monotonia ‘ del dettato poetico affiora una organica orografia siciliana fatta di monti, colline, contadini e operai che a poco a poco sembrano perdere la loro linfa vitale. Gli uomini abbandonano la terra, la famiglia, e si trasferiscono, in una globale transumanza, nelle baracche delle città tedesche: “Ixti  Colonia  Manaim  Francoforte”. Qui soffrono di nostalgia, non si integrano con la nuova realtà industriale, soltanto epidermicamente acquisiscono l’effimera gioia del possedere poco (prima, a sentir loro, non avevano nulla) e ogni tanto affiora un rivolo di rancore verso la propria terra: “Ora una cosa sola vorrei – è scritto nel decimo tempo di questo accorato poemetto – che mi dessero la casa per la famiglia / e abbandonerei la Sicilia per sempre / Tutto abbandonerei / la terra la casa la vigna / e che ritornassero i lupi come una volta / in questa terra che più non ci vuole”.
    Il sociale è anche cronaca emersa dagli accadimenti del dolore quotidiano: “ Sì certo il dolore la violenza / che corre queste strade di rapina / e l’urlo che dilacera la sera / e rimbalza sui tetti delle case / e gli occhi folli di una madre prostrata sul bagagliaio di una Fiat / bara sepolcro croce al suo dolore”.
    Da quelle “piazze aperte alla paura” che raccontano, attraverso  lo spunto della cronaca giornalistica, la vita e la morte (questo ci ricorda per alcuni aspetti la ricerca poetica di un E. Fabiani) Vilardo ritorna ai dolori generali che coinvolgono e sconvolgono il nostro pianeta; s’incupisce per i genocidi, per le violenze politiche, per la morte degli uomini sempre più vestiti dalla coltre dell’indifferenza (Treblinka, Come Praga, un mattino di primavera; Il mare e le paludi; Vietnam, dicembre 1966; Dicotomia). Eppure il gesto poetico di S. Vilardo in questi suoi “Astratti furori” ritorna, attraverso itineraries modellati e misurati, su quel metro interiore fatto di sensibile sismicità, si veste di colori mediterranei che vagano in microeffluvi appena percepibili, tra i golfi delle coste e su per i promontori addentrandosi in quel cuore di fiamme nisee che è il centro di un mondo personalissimo.
    Così le nebbie sono odorose di “timi nepitelle e origani” e ancora nella griglia della memoria si arrestano images di “fichi al mattino” dalla “tenera buccia già tutta stracciata” e “siepi di cardi e di agrifogli” e “mandorli immobili” e poi ulivi, carrubi, querce, fino ai voli dei corvi, dei passeri, delle cinciallegre, delle gazze, delle civette che popolano questi versi d’una mediterraneità fatta di trasalimenti, di slanci fideistici, di colori e sapori, di rabeschi  ornitologici costituendo una leggiadra  (meta)fisica tattilità tanto cara alla cultura e al modo d’essere della parola latina. Questa è vicinissima al “luogo” valutato soprattutto per la sua capacità d’estensione, una estensione / estendibilità sorretta dalle letture postermetiche di Vilardo e particolarmente dalle suggestioni della civiltà letteraria ispanica (frequente la citazione dei Campos machadiani) e di tanta poesia così detta ‘religiosa’ che s’è espansa nel periodo postrealistico come voce non autonoma ma integrata nel quadro generale della lirica novecentesca.
    In queste griglie le metafore ornitologiche e marine rappresentano la traduzione esistenziale di quei vaghi idilli caratteristici del primo nucleo della scrittura di Vilardo. Equoreità e mediterraneità fatte di cielo e terra consentono di vedere oltre la paura, il terrore, l’angoscia del quotidiano e di focalizzare la parete d’approdo della speranza, vera e propria lancia interrogante rivolta all’orizzonte. “Forse è il dolore, la gioia, - scrive Vilardo in ‘Cattedrali’ – la paura o l’orrore per l’inconoscibile, / che ci  sospinge come uccelli, / di passo a miti cieli / in cerca di equilibri più sicuri / di zone chiare / di gioiosi annunci”.
    Stefano Vilardo poeta scevro (strano a dirsi, a meno che non abbia letto sì male il suo animo) da rivalità personali, “pensoso poeta” a detto di M. la Cava, sembra contraddire, con l’ironia che gli compete, il dettato di Benjamin per cui “le rivalità personali tra i poeti sono naturalmente di data antichissima, (…) per la trasposizione di questa rivalità nella sfera della concorrenza sul pubblico mercato”. Un mercato che la poesia non possiede o disconosce nelle sue profonde articolazioni di marketing letterario fatta (forse) eccezione per i freschissimi (nel tempo) e banali tanka insalatieri della giovane nipponica Tawara Machi (Sarada Kinembi) – L’anniversario dell’insalata - , Tokio, 1987). Se in Vilardo non c’è assoggettamento né materiale né ideale al concetto di  “mercato” v’è però un assoggettamento alla funzione catartica del linguaggio poetico.
    Il contact con la parola poetica si fa lacerto linguistico, a volte arricchito d’immagini graveolenti e di enucleate memorie, poi si condensa e metamorfosa in realtà affiorate con perentoria e spontanea lucentezza, nell’insieme delle falde terrestri e verbali. Da queste emerge il suo consistente legame alla vita, meta probabilmente primaria, spina dolorosa che si staglia come ne Le livre du dialogue (al punto”dilatare gli orizzonti della parola”) nella voce lamina di Jabés:
Scendere, cenere.
Discendere nella cenere.
Dalle ceneri
All’infinito
.

La morte, come il cielo, è in basso. In basso alla scala.

In cima c’è l’ascensione, l’anima, la vita.

Aldo Gerbino

per Gli Astratti Furori  di Stefano Vilardo

 

Palermo, Villa Scalea, agosto 1987

 
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