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GESUALDO BUFALINO: GIOVANNI A PATMOS

 

Giovanni a Patmos
E udii dietro di me una gran voce, come d’una tromba...
Apocalisse, I
E ti scrivo di qui, da questo tavolo remoto...


L’affabulazione montaliana nelle Notizie dal monte Amiata deve essere cara a Giovanni Occhipinti se così spesso la echeggia e reinventa: “Ti parlo da questo esilio della vita” (Agli Inferi, pag. 14); “Da un punto ignoto, da questa tenebra // d’infinito (o di infinito amore?) ti indirizzo // parole... (Il giorno che ci vive). Con la variante che la proposta di colloquio, che dal suo buco nero di solitudine il poeta più giovane lancia all’assente, probabilmente sordomuto, “tu” della vita, non si deposita pacificamente nel medium dello scrivere (che sarebbe già una significativa reificazione dei sentimenti), ma sembra volerlo scavalcare per scorporarsi in oralità sempre più corrose dalla balbuzie postwittgensteiniana. È qui, infatti, la felice contraddizione di Occhipinti: di trovarsi - con quel dolce cognome ibleo! - condannato dal sopruso dei tempi a dover ripetere le energiche eloquenze del profeta che ha il suo stesso onomastico; e, nel medesimo tempo, di non credere, lui per primo, non dico alla veridicità, ma nemmeno alla semplice verosimiglianza di ogni informazione o linguaggio: al punto che si fa obbligo, mentre apre le labbra alla supplica o al diverbio, di nascondere dentro i crepacci dei sintagmi (bombe vere o bombe carta che siano) la macchinetta di un’esplosione.
Contraddizione che non s’è inventata lui, d’altro canto, e con la quale ogni escatologo ha dovuto o dovrà fare i conti. Dal momento che i primi tuoni del finimondo, per l’udito di chi l’intende in anticipo, difficilmente obbediscono al metronomo d’un solfeggio, ma fanno pensare piuttosto a quella storia di anagrammi umani che in un suo cerchio Dante inventa per le smozzicate e dissonanti membra dei ladri. Non è sempre così. Non sempre Occhipinti s’indugia con l’occhio a coltivare nelle sue storte le deiezioni del vocabolario e a censirne le cellule di sfaldamento. Egli conosce il segreto della strofe lunga, che incalza se stessa in un affanno di commoventi risposte e domande, quasi un inarrestabile farnetico in progress che si fa voce dai mille spiragli della coscienza infelice. Non solo: ma alle ragioni che lo spingono in avanti, verso la valle di Giosafat, egli non si stanca di contrapporre quelle che lo piegano a ritroso nei secoli sino a palpare le prime radici della dannazione dell’uomo.
Così, fra protostoria e poststoria, egli si scava un originale territorio poetico, una trincea che confina da una parte con la Scienza nuova e dall’altra coi Novissimi (non i poeti, intendo, ma i Novissimi biblici).
E si capisce che la forza della voce non può sempre sostenersi al di là dell’effabile né reggere fino alla fine lo sforzo di mimare l’apocalissi, bensì conosce pause, ironie, intimità, sospiri. Da far sperare (e che altro sarebbe la poesia se non fosse una insperabile speranza?) che sulle acque della grande pioggia possa, chissà, volare un mattino l’ombra d’una colomba.


Gesualdo Bufalino
Introduzione a Il giorno che ci vive, Bastogi, Foggia, 1983.

 
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