Incontro con Carmelo Pirrera: di Fulvio Castellani “Sempre il poeta avrà il ruolo di coscienza vigile”
A tu per tu con un autore i cui versi sanno scivolare leggeri ancorandosi all’intensità della memoria. Nato in un paese “senza mare, bianco di calce e nero di miseria, considera conciliabili i ruoli di poeta e narratore. Ma la poesia gli permette di “scordare il pedale del freno”.
E’ piacevole ed illuminante, addentrandosi nella lettura di un autore, seguire il flusso del suo pensiero riappropriandosi magari di una verità o di un sogno che stavamo perdendo di mira. Nel caso di Carmelo Pirrera ciò che si è verificato dopo aver ripercorso a ritroso un itinerario dentro la sua poesia che avevamo gustato alcuni anni orsono e che ora si ripresentava quanto mai gratificante con le pagine delle sillogi più recenti ( Naufragio presunto, Tradotta per Roncisvalle, La farfalla di Brodskij, Cronaca…) ed i romanzi ( Buio come la notte, Epilogo per Paolo il caldo…) . Di certo in Carmelo Pirrera il continuum creativo è una delle componenti primarie. Ogni sua incursione fantastica segnala un ritmo interiore che condensa i paesaggi di un animo sensibile seguendo un input consolidato e dalle sfaccettature poliedriche. Ogni suo ancorarsi alla storia, all’onda lunga della memoria e degli sviluppi culturali, non fa che sottolineare la profondità del suo discorso, del suo dialogare con se stesso e con gli altri. I personaggi da lui tracciati sono decisamente vividi. I suoi versi non sbandano mai, scivolano via leggeri e pregnanti, modulati come sono nel segno di un intersecarsi di accenti e di note che si aprono ad abbracciare il “cuore” di un pensiero, di un’immagine, di un ambiente, di una realtà, di una vicenda vissuta o ri-creata sull’onda di un silenzio ciarliero, di un passo mai frettoloso e distante, di una malinconia che fa il pari con l’indugiare alla ricerca di una via di fuga “da tutto ciò che è irrimediabilmente grave, pesante ed arido per raggiungere una dimensione di libertà e purezza”, come ha rimarcato Anselmo Bea nella prefazione a La farfalla di Brodskij. Carmelo Pirrera, tra l’altro, dirige una rivista di testi di poesia, ha diretto una collana di poesia contemporanea e curato delle antologie, tra cui un rapporto sulla poesia siciliana dal titolo Gli eredi del sole. Sue poesie sono state tradotte in diverse lingue e una sua raccolta di racconti: Il colonnello non vuole morire (Pukovnik ne zeli da umre), è stata pubblicata nel 1965 in Jugoslavia in lingua serbo-croata. Da ricordare poi che nel 1993 ha fatto parte della delegazione italiana alle “Serate di poesia” di Struga in Macedonia. Ecco così che il discorso intavolato a distanza con lui non poteva che risultare rivelatore di un autore dai moduli stilistici e dalle sequenze espressive a dir poco unitari. E’ vero che un poeta ha sempre un sogno davanti a se e l’ombra di una realtà che lo comprime nel cuore? Quali i perché a suo avviso? “Ho letto che quando nasce un poeta sua madre si dispera (Baudelaire) e debbo convenire che la povera donna ha mille e una ragione. Sì, va bene avere sogni, alimentarli, eccetera, ma è il tempo e la realtà il podere dove seminare e raccogliere; ed è lì, nella realtà, che persino i sogni e le speranze devono mettere le radici, pur avendo coscienza che in arte la realtà è destinata ad essere tradita”. Che ruolo dovrebbe e potrebbe avere nella moderna società dei consumi e multietnica un poeta o, sarebbe forse più esatto dire, un letterato? “Il poeta, in qualsiasi tipo di società, avrà il ruolo di sempre, cioè di coscienza vigile, affinché quei valori che fanno di un uomo un uomo non vengano negati o travolti. Distinguerei, però, tra poeta e letterato. Il letterato è un uomo di studio che ama la poesia, mentre il poeta è un uomo che è amato dalla poesia e non può farci niente”! Se fosse vissuto (lo diciamo parafrasando un pò quanto da lei scritto in Quaranta sigarette) in un paese diverso avrebbe preso altre direzioni, incontrato altra gente e scritto altre poesie e altre storie? Oppure no? “Senz’altro avrei incontrato altra gente e scritto altre cose. Ma temo che – fatalmente – avrei finito per incontrare il mio cuore”. Delle “mille cose che furono / e sono lago e memoria”, che cosa ricorda più volentieri? “Ricordo, soprattutto, gli amici incontrati e perduti: gente rara; le donne amate sia pure per un solo momento, e mia madre, la sua tenerezza, il suo amore tenace e discreto. Ci sono pure dei luoghi dove mi è parso che la mia anima incontrasse quella del mondo. Non so come dirlo: una specie di comunione”. Ha mai negato se stesso scrivendo? “No, non mi nego scrivendo. Anzi mi cerco di là delle vanità e debolezze proprie degli animali scriventi. Qualche volta mi trovo, qualche altra m’invento. In ogni caso mi accetto: un pò di bene – così come sono – me lo voglio”. Cosa rappresentano per lei il mare, il sole e il silenzio che compaiono assai spesso nelle sue poesie? “Sono nato in un paese senza mare, bianco di calce e nero di miseria. Perciò il mare per me è un grande dono (un risarcimento?) inatteso; verso il sole vanto un credito che definirei “storico” per quel tanto che ne venne negato ai miei antenati costretti a lavorare nel buio delle miniere. Il silenzio è una specie di alveo o grembo ove si raccolgono e ricompongono queste cose – denuncia, protesta e consenso – che sono la mia piccola storia”. Si considera più un poeta oppure un narratore? “Non considero diverse o inconciliabili le due cose, e credo la distinzione utile ai soli fini didattici. A me, quando scrivo versi capita di raccontare storie e scrivendo un racconto accordo spazio alla poesia. Qualcuno me lo rimprovera, qualche altro lo apprezza. C’è da dire che scrivendo poesia mi scordo del pedale del freno e non lo uso: lascio il pensiero correre, libero di godersi la sua ora d’aria”. Concorda con Anselmo Bea quanto ha scritto nella postfazione a La farfalla di Brodskij, ovvero che “sotto il peso delle parole non è forse il tempo, anche per la poesia, di morire definitivamente oppure di rinascere prepotentemente dalle sue ceneri”? “Ogni tempo ha i suoi pesi e i suoi castighi. L’età dell’oro è una invenzione dei poeti desiderosi di avere qualcosa da rimpiangere. Una favola. In ogni tempo la poesia, testimonianza inconfutabile dell’esistenza dell’uomo, è chiamata a resistere, a risorgere e ad esistere”. Chi butterebbe alle ortiche dei poeti che vengono fin troppo osannati dalla critica ufficiale e dalla grande stampa? “Non butterei nessuno. Il tempo finirà col buttarci tutti, bravi e meno bravi, nelle ortiche dell’oblio; farà giustizia delle nostre vanità. I più fortunati avranno un busto in marmo ai giardini pubblici e finiranno col naso rotto. Non vorrei si pensasse che io abbia qualcosa contro la vanità e i vanitosi. Lo siamo tutti un poco se continuiamo a scrivere versi dopo che lo hanno fatto Dante, Shakespeare, Omero”. Visto che anche lei fa parte dei “testimoni” del Novecento letterario di casa nostra, cosa pensa di poter traghettare a favore dei poeti e degli scrittori emergenti di questo incerto avvio di secolo? “Vorrei poter traghettare e trasmettere la fede nella poesia e l’amore per essa (non soltanto in quella che si scrive); raccomandare un rapporto onesto con la pagina senza lasciarsi fuorviare da logiche e illusori successi di bottega. Evangelicamente, la buona pagina è premio a se stessa. Direi di lasciare alle cricche dei mediocri l’affannoso distribuire tra loro premi ed allori di plastica: i nani hanno bisogno di tacchi assai alti”.
LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA n. 89 Anno XVIII – I Trim. 2008
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