Anne Sexton morì suicida nel 1974. Nonostante sucessi e premi, dall’inizio la sua opera fu oggetto di valutazioni opposte: di rifiuto totale o di pieno consenso. Il tempo, sedimentando la furia delle mode poetiche, spegnendo le passioni della critica del momento, sta rivelando quanto la sua poesia abbia saputo penetrare e radicarsi nell’universo poetico, non solo anglo-americano. Negli ultimi anni la critica femminista negli Stati Uniti, e una diffusa, crescente attenzione alle complessità della sua produzione, hanno contribuito ad additare quanto nei versi colpisce diritto al segno. Sexton, facendo sue le parole di Kafka, avrebbe voluto che ogni raccolta fosse “l’accetta che rompe il mare ghiacciato dentro di noi”. E’ riuscita nel suo intento. Suoi versi, nei loro metri apparentemente elementari, sferzano chi legge. Il primo incontro non è facile. L’accettazione segue quando percepiamo quanto profondo sia il dramma in cui recitano il Triangolo Edipico, la Morte e la Follia; quando riconosciamo lo sguardo, il sorriso ironico, e auto-ironico che, come in “Venere e l’arca”, sembra risolvere nel superiore distacco del sapere poetico, la lotta fra la vita e la morte che è poi il tema che lega le poesie. Quando l’ironia si perde, quando l’occhio non può prendere le distanze dall’oggetto, la poesia di Sexton si trasforma in ricerca metafisica, nel “terribile vogare verso la morte” delle raccolte successive a Trasformazioni in cui il bisogno di salvezza e di Dio è aspirazione a sé finalmente pacificato. Le poesie di questo volume, scelte all’interno delle prime cinque raccolte dell’autrice, formano un corpus dinamicamente scandito dal ritorno di temi, simboli e forme, come la lettura in stetta successione di “La doppia immagine” e “La bella addormentata nel bosco” può dimostrare. Perno della scelta, i testi sul fare poesia, tema centrale di “Diceva il poeta all’analista”, “Una come lei”, “Magia nera”, “Perdere la terra”, “La chiave d’oro”. Per una rara e felice coincidenza, Anna Gradenigo, Daniela Attanasio, Sara Zanghì e Stefania Portaccio, poetesse incontratesi in un laboratorio di poesia, si sono appassionate all’opera di Sexton, che nel laboratorio di poesia aveva trovato la propria forma. A partire da una mia traduzione letterale, hanno trasformato i suoi versi, ciascuna filtrandoli nella propria misura, adattandoli al ritmo dell’italiano. Una finale lettura collettiva ha contribuito alla omogeneità dell’insieme. Marina Camboni
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