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GIORGIO MANNACIO: NOTE ALLE POESIE. UN TESTO PARALLELO

 


3. Note alle poesie. Un testo parallelo .
.1.
Si afferma, credo correttamente, che il poeta non debba fornire una interpretazione per così dire autentica dei propri testi e imporre ad essi un significato univoco. Del resto, anche se lo facesse, il lettore potrebbe , di fatto , trascurare il precetto e cogliere nella poesia il senso che più lo soddisfa.
Dalla premessa dalla quale sono partito si suole trarre la conclusione che l’apposizione al testo, da parte dell’autore , di una o più note, sia pratica illegittima e pericolosa  da guardare con sospetto e, dunque , da bandire.
Io credo che tra la premessa e la conclusione non vi sia un rapporto necessario dato che le note al testo possono essere di diverso tipo. Ve ne sono talune che si limitano a contenere informazioni; altre che ammiccano al lettore e tendono, più o meno esplicitamente , ad attribuire un senso determinato alle parole cui si riferiscono.
Dando per scontata la relatività di tale distinzione , la si può però euristicamente accettare sulla base dell’esperienza  concreta  che realmente conosce diversi tipi di note a seconda della funzione a ciascuna di esse attribuita dall’autore.
L’anatema – ammesso che abbia senso così come si deve ammettere che non ha senso l’interpretazione autentica – va dunque riservato alle note interpretative e non a quelle informative.
E qui si aprono delle digressioni singolari.
2
Ma, prima, dirò che comunicando per mezzo dei segni costituiti delle parole , dobbiamo dare per scontato, realisticamente, che alcuni termini non dicano nulla al destinatario. In queste condizioni è lo stesso segno ad essere muto , rivelando così l’inutilità assoluta ancorché parziale di una parola.
Se in un testo poetico si parla, ad esempio della poseidonia  , posso ragionevolmente supporre – data la natura tecnica del termine – che esso sia muto per alcuni o per molti.
Quando nella relativa nota ( da classificare come nota informativa )  l’autore scrive che la poseidonia è un genere di pianta acquatica perenne le cui foglie – staccate dal moto ondoso – si trasformano in pallottole setolose che rotolano sulla spiaggia , egli non vuole attribuire alla nota alcuna funzione diversa da quella di far capire al lettore che il termine individua quei curiosi oggetti con i quali il lettore stesso ha ripetutamente giocato sulla spiaggia del mare . La nota riattribuisce al termine muto una parola identificatrice dell’oggetto designato.
Gli esempi si possono moltiplicare e investire fenomeni naturali, luoghi, nozioni scientifiche , persone assunte nella loro quidditas oggettiva . Insomma alle più svariate entità che il lettore , per i più disparati motivi , non riesce a collegare ad oggetti della propria esperienza.
 Spesso i poeti sono soliti anteporre , al testo della poesia,epigrafi ( detti memorabili, versi di altri poeti …etc ) la cui innocenza è discutibile ma , a volte, anche ad esse può essere attribuita, almeno in prima battuta , una funzione informativa.
Altre volte viene inserita , nel testo , una parola straniera o addirittura un intero periodo ( indifferentemente di prosa o poesia )  in una lingua estranea a quella dell’autore . Per il momento – è però prossima la scoperta delle digressioni – possiamo limitarci a dire che la parola o la frase in lingua straniera sono mute per definizione e che la nota che le traduce nella lingua della nostra esperienza è una nota informativa.

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Le cose stanno così o solo così?
Posta la questione nei termini in cui l’ho posta , la nota informativa rivela oggettivamente e senza scappatoie la sua natura di prolungamento del testo. Tale testo e solo esso la giustifica e  ad esso e ad esso  solo essa inerisce.
Per il momento mi fermo ad usare il termine prolungamento e non cedo a valutazioni suggestive che potrebbero esprimersi con termini più ambigui come ipotesto o ipertesto. Ma è proprio questa oggettività – prudentemente predicata – che complica l’intera vicenda e fa assumere alla nota informativa un aspetto decisamente più interessante e più dinamico  
E’ inevitabile , infatti , che la parola diventata da muta a parlante in virtù della nota e per questa via accolta nel mondo del lettore , partecipi  a pieno titolo al destino di quella parola cui ha tolto la caratteristica di essere muta. Essa, ridiventata quello che doveva essere , sarà necessariamente oggetto di interpretazione e la nota che la riguarda – parimenti – oggetto di una ricerca di senso come il testo cui inerisce.
Questo ulteriore passo che – relativamente alle note acquista un senso particolare
( come vedremo di qui a poco ) – riguarda anche il titolo della poesia, titolo al quale si dovrebbe prestare maggior attenzione e attribuire maggior peso. La carica di tensione che ha lavorato all’interno dell’esperienza poetica , almeno dal romanticismo in poi , investe anche il titolo e ne trasporta la funzione oltre quella che sembrerebbe tradizionale ( e banale ) di una indicazione sintetica di contenuto.
   Dobbiamo pensare – oggi – che il titolo appartiene già al testo poetico e che anch’esso abbia a che fare con il senso complessivo della composizione.
   In una poesia che – indipendentemente dall’esito estetico – voglia essere tale fin dall’inizio , lo statuto che il poeta si è dato per costruirla secondo ordine e necessità investe anche il titolo e – in coda – anche le note.
4.
   La domanda perché il poeta usi parole mute ( termini tecnici, desueti strani,stranieri , statisticamente poco noti e così via ) è al tempo stesso oziosa e pertinente .
   Oziosa nel momento in cui viene riconosciuta al poeta , come deve essere riconosciuta , la massima libertà espressiva cui corrisponde il più ricco uso dei segni.
  Ma è  anche pertinente ( e questo mi sembra l’aspetto più interessante ) in quanto , al di là della constatazione di u n fatto , tende ad indagare le ragioni di una modalità espressiva piuttosto che di un ‘altra e, dunque, ha a che fare con la ricostruzione del percorso interno dell’esperienza poetica.
Se – alla fine – la conclusione è una sola, la diversità dei percorsi segnala diversificate scelte espressive e, in definitiva, diversi atteggiamenti teoretici intorno all’uso della parola.
La conclusione è una sola in quanto la nota, risolvendosi in un ulteriore campo di segni interpretabili accresce la necessità della ricerca di senso spostandola dal testo ( principale ) al testo ( parallelo ) e rendendo necessaria la comprensione integrale del primo e del secondo . Ma è una conclusione scontata e , in un cero senso , banale. Più interessante è, invece, seguire e analizzare la diversità delle modalità di percorso.
    Da un punto di vista strettamente razionale la necessità della nota è massima laddove l’oggetto di essa sia costituito da una parola o gruppo di parole di altro idioma,ovvero dall’indicazione di una entità sconosciuta o scarsamente conoscibile dai più. Di fronte a tale eventualità il poeta può scegliere di lasciare muta la parola ovvero farla parlare attraverso la nota. Nel primo caso il lettore è affascinato dall’enigmaticità della parola muta ma a ciò ( al rilievo di tale enigmaticità ) si ferma la sua interpretazione..Se la nota gli fornisce la traduzione ( che implica l’identificazione della lingua cui la parola appartiene ) , se si perde la suggestione , in verità abbastanza limitata , correlabile all’enigmaticità, si guadagna tutto quel corteo di significati che la parola, divenuta parlante  e accessibile , si trascina dietro. In questa sequenza possono acquisire significati , altrimenti sepolti , tratti dalla considerazione della radice della parola tradotta  e che in quanto tradotta conserva una traccia delle sue suggestive origini.
    Questo vale anche per una parola scritta nel linguaggio degli dei come  moolu ( Odissea X, 302 ) la cui carica evocativa nasce dall’inutile e suggestivo lavorio degli interpreti antichi e moderni piuttosto che dal segno con il quale Omero nomina la radice di una certa pianta. Ed è certo più suggestivo del curioso Pape Satan , Pape Satan Aleppe  ( Inferno VII ,1 ) l’alone di spiegazioni intessute intorno a questo, altrimenti quasi ridicolo , verso da tutti i dantisti.
    Lo stesso discorso vale anche per le parole con le quali si rende parlante un termine relativo ad oggetti rari, fenomeni complessi appartenenti a campi del sapere non facilmente accessibili , a località sconosciute , ad eventi stoici poco noti.
    Sciolta l’unicità del termine in una pluralità di termini esplicativi , ognunodi essi pretende di essere interpretato e, dunque, la parola frantumata in più segni diventa più pregnante e più significativa.
    Il massimo  della astuzia della ragione poetica si presenta però nei casi in cui una nota non occorrerebbe affatto perché la parola è di per sé oggettivamente parlante e accessibile , nei suoi significati usuali , alla totalità o maggioranza dei componenti la società dei possibili destinatari. In questi casi la nota sfiora pericolosamente il limite che divide la nota informativa dalla nota interpretativa , ma sul carattere relativo di tale distinzione avevo già espresso un avvertimento.
    Sembra, nel caso che sto esaminando , che il poeta strizzi l’occhio al lettore per avvertirlo che si, va bene, la parola usata designa proprio quella cosa e non un’altra ma proprio in questa sottolineatura inutile e ironica si cela un ulteriore artificio dello statuto del testo.
    Nel momento stesso in cui la nota sottolinea ( inutilmente , ma solo in apparenza ) che la parola appartiene al vocabolario comune, ribadisce una caratteristica fondamentale del fenomeno poetico che è data dalla sua posizione dialettica tra tradizione e innovazione e che si esprime , in sintesi , nella continuità del segno inserito nella discontinuità della storia. La continuità del segno riguarda l’appartenenza del poeta alla comunità di quelle persone alle quali il segno deve dire qualcosa , ma l’uso storico ( qui ed ora ) di quel segno nel testo esprime l’individualità irripetibile dell’esperienza poetica.
    La nota che informi sul percorso del segno è la testimonianza di un pensare e un agire collettivi che assumano una dimensione individuale e sottolinea, dunque, in senso generale , l’appartenenza del singolo ad una oggettiva e reale presenza di più soggetti destinati ad accogliere in qualche modo un messaggio.
    La nota tende , in definitiva , ad aprire, nel solipsismo del poeta , uno spiraglio sull’universalità sottolineando che ciò che appartiene al primo deve , in una certa misura, appartenere anche alla seconda.
    Se non si arretra davanti alla destrutturazione formale della grammatica perché dovrebbe spaventarci l’esperimento consistente nell’uso della nota come catalizzatore di altre associazioni rispetto a quelle permesse da un testo apparentemente tradizionale ?

Giorgio Mannacio

 

 
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