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JULIEN RYSHAAC: SULL'ACQUA

 


SULL’ACQUA


Avevo remato parecchio, placido e calmo, e adesso il mio sguardo vagava sognante sulla traslucida distesa d’acqua, ormai dimentico di procedere e del trascorrere delle ore. La giornata era calda, l’aria vibrava di mille scintillii luminosi: ninfee, bianche ninfee a perdita d’occhio, e tra le loro foglie i remi giocavano pigramente, ignari e silenti.
Dov’ero? Dove mi trovavo?
Non lo sapevo più: sapevo soltanto che di buon mattino mi ero accinto ad una gita in barca sul lago, con l’oscura idea di recarmi sull’altra sponda, dove si trovava la villa di un’amica della mia ospite, alla quale, se l’avessi voluto, avrei potuto porgere i suoi saluti…
Il sole era già alto nel cielo, e i suoi raggi pungevano ormai da ore i miei muscoli tesi nell’ebbrezza del remare, ma sul lago tutto era calmo, al largo come in prossimità delle rive, fatta eccezione per un flebile gracidio che si perdeva remoto tra le ninfee.
Per veder più chiaro nella mia avventura, improvvisata fuga da un nodo fattosi d’improvviso più tenace di quella distesa di ninfee sulle quali la mia barca s’inoltrava quieta fino ad un’insenatura ombreggiata da un boschetto fluviale, prossimo punto d’approdo per la villa dell’amica, bisogna riandare lontano, ad un nome che la sera prima era riecheggiato nella mia mente riconducendomi ad un passato ormai antico, ad un doloroso bagaglio di ricordi che l’esperienza mi aveva convinto a credere sarebbe rimasto per sempre serrato, pur se non per mia volontà…
Chi di noi non ha amato una donna, in gioventù, senza mai riuscire a dimenticarla in età matura? Strano rapporto il nostro, fatto di fughe e incontri, quasi un giocare a rimpiattino con un sentimento che entrambi sentivamo crescere in noi, nostro malgrado, giorno dopo giorno… Fino al culmine, a quell’istante, a quel momento irripetibile della vita in cui, senza parlare, senza quelle vuote frasi che sviliscono un sentimento inesprimibile, l’uno aveva letto negli occhi e nelle mani tremanti dell’altra il suo stesso amore…
In quell’istante fu come se si fosse esaurito tutto: lei fuggì da me, dapprima in modo inavvertito, poi sempre più palese finché, trascorsi pochi mesi, la fine dei sogni giovanili e l’ingresso nella vita ci separò completamente.
La cercai più volte, talvolta acconsentì a vedermi, e così durò per anni: non avevano importanza i nuovi amori, lei tornava di quando in quando a me, spinta da quella sottile dolorosa nostalgia per quell’unico attimo vissuto insieme, che avrebbe voluto serbare come una gemma incontaminata per tutta la sua esistenza.
L’attimo non si ripeté più, né del resto poteva: il tempo e la vita non concedono repliche.
Continuai sempre a cercarla, e alla fine lei rifiutò di rivedermi. Addolorato, straziato dal rimpianto di una gioia che avremmo potuto vivere insieme ma che la sua volontà si ostinava a negarmi, la pregai di spiegarmi il motivo del suo comportamento.
«Desidero…» rispose esitante, «desidero che tu rimanga sempre con me, come lo spirito della giovinezza non corrotto dalla realtà…»
Fu tutto. Ma io non mi rassegnai: la cercai ancora, anche quando seppi che si era sposata, e anche allora mi scacciò, con quella sua voce irata che ai tempi del nostro amore era la promessa di una nuova felicità.
Ricordo che le avevo chiesto di sposarmi, ai tempi del liceo, non so più se per scherzo o per legarla a me, ma anche allora aveva rifiutato. E non perché non mi volesse, ma forse perché, per quel presagio interno che avverte pochi eletti di quel che sarà il futuro, voleva ricordare di me solo la passione e non l’abitudine.
Eppure io la seguivo sempre, da lontano. Nuovi amori avevano preso possesso del mio cuore, il tempo aveva mutato il mio corpo, i miei lunghi capelli biondi di ragazzo erano stati tagliati e avevano perso il loro lucore di miele, rughe sottili ornavano il mio sguardo, ma in quell’angolo del mio passato dove stava chiuso lo scrigno dei ricordi più preziosi, nulla era cambiato.
Lontana e distante la mia Leda, votata alla sua lunare impenetrabilità, avevo spesso tentato di aver notizie di lei dalle compagne di un tempo, escogitando anche i più sottili inganni pur di riuscire a rivederla. Non che volessi turbare la sua pace familiare, no: volevo soltanto rivederla, riaprire quello scrigno, incurante nella mia superficialità di disperderne il contenuto. Sapevo soltanto che tra noi nulla era finito, che tutto era fermo a quel giorno, a quell’ora, e mi accanivo come un bambino che vuol ripetere il suo gioco all’infinito, incurante delle proteste degli adulti
Le compagne di un tempo furono generose ma crudeli: mi dissero che era felice, e che il tempo su di lei sembrava non essere trascorso. Seppi che gli anni le avevano arrecato un nuovo fascino, smussando le spigolosità della sua giovinezza, e che nella pace coniugale si ristorava ogni giorno dalla sua vita diurna, intessuta delle mille noie di una donna baciata dal successo.
Queste parole fecero morire sulle mie labbra una domanda cruciale: sì, era felice, senza dubbio, e per me non c’era speranza…
La barca ondeggiava lentamente, circondata da bianche ninfee: sporsi un braccio per coglierne una, ma i suoi petali scivolarono in acqua prima che potessi afferrarli. Avevo scelto un fiore troppo maturo… un bocciolo, uno di quei boccioli simili ad uova di cigno, avrebbe resistito di più, pegno candido di perdono destinato a colei che la mia nostalgia aveva offeso…
Ma perché? Che m’importava adesso di lei, sbiadito essere privo dello splendore del ricordo? Lei, la mia Leda, era a pochi metri da me, e non visto, avrei potuto vederla e forse, anche, se ne avessi trovato il coraggio, sorprenderla col mio improvviso comparire. Non mi avrebbe scacciato, no, non stavolta, non in casa sua…
Avevo appreso la sera prima che sarebbe stata sola alla villa, sola con la figlia, una bambina di appena sei anni, tardivo tributo ad un destino femminile che non aveva mai fatto mistero di non voler condividere con le sue simili. Il marito, trattenuto da impegni di lavoro, la raggiungeva solo durante i fine settimana nella villa sul lago.
La mia nuova amica nulla sapeva dei sottili legami che mi avvincevano alla mia Leda d’un tempo, e mi aveva fornito tutte queste informazioni durante una cena che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto concludersi ben diversamente…
Per lei, la mia Leda era solo un piacevole vicinato della stagione estiva, la curiosità femminile per una natura di donna che ha scelto di rinchiudersi impenetrabile alle futilità del suo sesso: seppi così che in quei mesi vestiva sempre di bianco, avvolta in lievi vesti informi, la cui stoffa generosa poco o nulla celava delle bellezze di un corpo dorato dal sole che lei amava ancora come un tempo…
Il sole! Quante volte mi era sfuggita dalle mani come sabbia per trascorrere le sue giornate al mare, la cui carezza l’appagava più delle mie!
Scossi il capo e ripresi ad andare, addentrandomi nell’intrico delle ninfee e delle erbe lacustri. Curvo sui remi, spiavo di sottecchi il punto d’approdo: un piccolo imbarcadero tra il fogliame, minuscola cattedrale di ombre glauche, dove le ninfee, al riparo dai raggi del sole, si offrivano al mio sguardo in tutto l’enigmatico candore dei loro boccioli appena dischiusi.
Lanciai una corda, fissai la mia barca e scivolai lesto verso la villa. La evocai tutta, gelida e immota come le acque che la circondavano, sfuggente e capricciosa come miriadi di anni prima, e per un istante tornai lì, fui nuovamente un ragazzo, trepido e ansioso come un tempo. Ero e non ero più io, e m’illusi d’aver ingannato il tempo…
Un impercettibile rumore mi ricondusse a me stesso, e fu come la risata del tempo: non lo avevo ingannato.
Un lampo bianco tra le foglie, una risata infantile, poi la sua voce…
Mi rannicchiai dietro un cespuglio di canne lacustri e attesi. Lo scalpiccio dei passi della bimba si allontanò, e per qualche istante percepii solo un rumore felpato, nel quale riconobbi la sua andatura.
I passi cessarono. Perché?
Rimasta sola, la vidi osservare intenta il fogliame  Conosceva già forse il motivo del suo fermarsi? Voleva ancora fuggire? Ostinarsi come sempre a fuggire? E da chi? O forse, da cosa?
Ambiguo, sottile segreto di passi che vanno e vengono, e conducono lo spirito riottoso dove brama la cara ombra celata, che attende…
Cara ombra, perché sapevo di esserle ancora caro: altrimenti, perché avrebbe disdetto all’ultimo momento la sua presenza ad una festa di ricordi? Perché quel suo fuggire anche dal vedermi insieme a tutti gli altri, negandosi ad un’allegra riunione nell’anniversario del nostro liceo?
Non per paura, no…
Lei conosceva il perché del suo arrestarsi, proprio lei, che un istante prima mi era venuta inconsciamente incontro: e per me non era adesso osare troppo, divincolandomi dai giunchi e dalla mia mentale sonnolenza che involava la mia lucidità, per interrogare sino in fondo il suo mistero…
Mi sarei presentato a lei, con la scusa di essere lì per caso…
Il tempo, finalmente benevolo, stava per tornare indietro, forse, concedendomi, nell’ombra verde di una cattedrale di foglie, quella squisita vacanza di sé dove tutto può essere osato…
E la vidi, non visto, e fu come se una forza immensa mi avesse incatenato a quei giunchi: la vidi e capii… Lontani, si è insieme, separati, si è avvinti, complice lo spirito di una giovinezza incontaminata che il ricordo incompiuto tinge dei colori del sogno… Cosa, cosa avrebbe potuto darci di più la realtà? Quali parole d’amore avrebbero potuto mai eguagliare la sua schiva, feroce ritrosia di una vita? Perché destarsi da un sogno?
Cosa fare? Consigliami, mio sogno…
L’ombra bianca svaniva già tra il fogliame, attirata da una voce che la chiamava con un nome che nei miei sogni non sarebbe stato mai il suo.
Tornai indietro, slegai la barca e colsi un fiore, una di quelle socchiuse ninfee bianche, bianco uovo di Leda che mai si schiuderà, bianco uovo di cigno che mai spiccherà il volo…
La sera, lo donai alla mia amica.

Julien Ryshaac

 

 

 
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