|
|
Poeta di schietta vena e capace di un’alta resa stilistica, Carmelo Pirrera pubblica in questa silloge alcuni dei suoi versi più sentiti e toccanti, dettagli di un evento luttuoso: quello della morte della madre. E’ dunque questo un omaggio che egli ha voluto dedicarle, e nel comporlo la sua parola ha raggiunto momenti di intensa e pura liricità. Qui nulla è superfluo, nulla indulge all’occasione, bensì tutto è profondamente necessario e sofferto. La rievocazione dei giorni e degli anni vissuti insieme alla persona cara scomparsa è fatta dal poeta con semplicità ed anche con rara virtù evocativa; con allusività e con rattenuta commozione: e proprio per questo risulta maggiormente efficace. “Ora ritorno / e non ho più compagni, / solo una solitudine che cresce / nel cuore antico, prepotente pianta. / Cresce, germoglia / ma non mette un fiore: / soltanto spine in questa primavera / che cerca di ingannarci coi colori” (Ritorno. Non mi chiedere da dove). Le liriche della silloge sono precedute da alcuni versi in dialetto siciliano, tratti da antiche ninne- nanne locali, che valgono a creare un’atmosfera particolarmente suggestiva, affiorando in esse come l’eco di voci ancestrali. La raccolta si apre con la metafora del lupo, che rappresenta l’uomo divenuto adulto e quindi pronto alla lotta per la vita; metafora che ricompare altre volte in queste poesie e sta a indicare l’evoluzione dello stesso poeta, nel suo passaggio dall’adolescenza alla giovinezza e poi alla maturità. Significativo è l’andamento melodico, che induce a pensieri di sofferta tristezza, in un vago ed assorto ricordare il tempo andato: “siamo cresciuti e abbiamo ucciso i lupi: / la prima sigaretta, poi una donna, / la prima sbornia triste”. La madre era allora però sempre presente e lo seguiva con affettuosa apprensione: “Un ragazzo che fa tardi la sera, / né pecora né lupo: gli occhi lasci / appesi al davanzale / e lo segui nel buio delle strade”. Il legame che tiene stretti madre e figlio è il tema centrale che accompagna come un filo d’oro l’intera plaquette; ed è espresso con levità e con acutezza d’intuizione psicologica, che consentono all’autore di pervenire a risultati di grande efficacia poetica. “-Che ti sei fatto figlio? // Erba cattiva che non muore mai, / reimparerò ogni volta a camminare, / mi scorderò di piangere: // sono cresciuto, divenuto lupo, / a volte ho fame / e sempre freddo, madre” (E poi dormivo). Ne emerge un canto sommesso e profondo, che prende e trascina, perché scaturisce dalle stesse radici dell’anima, da cui affiora quella verità umana nella quale sta la nostra più autentica nobiltà ed il segno del nostro destino: “E intanto attendi se una voce giunge / interrogando in gioco solitario / re, cavalieri e donne delle carte / o riandando a un tempo leggendario / da sembrare già tempo di nessuno. // Non posso darti il cuore / che ho consunto / in un amore lungo, quotidiano” (Certo che non potevi). Il ragazzo è andato lontano, inseguendo le sue strade; ma qualcosa ognora l’ha tenuto legato alle proprie origini, alla sua casa materna. Ed è ciò che gli ha dato luce e conforto e l’ha sorretto nel suo cammino. Il rapporto tra lui e la madre è rimasto ben saldo negli anni: ed è stato un vincolo che neppure la morte ha potuto del tutto spezzare, da momento che anche ora che lei non è più egli può ripetere: “Benedici la polvere e le spine / di questo viottolo che s’apre in un pendio: / la scelta non è facile, si cade” (Eppure lo sapevi). Poesia genuina quella che Carmelo Pirrera ci offre con la presente raccolta; poesia di classica misura e di limpida e tersa comunicatività, che giunge a noi senza lambiccamenti e faticose sperimentazioni: e proprio per questo va diretta al nostro cuore e saldamente lo tiene. Elio Andriuoli
|
|
|
|
|