IL PROFETA Me ne avevano parlato più volte lungo la traversata da Liverpool a Palermo: più spesso a tavola che non mentre mi godo il sole al tramonto, tra uno spruzzo di acqua salata e l’altro, seduto su una sedia a sdraio. Gli orari sono dunque quelli compresi tra le dodici e l’una (si fa tutto di fretta a pranzo) e tra le diciannove e trenta e le ventuno in quanto subito dopo inizia il cabaret. Dato il frastuono delle risate di chi ha deciso di rimanere in piedi perché magari non soffre il mal di mare – o non può fare a meno di sentire battutacce o derisioni contro questo o quell’uomo di spettacolo, per non dire il politico di turno – sarebbe stato impossibile deglutire le pillole a base di “Vedrai, non avrai da pentirtene, scoprirai altro che un guru, in lui; una sorta di santone, un bramino birmano, un monaco tibetano o se preferisci il Budda reincarnato in persona”. In verità, è il caso di dire: ben mi sta, me la sono cercata. Ed infatti negli ultimi tempi è come se avessi un’ossessione: devo assolutamente sapere chi sia questo tanto favoleggiato Francesco Carbone del quale si scrivono in tutti i giornali (compreso quello per il quale lavoro) le mirabilie. Che dunque attenda il mio arrivo e sarà servito a dovere. Mi avevano dato trentamila battute, non una di più. Spazi quanto voglia, dai dati anagrafici ai tic nervosi (se ha dei tic nervosi) ma non mi lasci invischiare in questioni di cuore che poco interesserebbero i nostri lettori di Liverpool. “Abbiamo già troppo da fare con gli appassionati di musica, coloro che non smettono un attimo di incuriosirsi alle vicende sentimentali dei Beatles. Ci mancherebbe solo che cercassimo di penetrare nei meandri ormonali di un siciliano nato in Libia e perciò più sanguigno di uno che sia nato invece in Groenlandia: passi appunto se si trattasse di una foca. È alla sua cultura smisurata in materia di teatro e di arte, di letteratura e costumanze dei pastori di Godrano, di poesia e Singlossia, di ludi di agosto e fescennini che bisogna guardare siccome quella di chi la sa davvero lunga. Non c’è infatti chi abbia letto un suo articolo sui vari quotidiani nazionali italiani, o riviste bene informate, che non sia rimasto sbigottito. Come farà a sapere tutte quelle cose, amalgamate come fa un tintore con stoffe e colori per fare uscire una tinta per lacca, è ciò che dovrà scoprire” mi ordina il direttore. “Per farla sentire a suo agio” (mi sbatte in faccia in perfetto cockney sapendo che non potrei permettermi simile lusso) “le pagheremo un biglietto di prima classe sulla Queen Mary. È previsto un suo scalo a Palermo. A bordo troverà un nugolo di esperti in cose siciliane. Provi a sedersi al loro tavolo. La infarciranno di luoghi comuni tipo la ragazza con la pistola che è stata sedotta e abbandonata ma quanto a cultura contemporanea e a chi da quelle parti se ne intende non faranno altro che il nome del Carbone”. Prendere o lasciare, presi al volo la proposta. Me ne potrà venire una promozione se la corrispondenza sarà ricca di spunti per riqualificare la città di Palermo e il suo entroterra composto essenzialmente di pastori. Credo comunque che la proposta fattami non sia del tutto innocente. Se l’operazione va in porto (ecco spiegata la ragione del mio imbarco sulla nave da crociera diretta in Sud America sulla scia di Magellano; ed anche nel senso che imbarcarsi in una simile impresa non è appunto cosa da poco) se ne avvantaggeranno e ne trarranno profitto i tour operators con lo spedire in Sicilia gente che a Liverpool non trova altra emozione che quella di andare ai concerti dei Beatles mentre lì si tiene addirittura da qualche anno La Settimana di Nuova Musica (e questa sì che è musica per le mie orecchie). Pare che tra i big – intendo critici ed esperti di nuove tendenze rivoluzionarie nel campo della musica e dell’arte – ci sia proprio lui, il già detto Francesco Carbone. Si dice (anzi si ventila) che tenga mostre nella Libreria Nuova Presenza dove ha esposto il meglio di artisti e scultori ancora non troppo conosciuti epperò di lì a poco lo saranno secondo le sue previsioni. “Indaghi. Sa quanto siano assetati di originalità i nostri galleristi. Corredi i servizi di immagini sia di tale libreria che delle opere esposte. Se può si procuri una copia di Presenza Sud: un capolavoro, mi si dice, in materia di grafica; dal contenuto biblico quanto a previsione di disastri nei confronti del dejà vu”. Mi aveva imbottito, gonfiato fino all’inverosimile, il direttore del giornale: il Liverpool News. Finito l’incontro – questa volta non di routine – mi sentii come una mongolfiera, un dirigibile, uno Zeppelin (e speriamo che almeno questo non vada ad infrangersi contro un pak). Faccio ovviamente salti di gioia lungo il corso principale della città e chi passa mi prende per matto. Avessi un ombrello mi prenderebbero per il fratello di Mary Poppins o qualcosa del genere. Io però me ne impipo, ho l’asso nella manica e, in tasca, il biglietto di prima classe sulla Queen Mary. Mancano alla partenza tre giorni? Ed ho tutto il tempo di sfogliare le carte che mi hanno fornito al giornale. Mi manca qualche notizia sui gusti (pare che siano parchi) di quel tale personaggio (in parte scomodo e in parte comodo se lo si invita a teatro e gli si dà una poltrona per assistere allo spettacolo, altro che una seggiola)? e sopperiranno coloro che diventeranno i miei commensali, sopratutto a cena, durante la crociera. Ovviamente rifiuterò di giocare a bridge, invitare qualche dama occhialuta a fare un giro di valzer perché soffro di capogiri e poi si annuncia un mare tempestoso: vuoi quello del Canale della Manica vuoi all’altezza dello Stretto di Gibilterra. Diverso quando saremo entrati nel Mediterraneo. Frattanto però avrò vomitato pure le budella ed è grasso che cola se, rimanendo in cuccetta, sarò riuscito a mandare a memoria le domande da porre alla preda. Mi accolse con una tale affabilità da disarmarmi. Dire che il suo sorriso fu serafico è dire meno della metà della verità. Mi fece sedere sul divano. Si mise in posa dietro la macchina da scrivere perché scattassi la prima istantanea risultata, quanto alla resa, inguardabile perché ebbe a chiudere gli occhi proprio al momento del flash. Mi invitò a osservare attentamente i molti quadri appesi alle pareti del salotto: regali degli artisti che aveva tenuto in un certo senso a battesimo (lo si accreditava infatti alla stregua di un laico con qualche tendenza catto-comunista – mi sussurrarono all’orecchio un paio di miei commensali al tavolo da pranzo, e cena, sulla Queen Mary. Che dunque stessi alla larga!). Mi mostrò una miriade di libri stampati da illustri case editrici – e da lui ovviamente acquistati – con prevalenza teorie di tutti i tipi che conosceva a menadito, ed essendo nel contesto territoriale nel quale operava l’unico che ci capisse qualcosa. Pensò bene di portarmi a vedere il suo museo privato che in quel momento era in fase di allestimento e che poi chiamò Godranopoli. Rifiutai. Era il personaggio-uomo ad avere titolo per apparire a quattro colonne e caratteri cubitali sul nostro giornale. Solo così avrebbe seppellito quei quattro ragazzacci che rispondevano ai nomi di Lennon e soci. Restiamo pertanto qui, e vediamo cosa vien fuori. Alle prime battute dell’intervista mi sembrò un tantino amareggiato ma non lo diede troppo a vedere (mi domando come io stesso abbia fatto a scoprirlo: a meno di mentire). Si rilassò con il fumare tutt’intera una sigaretta (mentre io sì che soffro in quanto ho smesso di fumare). Ordinò al bar vicino casa sua (il Golden) una tazza di caffè per sé e un tè al latte per me: “Molto caldo, mi raccomando, è per un inglese”. Ci demmo, quindi, dopo le notizie sul privato, a fare domande e ricevere risposte rigorosamente da me sbobinate ogni sera per poterci costruire il servizio. Debbo a questo punto precisare che, potendo scegliere, per il riposo notturno dopo le molte ore trascorse in lungo e in largo per avere contezza dei geni incompresi di cui la città di Palermo si vanta (e qui è d’uopo visitare le molte gallerie dove, mi si dice con una certa cattiveria, che il buio non manchi) avevo deciso di “scendere” (nella letteratura ottocentesca si diceva appunto così: scendere) a Villa Igiea, piuttosto che “salire” all’Hotel des Palmes. Troppo rumoroso infatti questo luogo, nonché lugubre a ben considerare la morte prematura di persone di riguardo come Ettore Majorana o Raymond Roussel che ivi pernottarono o ci lasciarono la vita a ricordo perenne di un rapporto intrinseco tra uomini e cose. È all’Igiea pertanto che invece di dormire mi limito a riposare tendendo però l’orecchio per captare qualche fischio – seppure lamentoso – di battello in arrivo o in partenza, anche meglio se nave da trasporto passeggeri. Non che mi sia già stancato di una permanenza che non sembra dare molti frutti se non le arance della Conca d’oro (almeno così sono chiamate e prezzate nel mercato della Vucciria dove ho imparato a venire per comprare le sigarette di contrabbando da portare agli amici, in quanto come ho detto non sono uno che fuma: semmai mi fumano gli zebedei a vedere lo scempio che si sta facendo di questa città un tempo levantina e oggi moderna in tutto tranne che nel midollo) ma è che il Carbone mi rimanda di ora in ora gli appuntamenti ulteriori perché sta scrivendo – alla macchina da scrivere di cui mi sembra addirittura di sentire il ticchettio – non so quale presentazione in catalogo a una mostra di arte biodegradabile: e frattanto però il mio caporedattore freme perché il giornale deve andare in stampa. Preso per la gola a un certo momento finisco con il prendere lui per la gola, lo costringo a scendere a patti. Ed ecco che si trasferisce – lui, il sedentario, dallo sguardo comunque tanto lungo da valicare le Alpi ed altresì l’Oceano Indiano, dal fiuto di un hound a caccia di una lepre – nella Villa Igiea: nella stessa stanza in cui ha dormito lo zar di Russia dopo il terremoto di Messina e dopo che la sua flotta ha fatto la sua parte per alleviare la sofferenza dei feriti o per seppellire i centomila morti. Non c’è comunque da allarmarsi. Il Carbone non crede nei fantasmi, mi confessa. Non conosce la paura. È capace di sfidare la sorte e perciò ogni tanto tira a sorte per tirare fuori dalle secche uno o l’altro dei geni incompresi tanto frequenti in città e questuanti di una sua presentazione alla mostra da inaugurare di lì a poco. Faccia dunque presto e spinga al massimo dei giri la macchina da scrivere, benché vecchiotta. Fu, quello, un periodo di autentico relax per il nostro. Nessuno che sappia – tranne me – dove sia andato a finire. Gli orizzonti che gli si allargano ancora di più al punto da darmi definizioni di tanti altri ismi rispetto a quelli di cui è ampiamente accreditato. Lamenta tuttavia nell’intervista (apparsa inesorabilmente, sul Liverpool News, con tanti tagli nelle varie puntate giornaliere per ragioni di spazio: non si dimentichi le 30.000 battute che mi sono state date) un tal quale (non male il tal quale) provincialismo: ed ecco che accusa la natura di aver fatto della Sicilia un’isola, e per giunta nata da una costola di Adamo: come dire un pezzo della Tunisia – epperò molto meglio dal suo punto di vista sarebbe stato che lo fosse della Libia. Non è infatti chi lo segua nelle sue peregrinazioni alla ricerca del nuovo, dello sconvolgente gli assetti mentali. “Da queste parti non si fa tuttora che rifarsi all’arte islamica o greco-ortodossa; al barocco spagnolo o tutt’al più a un futurismo prima maniera con capostipite un mio concittadino”: e così la spara grossa indicandone il nome in Giacomo Giardina del quale né io né i lettori del Liverpool abbiamo mai avuto contezza. Gli obietto che se vuole parlare di futurismo mi dovrà almeno raccontare un aneddoto di Marinetti a Palermo (lui sì, questo signore, piuttosto “scapigliato” i nostri lettori lo conoscono eccòme). Fece un balzo dalla poltroncina in vimini in cui è seduto, nel patio esterno dell’Igiea con davanti un bicchiere di gin, mentre io registro la sua voce tenendo sulle ginocchia il magnetofono per non perdere nemmeno una sillaba di ciò che va dicendo. Ci ripiombò, dopo il volo, che sembrava una furia. “Come si può prendere per scapigliato un Filippo Maria (mi correggo, un Filippo Tommaso) Marinetti? Hanno idea i vostri lettori di che rivoluzionario sia stato? E dell’apporto della Sicilia al Movimento Futurista hanno una qualche vaga notizia? Si guardi in giro, faccia quattro passi, scandisca bene i tempi per non fare ancora una volta confusione, dia pane al pane e vino al vino. Si sorprenderà nel trovare tracce evidenti, in architettura così come nell’inflessione della voce degli abitanti di Palermo, di quel fenomeno tanto influente nella loro cultura da metterli al riparo dalle facili accuse di guardare solo al passato. Da noi non c’è più un solo cristiano che non abbia come obiettivo prossimo il futuro. Basti pensare all’emigrazione verso il nord italiano ed europeo dopo la grande ondata verso il nord America al punto da potercisi fare – con quella ondata – un campionato mondiale di surf. Il discorso stava prendendo una brutta piega. Il Carbone lo stava spalmando di sociologismo se non proprio sbattendolo in politica. Per ciò che mi era stato detto alla partenza avrei dovuto evitare i sillogismi, le analisi psico-antropologiche, i reperti della civiltà contadina, il loro riciclaggio per farne opere d’arte. Nelle nostre contrade britanniche ci sono già i dolmen e ciò basti. Oggi abbiamo i Beatles a imperare sulla scena mondiale. “Cerchi a Palermo, o in altre parti della Sicilia, quanto possa competere con loro in termini di modernità nel fare arte nel senso più vasto. Attraverso le scritte di questo Carbone sembra di capire ci sia un risveglio in atto: altro che Valle dei Templi o teatri greci, altro che santi e madonne, tutto nuovo nell’Isola”. A questo punto il mio direttore citò il detto “Tutto è bene quel che finisce bene” senza però che c’entrasse poco o punto. È una parola. E questo qui chi lo tiene? Non che stia dicendo cose insensate. Il fatto è che i lettori del quotidiano del mattino (quelli della sera leggono il Liverpool Evening) vogliono ogni giorno roba fresca nel territorio del pensiero che si fa forma; mica sentire lagne di arretratezza economica da cui discende inevitabilmente quella creativa in linea con i tempi della civiltà industriale. Noi abbiamo già i nostri guai con il porto di Liverpool che non porta o esporta più da nessuna parte da quando l’impero britannico si è dissolto? Ci mancavano perciò solo i Beatles! Tale mio accenno ai guai di casa nostra al nostro fece rompere le dighe. Da che pacato e calmo era ritornato ad essere, il suo eloquio diventò un turbine di parole e concetti tanto complicati da costringermi – in sede di sbobinamento – a sbobinare più volte la bobina per potermici raccapezzare. Non più cose di attualità locali, critiche a privati e istituzioni, ma progetti che traggono spunto dalle forze in campo: e dàgli a citare uomini e cose come Steinbeck in America fece per Uomini e topi. Se in Sicilia ci sono più uomini che topi, chiesi a bruciapelo. E lui di rimando: “Ma vuole scherzare, prendere la balla al balzo, tentare di infangare? È questo che le hanno insegnato alla Scuola di giornalismo? Mi sa che lei è venuto prevenuto, pieno di aporie in testa, vittima degli stereotipi che connotano e irridono la Sicilia quando invece sarebbe meglio inneggiare. Ha per caso sentito parlare – quanto al nuovo che agita le acque – di un Nicolò D’Alessandro; e quanto al vecchio (quello che più passa il tempo e più invecchia) di un certo Renato Guttuso? Non le pare che già questo sia sufficiente a segnare la svolta e fare entrare nel Gotha dei grandi tutt’intero il popolo isolano”? Mi spiazzò. Arrossii. Lui non se ne accorse troppo vuoi perché avevo il volto esposto al tramonto e vuoi perché anche lui era diventato giallo per la bile e rosso come un peperone. Fortuna che stava avvicinandosi l’ora della cena. Spensi il registratore, gli porsi una sigaretta – di quelle comprate alla Vucciria di contrabbando –, gli suggerii di distendere le gambe e poggiare la schiena sullo schienale della poltroncina. Gradì. Mi guardò quasi con affetto. Intanto gli effluvi dalla cucina arrivano a fiotti e perciò gli vedo dilatare le narici, e magari pregusta pasta con sarde e caciocavallo a bagnomaria di cui va matto: purché il formaggio provenga da Godrano. L’ha già mangiato nei due giorni precedenti, pranzo e cena, da quando dura l’intervista. Mai che mi avesse chiesto quali sono le nostre specialità culinarie – né io sarei stato in grado di dirgliele in quanto non ne abbiamo. Superfluo che preferisco sempre più spesso ritornare ad accennare ai Beatles ma temo che lui mi contrapponga tamburelli e ciancianelle, sicuramente più radicate nella cultura musicale popolare dell’Isola. Meglio dunque passare ad altro e lasciarlo parlare a ruota libera di ciò che vuole. Le pietanze – servizio appuntito manco a dirlo – furono di suo gradimento e le accompagnò con vino del Friuli (mi pare fosse Reisling). Ciò in quanto contrariamente all’attesa avemmo sarde a beccafico, pesce spada con capperi e olive; e per dessert una fetta di cassata e tre cannoli con ricotta. Naturalmente per primo avemmo la già detta pasta con le sarde, apprezzata pure questa da noi due. Più di tutto però a tenere banco fu Grotowsky tra una portata e l’altra. E qui a dire le meraviglie del teatro polacco e di chi, in città, lo aveva portato e fatto conoscere. Per l’indomani sera mi invitò al Teatro Libero dove non mancava di andare ad assistere agli spettacoli essendo il suo compito quello di recensire le prime per conto della stampa internazionale. Ovviamente questo lo seppi non perché me lo abbia detto il medesimo Carbone, modesto com’era, ma perché sia la stampa cittadina che le bocche dei cittadini (nient’affatto cucite per l’occasione) questo dicevano: bastava fermarli per strada, microfono sotto il naso e telecamera che li inquadra e non smettono di parlarne bene, di rivelare magari aspetti poco conosciuti. Nei tre giorni in cui durò la mia sosta a Palermo riuscii a capire molto poco della città (tranne quel poco che si vede di notte – notti quasi sempre buie e tempestose con gatti che inseguono topi e fotografi che non mancano di consegnarli alla storia per ricevere magari un premio Pulitzer o essere inquadrati nei ranghi della Magnum) in quanto il meglio del mio tempo l’ho speso intervistando il Carbone su quale sia stato il recente passato da lui analizzato e quali le sue profezie. Mi parve comunque chiaro come il tempo invece si fosse fermato per i cittadini di questa città che più spesso leggono di Gattopardi e Vicerè, e se ne impregnano al punto da parlare di fasti ed evocare i fasci come eredità irrinunciabile. La fetta più grossa della torta spettava tuttavia di diritto (in modo ereditario) all’istituzione religiosa per eccellenza: la chiesa cattolica. Mi parlò, il godranese, del fervore popolano e relativo rito di ascesa al Montepellegrino (quasi si trattasse di un Golgota) in occasione della festa per la patrona. Mi invitò persino a tornare per assistere ai fuochi d’artificio e alla processione del carro in onore di Santa Rosalia: la quale, pare dicano i bene informati, se ne sta sorniona a guardare tanta devozione senza però capire su che cosa si fonda. Non ebbi il coraggio di rifiutare e ritornai quando però si era fatto tardi ma il giornale non si sognò nemmeno di spesarmi il viaggio di ritorno e soggiorno a Palermo, anche perché – per dirla con Mac Luhan – frattanto il mondo è diventato un villaggio globale tanto che a Liverpool possiamo sapere benissimo in tempo reale cosa succede a Godrano. In tal modo si sta avverando la profezia di Francesco Carbone secondo la quale la Sicilia diventerà finalmente parte del pianeta. Ignazio Apolloni
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