IL VIAGGIO
Come un qualsiasi turista che si rispetti – benché questa volta fossi un uomo di lettere tant’è che ho in progetto di scriverne tante agli amici i quali agognano venirci senza fin qui esserci riusciti – appena messo piede in città e lasciate la valige nella hall dell’albergo mi precipito nel punto in cui mi hanno detto troverò ciò che cerco. Trattasi ovviamente del luogo da cui parte il City Sightseeing (in tedesco Treffpunkt) nel quale già risultano adunate un centinaio di persone, prevalentemente tedesche, ansiose di scoprire, vedere dal vivo, tutto quanto li aspetta (e sperano abbastanza chiaramente l’aspettativa non sia vana). Il torpedone però (non male il torpedone) non è ancora giunto, c’è tempo dunque per osservare quanto ci sta intorno e chi ne abbia voglia prenda pure appunti. Accanto a me c’è una signora che ciacola, ed io subito l’annoto con qualche commento sulla collana di finte perle e mocassini contraffatti nel marchio. Più in là uno spilungone si sbraccia per attirare l’attenzione di una donna – ritengo la moglie – intrappolata tra la folla perché di statura molto meno della media. Sto per fare uno schizzo della scena (all’occorrenza so fare anche questo) allorché arriva la bestia, il Moloch che ha inghiottito non meno di cento passeggeri e si accinge a buttarli sul marciapiede (nella calca qualcuno di essi mi pesta appunto un piede). Finalmente anch’io prendo posto sulla capote del mostro, mi siedo, mi predispongo a gioire della carrellata di immagini del tutto nuove per uno che viene dai Paesi Bassi. Non che io vi sia nato. È solo che da qualche tempo ci vivo. Stanco com’ero della vita frenetica tra Dusseldorf, Tubinga, Dresda e Colonia ho deciso a un certo punto di prendermi il meritato riposo in una casetta tutta linda, dipinta di bianco, comignolo che fuma d’inverno ed aria che rimanda a Van Gogh. Ci sarei rimasto non so quanto, e senza interruzioni, allorquando un telex mi annuncia una parata (mica militare bensì) di cose da vedere e che vale la pena non perdere. Si tratta di poderi appena restaurati; cumuli di macerie messe da parte perché ricordino la seconda guerra mondiale; monumenti in onore della storia patria; chiese, monasteri e conventi con relativo personale conventuale i quali servono il pasto a chi abbia voglia di sedersi al loro desco per assaggiare le specialità del posto. Non mancheranno però letture di poesie, concerti, corse a chi fa prima a prendere il tram (l’ultimo tram rimasto per attestare quanto più lenta fosse la vita di un tempo), sfide e disfide (più o meno simili a quelle di Barletta). Insomma un pot-pourri di forti emozioni da provare. Ecco allora che acquisto il biglietto di aereo a prezzi stracciati; mi intrufolo nel gruppo in partenza per Palermo; ascolto le inflessioni della voce di questa gente dalla pelle più scura della mia; capisco debbano essere terroni ma non lo danno a vedere. Sentito l’annuncio del volo in partenza, trainando ciascuno il proprio bagaglio a mano, corriamo e per poco non veniamo investiti nella pista da una cisterna. Finalmente a bordo tiriamo un sospiro di sollievo, ci allacciamo la cintura di sicurezza – in modo da sentirci un tantino più sicuri –, rivolgiamo una preghiera chi a un santo chi a una santa. Quand’anche i motori si dovessero bloccare ci penserà la santa locale a salvarci (per Palermo si parla di una certa Rosalia). Tutto comunque andò liscio (e poi si parla del liscio come di un ballo). In meno di un paio d’ore vedemmo approssimarsi una lingua di terra. Il comandante fu lesto a capire che quella non era la pista dell’aeroporto di Punta Raisi ma soltanto un abbaglio, suo ed anche nostro: ed infatti di lì a poco su quella lingua ci vedemmo un bel mucchio di aerei da combattimento pronti ad alzarsi in volo dalla portaerei. Per farla breve, ancora un quarto d’ora di angoscia e di giri in tondo per vedere se da terra ci facessero qualche segnale del tipo “Siete sulla rotta giusta, potete atterrare”. E siamo pronti a scendere dalla scaletta chi con il fiatone e chi con due. Siamo adesso a bordo del torpedone tutti presi da ciò che ci aspetta. Il conducente pronto ad accendere il motore e dare voce alla speaker. La speaker che si ripassa la lezione di tedesco perché ha avuto difficoltà a memorizzarla: è rimasta infatti sveglia tutta la notte ed ora sembra avere le traveggole. Noi intanto pensiamo un po’ ai cavoli nostri e un po’ alle mille e passa meraviglie di questa città. Naturalmente l’obiettivo della macchina fotografica è pronto a inquadrare le cose più preziose – come, a cose fatte, risulterà essere il Teatro Massimo e subito dopo i Quattro Canti – e qui la mitologia attesta essere stato dato tale nome all’incrocio tra Via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele perché vi si cantavano gratuitamente pezzi d’opera a beneficio di chi non avesse i soldi per comprarsi il biglietto: cioè quasi tutti i poveri cristi numerosissimi da queste parti. Altra versione ascoltata da noi attraverso gli auricolari (solo che talvolta la ragazza parlava in tedesco a chi per lingua avesse l’inglese e talaltra il contrario, e s’immagini quindi la confusione dei linguaggi: un’autentica babele!) fa risalire il nome al gioco dei quattro cantoni che pare vi si praticasse. Fu qui, proprio in questo incrocio, che non potendone più del caos del traffico il quale rallenta fino all’inverosimile il giro della città al torpedone – e a causa anche del caldo da scirocco nient’affatto mitigato dal parabrezza della capote – mi butto giù servendomi, per planare sul marciapiede, vuoi della mie gambe e vuoi del mio scatto felino. Nessuno che se ne sia accorto, e quand’anche che m’importa. Dopo qualche centinaio di metri, e servendomi questa volta del mio fiuto più che delle insegne di cui il percorso è assolutamente privo, mi ritrovo in una piazza. Vedendo della gente seduta su delle cassette da frutta vuote attorno a un tavolaccio da galera giocare a carte e fumare – e bestemmiare se le cose vanno male – da questo semplice indizio capisco di essere sul posto giusto. Ed infatti in lontananza, ma non troppo, scopro un residuato bellico. È un filobus color verde del ’40. Lo raggiungo, ci salgo, mi apposto nel posto migliore per potere vedere meglio, accendo il sigaro, cerco con lo sguardo qualcuno cui chiedere informazioni o notizie. Poiché non sale nessuno mi domando come mai. Solo all’arrivo a Monreale seppi che quello era un servizio riservato ai turisti con tanto di badge sul petto. Senza essermene reso conto il porter dell’albergo Posta (posto quasi di fronte all’ufficio postale centrale e con tanto di postiglione pronto a farti fare un giro in carrozzella) dove ho prenotato il letto per la notte mi aveva attaccato sul petto quella specie di biglietto da visita. Ciò mi consentì di non pagare il biglietto del filobus né gli altri per entrare in gallerie e musei. Non avevo programmato di venire a Monreale in quanto le riproduzioni dei suoi splendidi mosaici mi si erano conficcate nel cervello con l’aiuto di un trapano: la rete televisiva specializzata nel farti conoscere l’arte, che non a caso si chiama Canale ARTE. Potevo dunque fare a meno di entrare nel tempio dei Normanni e nell’attiguo chiostro. Diverso sarebbe per il Complesso Monumentale Guglielmo II dove, dicono gli striscioni (e urlano gli strilloni), sta per celebrarsi un evento davvero eccezionale: una mostra di arte astratta. Lì dove vivo viviamo tutti di concretezza, noi tedeschi esuli compresi. Per noi la mela è mela e tutt’al più la eleviamo a simbolo del peccato originale (e peccato per il fico del quale si è finito per usare soltanto la foglia). La mattina mica ce ne andiamo per boschi (che peraltro nemmanco ci sono) per scoprire e catalogare le sfumature delle foglie bastandoci entrare in un campo di girasoli o tulipani per ricordarci dello spettro dell’arcobaleno. Va pure detto che noi con i colori e con gli impasti mica ci giochiamo, anche perché nessuno di noi ha una tavolozza né un pollice da infilarcelo dentro mentre si dipinge. Insomma, a noi dell’arte astratta, compresa quella di colui che i manifesti annunciano essere un astrattista, poco ci importa e perciò faccio bene a non vedere la mostra. Improvvisamente però, forse richiamato dai discorsi che vado facendo tra me e me il cielo si copre di nuvole, si aprono le cataratte, tracima tutta l’acqua contenuta nella diga prossima a dove mi trovo, la pioggia si trasforma in diluvio, spazza via qualsiasi pensiero di ripulsa abbia fin qui manifestato. Unico riparo il portone e subito dopo l’andito del Complesso. A questo punto il gioco è fatto, salgo lo scalone, mi ritrovo in un ampio corridoio e subito dopo in una specie di Galleria degli Uffizi (anche, questa, vista in più di un’occasione attraverso il canale ARTE). Alle pareti tredicimila e passa quadri ad olio (niente aceto e neppure acetilene perché entrambi puzzano); disegni e tempere, matita e china, tela e colla, segni che sembrano scoppiettare tanta è la voglia di uscire fuori dalla cornice (laddove ci sia una cornice). L’autore è lì impalato che aspetta un cenno del visitatore occasionale, cioè io. Io che non mi decido a farglielo perché preso piuttosto dal mio abito inzuppato di pioggia, e ci manchi che mi buschi un malanno. Alla fine non riusciamo a resistere alla tentazione ed eccoci a parlare di arte come se io ne capissi qualcosa. Mi disse l’autore della mostra, tale Orazio D’Emanuele da Catania, della sua predilezione, del suo essersi formato alla corte degli impressionisti e poi del dada per quindi approdare appunto all’astratto perché libero da schemi precostituiti e forme definite. Salì persino in cattedra quando si pose davanti a una sua opera e mi domandò a bruciapelo a quale corrente dell’astratto appartenesse (e il povero me che diventa ancora di più un tapino). Preso alla sprovvista mi butto a indovinare e faccio cilecca. Lui però, imperterrito, insiste col collocarsi avanti a un altro quadro, questa volta dalle linee più nette e dai colori più vivaci. Avrei potuto cavarmela col citare il ludico Joan Mirò e invece sbaglio di grosso perché menziono e lo assimilo a Mark Rothko (nato a Dvinsk nella Russia zarista nel 1903, di condizione ebreo perseguitato come tanti altri, morto suicida nel 1970 a New York per dare maggiore prova e consistenza alla sua visione tragica della vita: e vorrei vedere con tutti quei morti da asfissia e altro negli anni ’40). Non l’avessi mai detto! il già detto Orazio – dall’ascendenza ovviamente latina – mi prende per scemo e subito dopo per il bavero pronto a spazzarmi via se non proprio a togliermi di mezzo. Poi però ci ripensa. Vuol darmi un’ultima chance. Mi porta in fondo alla galleria, in un angolo appartato dove (meraviglia delle meraviglie!) scopro delle carte: non proprio un mazzo di carte da gioco benché siano tante e tutte dipinte da fare spavento per la molteplicità dei segni che tendono a incrociarsi, sovrapporsi, comporre un disegno simile a quello delle cellule nervose quando si predispongono a concepire un pensiero. Accidenti, dico a bassa voce perché non mi senta. Questo sì che è astrattismo; questo sì che ti complica la vita solo a guardarlo: altro che il Rembrandt di cui ho fatto il pieno da quando ho stabilito la mia residenza in Olanda. Benedetti dunque siano i cavalieri dell’Apocalisse medio-novecentesco, quei lorsignori dai nomi altisonanti che vanno dagli inglesi David Hockney o Richard Hamilton agli americani Rosenquist o Jasper Johns, giusto per citarne alcuni. Sono loro che hanno rappresentato il nuovo, l’inconcepibile, l’inconoscibile in arte e attraverso l’arte. Soddisfatto e commosso il già detto Orazio mi congedò. Volle regalarmi una copia del catalogo curato nella veste grafica ed arricchito da un saggio di un certo Nicolò D’Alessandro – tanto quanto pare sia stato pure suo l’allestimento. Quindi, alla chetichella e non visto mi allontanai in tutta fretta anche perché frattanto è scampato. Appena in tempo per salire sul filobus, scendere a piazza Indipendenza, infilarmi sul tram – questa volta a cavalli – che fa la spola da un albergo all’altro di Palermo. Manco a dirlo, al servizio esclusivo di noi turisti venuti quasi dall’al di là.
Ignazio Apolloni
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