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GIUSEPPE DRAGO su I RACCONTI PATAFISICI E PANTAGRUELICI di IGNAZIO APOLLONI

 


Recensione pubblicata su Colapesce, almanacco di scrittura mediterranea, n. 11/2004, pag. 123


TRA FANTASTICO E SURREALE


Ho letto d’un fiato i Racconti patafisici e pantagruelici di Ignazio Apolloni e finito il primo giro di boa della quarta di copertina li ho abbondantemente riletti, per assaporare il piacere della narrazione peculiare, di un animo che sembra pulsare di infinita trepidazione per l’impoverimento esistenziale del mondo: benché il tutto sia disciolto in estemporanee invenzioni, in grumi di parole centrifugate dalla tensione sperimentale. Ma voglio anche dire subito che la lettura che ho fatto dei ventisei racconti riuniti sotto l’etichetta assai stimolante di “patafisici e pantagruelici”, non aveva come proposito quello di definire che tipo di scrittore Apolloni sia, al fine di collocarlo in questo o quell’altro dei generi letterari, né tanto meno mirava a dare della sua scrittura un giudizio di valore. Mi limito dunque e intanto ad affermare che la sua scrittura è caratterizzata da forme ludiche ed autoreferenziali, dal prepotente e sbrigliato uso della fantasia che in qualche modo sfugge ai canoni consueti sviluppandosi, come acutamente annota Stefano Lanuzza nella prefazione al volume, su piste ignote alle più “usurate carte della consuetudine letteraria”. E basta scorrere l’incipit di alcuni racconti, aprendo il libro a caso, per rendersi immediatamente conto di quanto egli sia uno scrittore originale, in un contesto ideativo e creativo come ritagliato a parte dalle pagine che non hanno immediati modelli, riferimenti certi e univoci, palpabili filiazioni da scuole. Allo stesso tempo si avverte che comunque la sua è scrittura elaborata all’interno dello spirito letterario di un Novecento segnato dalla lezione potentissima dell’Ulisse di Joyce, dalla Recherche di Proust, dalla letteratura di Marquez e degli scrittori sudamericani del “realismo magico”, ma anche da molte altre correnti e forme di scrittura meno note, che in vario modo hanno operato con una tensione volta ad esplorare le terre marginali dell’espressione, a superare i “confini” della bella “pagina”.
Diciamo allora che la scrittura di Apolloni mi incanta come un gioco di prestidigitazione può incantare un bambino. E ciò a cominciare dalla sensazione che le pagine si colmino di getto; come spinte dal bisogno di esplorare il mondo dell’esperienza fenomenologica che quotidianamente si impone ai sensi; e per intrecciare a questa le culture d’oriente e d’occidente. Ma qualcosa occorre pure dire della originalissima funzione che acquista la scrittura nel disporsi sulla realtà immaginifica o oggettuale per scovarne sensi e non sensi, le rapsodie dell’esistere in un universo frantumato e frammentario, che è diventato villaggio globale ma pur sempre rimane mondo sconosciuto e inconoscibile, parzialmente leggibile, parzialmente esplorabile. Da cui l’importanza dell’ottica, dello strumento di navigazione, che oggi pare sia Internet, ma per fortuna, non è solo questo. Viaggiatore sedentario o dinamico, come poteva esserlo Raymond Roussel in Impression d’Afrique, o davvero armato di Zeiss Reflex per catturare le immagini lungo gli itinerari di viaggi che compongono buona parte dei racconti qui raccolti, Apolloni è certamente un cartografo del 2000, e al contempo una sorta di cartomante della coscienza contemporanea, benché sovente giochi a mimetizzarsi - come cercando una sorta di alibi - dietro le ascendenze più rassicuranti che balenano con la referenzialità che il testo recita, chiamando in causa il maestro di patafisica parigina Alfred Jarry e un altro non meno nobile ingegno francese, che già nel tardo cinquecento dava libero sfogo all’invenzione iperbolica, alla fantasia senza freni: Rabelais.
Non so a chi si debba il titolo del volume. È certamente di forte suggestione e appare felice. Ma debbo anche sottolineare che per certi versi è un richiamo che può indirizzare verso una classificazione della scrittura come esercizio a ricalco, da tardo epigone, mentre i lavori presentano una originalità che meriterebbe di essere ribattezzata con più efficace rimando alla pregnante originalità dell’insieme.
Ascriverli sotto l’insegna del patafisico e del pantagruelico, (al Jarry che teorizzava - come si legge nel Libro II delle Gesta e opinioni del Dottor Faustroll patafisico - la patafisica come scienza delle “soluzioni immaginarie”, da cui il lungo dire per giungere alla conclusione che “Dio è il punto tangente di zero e dell’infinito”; o al Rabelais che esplora le gesta del figliolo di Gargantua) non offre infatti la vera chiave di lettura di questi racconti che l’editore Piero Manni ha incluso nella collana Pretesti. La consonanza è talmente lata che il collegamento sarebbe poco più di un esile filamento, mentre a mio avviso essi hanno una peculiarità sui generis, un esistere indipendentemente da filiazioni o da facili e tutto sommato confortanti epigonie.
Per altri versi, si potrebbero ribattezzare “candidi e metafisici”, benché anche il tirare in ballo il divertito e picaresco andar per paesi e situazioni del mondo settecentesco di Candido e Cunegonda e Pangloss e degli altri personaggi partoriti dalla fervida e razionalissima immaginazione di Voltaire, come metafisica dell’estraniamento (e si pensi, per dar consistenza figurativa al mio ragionamento, alla funzione di un pianoforte collocato in un prato - così mirabilmente esplorata da Giorgio De Chirico in tele ad olio e acquerelli; e dal fratello suo Alberto Savinio in non poche pagine di pregevolissima, benché poco nota, letteratura italiana) analogamente poco fornirebbero come chiave di accesso alla pagina, che inclina invece tra il rigetto dei generi, ripresi e usati in forma di tendenziale dissolvimento, e la notazione diaristica: l’appunto vergato in funzione di una possibile ripresa. E anche quando i racconti abbracciano storie che finiscono per dipanare un tempo lungo, è il qui e ora di una narrazione estemporanea sulle cose a prendere il sopravvento e a farsi cifra di un’autentica vocazione al dire letterario e della incontrovertibile - istintivamente giocata o a lungo meditata che sia, poco importa - voglia di azzerare la letteratura stessa, per lasciarle sopravvivere l’avvento di un’era nuova, quella del libro oggetto; del museo del già detto; dell’insofferenza alla ripetizione; del sincretico narrare per allusioni o notazioni criptate, che poi sono gli elementi che rendono Apolloni uno scrittore singolarmente elitario, che elabora i suoi personalissimi pensamenti nello scrigno di una individualità che non si preoccupa di aprirsi per piste più apertamente battute alla piena condivisione dei sintagmi, cercando piuttosto nell’esercizio letterario un modo di contrastare con la parola le ingiurie di un tempo sempre più inclinante verso la banalità dei registri medi di comunicazione.
Da qui forse l’orrore per il dialetto, decisamente espunto dalle narrazioni e dall’altro complesso esercizio del dire - e dello scrivere - che ama il felice ed estremo, spericolato acrobatismo della parola, afferrata al volo delle assonanze e delle consonanze, fino a blandirla o ad osteggiarla, per renderla strumento di fumisterie di palazzeschiana memoria, o di boutade, quando non di burla, che però non è mai rivolta al lettore, perché costantemente si ha l’impressione che Apolloni dei suoi venticinque manzoniani lettori non tenga conto, in quanto la sua è scrittura in primo luogo per sé, e per un buon numero di lettori potenziali capaci di poterla comunque intendere e condividere: come argutamente, per anni, ha sostenuto Giorgio Manganelli.
Accettare la pagina di questo scrittore comporta, però, condividerne il gioco, assestarsi sulla stessa lunghezza d’onda, aderire agli strappi mentali che la dipanano in un esercizio fluttuante e libero, aperto ad una multidirezionalità che a tratti sconcerta per il liberissimo disegno che ne compone l’architrave, per cui sovente il plot - per dirla con termini cari a Roland Barthes - si scioglie nel recit, ma in un recit che più che in funzione della sperimentazione letteraria tende ad aggrumare, in un coacervo originalmente espressivo, pensieri e ragionamenti.
Non si comprende subito, ma dietro la patina che immediatamente la pagina offre l’esercizio letterario di Ignazio Apolloni nasconde una forte tensione filosofica e un forte moralismo, ora disciolto in un’apparente veloce notazione umorale, ora più densamente umoristico. E qui un po’ i ventisei racconti mi confermano la riflessione già avviata sulla sua narrativa breve, con le altre dozzine di lavori inediti di cui sono stato privilegiato lettore, nei quali al registro prevalentemente geografico, alla facile mutevolezza interplanetaria, fa da collante un quadro storico e storiografico, per cui l’esercizio della fantasia si sbriglia felicemente attraverso i secoli.
Ma restando a questa raccolta, la mia impressione è che la tensione che li anima nel fondo è tutta volta ad infondere, o se si preferisce ad offrire, al lettore un’angolatura privilegiata - in quanto coltissima e raffinata - per l’osservazione del mondo contemporaneo, delle sue angustie e delle sue miserie, cristallizzate talvolta in microstorie esemplari, tal altra come accennate en passant, spaziando con veloce rapidità da un contesto europeo ad uno americano, dal presente al passato.
Appare dunque evidente come anche nelle situazioni narrative soggette alla nemesi dell’identità - che rende la scrittura quanto mai scopertamente iperbolica e divertita - o quando adotta quella terza persona non meno abissalmente distante dalla narrazione consolidata, Apolloni mira a manifestare i moti psichici (da cui la commiserazione e lo sdegno, il riso divertito e la pietà, la berlina e la sottilissima ironia) dell’io ferito dal vuoto dell’esistere senza la piena consapevolezza di quanta stupidità si annida nella quotidianità della vita.
Disseminato in ampia traccia, si avverte anche un sentimento che per certi versi è del “contrario”, riconducibile cioè alla matrice del filosofare pirandelliano, come chiaro legame dell’autore alla tradizione letteraria dei siciliani, che è sempre prepotentemente originale ed autoctona, come ha mostrato Natale Tedesco in tanti pregevoli studi; oltre che compenetrata al respiro, alla tensione, e alle temperie del contesto europeo.
È una componente che non si capta subito, di secondo livello, quasi mimetizzata dalla facilità con cui nel contesto narrativo è disciplinata la terminologia d’importazione straniera, che a tratti pare voler fare il verso al cliché dei depliant e delle guide che battezzano il mondo secondo la stereotipia del veloce consumo turistico. Ma c’è anche di più, sia nel primo che nel secondo tipo di narrazione, sia che 1’io si travesta di identità altre per raccontare candidamente del ricco che si rastrema alla vita bohemienne del barbone (cibandosi di hamburger fatti con carne di ciuco, per farsi, forse, spettatore al Central Park della marginalità della vita) o per raccontare fantasticamente della commissione di un best-seller; o che la narrazione si centri su frammenti di esperienza vissuta, liberamente ricreata per tangenti sintetiche, ciò che non si smette di continuare a pensare è che Apolloni sa che il mondo, forse principiato da mano divina, restava cosa incompiuta e incompleta, atomo opaco colmo del male, ma anche - che poi è forse la cosa che più lo attira - di infinite piccolezze dell’animo umano di gente “comune” restia “ad assumere un ruolo di primo piano”, cui fa da contraltare la smisurata passione per la creatività e l’ingegno artistico.
E due racconti a questo proposito mi sembrano quanto mai esemplificativi: Altenstraat e Il compleanno.
In conclusione vorrei annotare ancora due sole cose: una riguarda il tono dei racconti, improntato ad un lessico da conversazione, che poi è lo stesso tono che rende piacevolissimo il conversare con lui di qualsiasi argomento. L’altra riguarda il registro, di una originalissima forma di disincanto che però non è quello che volge alla malinconia o al pessimismo, ma piuttosto l’altro e cioè quello che naturalmente nutre il gusto dei paradossi, fa germinare le situazioni picaresche, distilla gli umori, sollecita le iperboli, inclina al calembour e alla boutade, e governa la riflessione metaletteraria con la quale sovente i racconti trovano la conclusione. E per ultimo occorre sottolineare che, a prima vista sbrigativo - nell’esercizio della pagina ad effetto - in realtà Ignazio Apolloni è scrittore estremamente sorvegliato e guardingo, attento a filtrare la fenomenologia spuria dell’esistere con la profonda cultura sedimentata attraverso un leggere che a tratti si rivela onnivoro, come pazientemente passato attraverso la totalità dei generi che rendono il mondo leggibile e conosciuto, e pertanto rivisitabile, ora un po’ di sbieco ora un po’ dall’alto, ora al contrario: con il sentimento nutrito dalle infinite corde della complessa e articolata Weltanshauung.

Giuseppe Drago

 
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