
SALUTO PAGANO
Guarda: sulla testa imbiancata dei nostri alberi pizzicati dalla brina siede ora il vento e tra le torri delle oscillanti campane ecco che risuonano le pie preghiere…
Gocciolante di bava, una quieta giovenca cammina ancora dietro il nostro carro, ma non erra più con parole che volano intorno alla nostra bocca pallida di un amen. Ci siamo purificati: tra le torri nel vento che riposa sugli alberi – e adesso tra gli alberi brizzolati – noi, pezzati di baci, con occhi pagani abbiamo fatto primavera. Guarda i nostri corpi: insieme con le gemme germoglia l’amata carne e dopo i nostri baci gettati nel sole con gola felice così, empiamente, noi gettiamo grida… L’OFFERTA DELLA “ LUNA PIENA ” E’ così docile oggi questo libro, uomini quieti, un uccello dai begli occhi, e dalle mie unghie vola via, e la sua voce rotola come la perla rotola, o come tra l’erba la tristezza, o come
un impeto soffocato. Ma già sulle mie mani un altro uccello siede, più giovane. Scruta intorno e Anch’esso è pronto a volare. Il suo becco è una lama. La sua voce un coltello. IL LATITANTE Dalla finestra io vedo la montagna ma la montagna non vede me; io mi nascondo e la poesia filtra dalla penna, benché tutto sia uguale; e io vedo ma non so perché questa grazia di vecchio stampo: come una volta sventola la luna, fiorisce l’amarena.
PAESAGGIO CON AMANTI Ancora ieri accanto ai binari coi giovani ungheresi che sono stati a Parigi, ma adesso io vivo solo, con un papavero che oscilla fra i miei piedi e con il canto lontano delle ragazze all’imboccatura del villaggio quando tramonta dove ancora si guardano soltanto lungamente negli occhi amanti saggi che aspettano la notte e i cespugli quando soffocherà di baci la ragazza e all’alba scapperà a casa dopo il bacio totale.
POESIA DI PRIMAVERA Gli alberi ribellano fiori scarlatti, la notte, e allegri vagabondi abbracciano donne sotto i cespugli sotto i rami scricchiolanti; solo la ragazza strilla, e graffia, per la rivoluzione primaverile del suo corpo, come un uccello appena fecondato se fugge schioccando le ali davanti al maschio e sulla sua gola arruffata fiorisce fischiando il colore dei desideri.
RITRATTO Ho ventidue anni. Doveva avere questo aspetto in autunno anche Cristo a questa età; ancora non portava la barba, era biondo e le ragazze lo sognavano, la notte.
GIOVANNI Il Battista era un uomo triste, un angelo aveva annunciato che nelle pianure sarebbe vissuto e nelle pianure visse per lunghi tempi. Non conobbe mai una donna, ma spesso fino al tramonto nell’acqua restava immerso; la sua veste era stata tessuta con pelo di cammello, portava una cintura di pelle, il suo cibo era biondo e miele di bosco.
UNA PICCOLA PARERA FA IL BAGNO Una piccola papera fa il bagno in un lago nero, una ragazza fa il bagno in una buona tinozza che serve per lavare, e le si vede tutto mentre schiaffeggia l’acqua - già lo so: dopo, per asciugarsi, al sole si sdraierà desiderando me e i miei denti che tremano fra le sue cosce che cantano.
GIA’ SI FA ROSSA DI SOLE LA BACCA AUTUNNALE Una bionda pagana ragazza è la mia amante, in me unicamente crede e se scorge un prete, terrorizzata sussurra: c’è solo erba c’è solo albero e sole e luna e stelle e animali ci sono sui prati variopinti. E corre via. E la polvere si leva felice sulle mie orme.
Eppure lassù nei giardini anche la croce vede i suoi baci e allegro le si inchina il fiordaliso, perché sempre ma inutilmente l’ammira quell’innamorato sacro barbuto. Ha diciotto anni e quando non è con me in silenzio cammina, come tra rive boscose a mezzogiorno l’acqua estiva, e culla dentro di se lo scintillante pensiero che non siomo mai sazi di baci e mai tristi. Già si fa rossa di sole la bacca autunnale. DIARIO D’UOMO Sulla cima dei miei giorni siedo, e ne oscillano i miei piedi, una nuvola di neve mi leva il cappello, e le mie parole di quassù, tra penne di gallo alzando la polvere, marciano.
Dicono che albeggia al fondo dei fossati, e sotto le erbe spiano luccicanti grilli, e il letto delle pozzanghere bevute dal sole si entusiasma dietro i passi risuonanti. Forse verrà la tempesta perché l’acqua increspata si fa liscia portando i pesci, e il silenzio allarga le gambe sopra la strada e con rumori di battaglia si prepara a menare le mani. 19 APRILE 1931 Il mio nuovo libro lo hanno sequestrato ieri, e adesso io siedo solo, con le dita intrecciate attorno alle caviglie – una rossa farfalla ho seppellito superstiziosamente oggi sotto la soglia – e lentamente mi addormento.
Mi ricordo: una volta una madre diciassettenne, la moglie senza latte del mio amico, stanca così si era assopita sopra la sua bambina di venti giorni, sudicia di latte; e aveva sognato una camicetta infantile e scarpe nuove per suo marito, e di buon umore si era svegliata, come all’alba delle battaglie nelle favole i combattenti agli squilli delle trombe mi sveglierò anch’io. Sulle dorate trecce della mia cara il sole emette grida di gioia, inquieta cresce alta la mia ombra fino al cielo e i miei sfacciati ventidue anni questa notte consumano per cena tre stelle. 17 GENNAIO 1932 ( Domenica ) ( Da un quotidiano: “ A Vienna, nel Wiedener Spital, è morto di tubercolosi, all’età di 31 ani, nel primo anno della sua emigrazione, Làzlò Farkas, poeta e scrittore proletario” )
Mattina, e passeggiavo nei boschi di montagna con la ragazza che amo. Era domenica – la domenica ce ne andiamo sempre via così, verso su, sfaccendati. Tenevo strette le sue piccole spalle puntute cammini pure con il petto in fuori, adesso, dopo una settimana di umiliazioni! – e parlavamo piano dicendoci che ci sposeremo e che quel triste bambino, sul tram, aveva la tosse asinina. Arrivammo a una strada, e il vento sibilava, gelido; mi baciò e disse: ho freddo all’orecchio sinistro, riscaldamelo; e le alitai un soffio rovente, come un ippogrifo. Poi arruffati passeri infreddoliti volarono sopra di noi, sull’albero, e ci cadde addosso, in minuscole spine, la brina. Verso sera sedevo con un giovane compagno nel centro del Caffè, e si agitava combattiva la nostra bocca. Molti erano i clienti domenicali; ma al tavolo vicino ci si stringeva addosso un ufficiale di polizia. Tirai fuori un foglietto e scrissi: “attenzione! “. Il mio compagno lesse, annuì, stracciò il foglietto; una minuscola gioia ci si rannicchiava dentro, perché non ci eravamo lasciati sorprendere. Spalancai il giornale e dissi piano come una guizzante piattonata sulla strada scalpitante, quando in gola ti si gonfia ancora Il singulto che poi scatterà, sdrucciolevole, fino al cielo: - Farkas Laci è morto. L’estate – raccontavamo – l’avevano visto rapato, appena uscito di galera, aveva salutato, e poi era emigrato a Vienna; e adesso è morto! io non ci credo, lenta si distende la sua increspata tristezza: era stato rinchiuso ventiquattro mesi, e si era ammalato di t.b.c., era sparito nel Wiedener Spital: e da Szatmàr avrebbe voluto vedere la madre a Vienna, tenere la sua mano sulla fronte. ( Ora la madre di tutti i proletari tiene la sua gelida fronte: la nostra comune madre! con sinceri profumi nella mano). E’ morto. E di lui è rimasto un soffio di polvere il nome sulla bara di marmo di un crematorio; alle sue spalle alcune poesie, una vecchia donna e la lotta, cioè noi, la lotta che si deciderà tra poco; - e allora! Oggi era domenica, voleva cadere la neve, ma il gelo l’inchiodava lassù, e non ha nevicato. Servus. 
SCRITTO VERSO LA MORTE E’ stato detto tante volte , in passato, che da noi, in Ungheria, i nostri grandi sono sepolti più profondamente che i grandi degli altri popoli. E tante volte lo abbiamo ripetuto anche noi, con la bocca amara. Ci è forse sembrato, quando lo ripetevamo, che i tre metri cubi di terra del cimitero di Kerepes dove sono stati ricomposti i miseri resti umani di Miklós Radnóti gravassero sull’orizzonte delle nuove generazioni, che troppo profondamente fosse stato sepolto il poeta, non solo nella terra. Ma sono passati vent’anni da quando Radnóti è morto e la sua poesia non è sepolta con lui, come il quadernetto dei suoi versi estremi nella fossa comune di Abda. Miklós Radnóti ha fatto appello al futuro , e tocca a noi rispondere. Nel 1934, nella poesia “ Sul passaporto del contemporaneo “, aveva affidato a noi il suo lascito di fiducia disperata mnella poesia e, nel 1944, scrivendo quasi con gli ultimi sussulti di energia le sue “ cartoline “ dal paesaggio della morte, aveva ripetuto lo stesso messaggio dieci anni prima dedicato ai giovani del Colleggio Artistico di Szeged. Il suo destino è stato simile a quello di Attila József. Come lui aveva scelto la strada della ribellione, politica e umana, e come lui aveva pagato la sua scelta fino in fondo, con lucida consapevolezza. Così avevano fatto la loro scelta e si erano appellati al futuro Bálint Balassy, Mihaly Csokonal Vitéz, Sandor Petöfi, Endre Ady, Attila József . Questo futuro siamo noi? Radnóti era stato un uomo totale. Un rivoluzionario forse confuso, come fu all’inizio prima che il suo astratto umanesimo si trasformasse in consapevole umanesimo socialista, ma intransigente, di una coerenza estrema, semplice e naturale anche nelle “svolte” del suo pensiero. Avrebbe potuto diventare forse uno dei migliori pedagoghi d’Ungheria, ma il regime di Horthy gli rifiutò la nomina a professore ( e lo obbligò poi a portare la stella gialla sul braccio). Av5rebbe potuto appellarsi, chiedere. Ma non scese mai al di sotto di se stesso. E insegnò con la sua vita. Insegnò poesia. Scrisse per anni recensioni e piccoli saggi sui primi libri dei giovani ungheresi, ma non si accontentò mai di scrivere e chiudere il discorso all’ultima frase: sempre stabiliva rapporti diretti, personali, di amicizia, con i giovani poeti criticati. E si occupava della sorte della loro poesia, curava la lettura pubblica dei loro versi, personalmente insegnava agli attori quale fosse la difficile, forse impossibile recitazione, della poesia. Miklós Radnóti è stato un poeta rivoluzionario, come tutti i veri poeti. Rivoluzionario, con la sua poesia, prima di tutto. A Reichenberg, in Cecoslovacchia, dove negli anni ’28 e ’29 aveva studiato in una scuola tessile, il poeta di origine borghese si era formato una coscienza rivoluzionaria. Quando, nel 1930, arrivò all’Università di Szeged come candidato professore di ungherese e francese, aveva già letto le principali opere classiche del marxismo, nelle edizioni in lingua magiara pubblicate in Cecoslovacchia. Il Movimento dei Giovani di Szeged si esauriva allora nel lavoro che si svolgeva nei campi, nelle fattorie, con obiettivi e orizzonti politici e culturali piuttosto limitati. Ma già lo stesso anno all’arrivo di Radnóti a Szeged, il movimento salì di quota, e si “formarono”quei gruppi che in seguito, sotto la guida di Imre Szepesi, avrebbero combattuto con tanta energia le battaglie socialiste. I primi libri di poesia di Radnóti parlavano del resto un linguaggio estremamente chiaro. In “ Saluto pagano” e nel “Canto dei nuovi pastori”, usciti in quegli oscuri anni trenta d’Ungheria, il suo messaggio poetico era limpido e disperato e rivoltoso. E la magistratura fascista non potava non decorare questa poesia nel modo più degno, con la sentenza lapidaria del sequestro ordinato per il libro “Canto dei pastori”: “sono poesie immorali, volgari, che offendono il buon gusto…”. “Otto giorni per due poesie”: scrissero sulla stampa di allora…A Szeged comunque Radnóti ebbe significative esperienze umane e linguistiche. Dopo la classe operaia, il poeta conosce la classe contadina, e nella sua poesia il linguaggio popolare filtra, e arricchisce semanticamente il suo orizzonte linguistico con tale evidenza che in quel periodo sia Ignotus che Bábitis vedono nelle composizioni di Radnóti caratteri marcatamente “ populisti”. Il poeta si tuffa nel magma ribollente dei linguaggi popolari, in special modo in quello dei contadini poveri, e ne riemerge linguisticamente completato, e nello stesso tempo ideologicamente più incerto, quasi smarrito. La presa diretta sulla realtà durissima del suo tempo lo porta sull’orlo della disperazione e della sfiducia totali. Nella dissertazione che scrisse a proposito della evoluzione artistica di Margit Kaffka, nel 1934, la critica comunista riconobbe che Radnóti si era sforzato di interpretare l’opera della grande scrittrice ungherese da un punto di vista dialettico. Ma le sue posizioni filosofiche erano ancora piuttosto contraddittorie nonostante egli conoscesse già alcune opere di György Lukács , che viveva allora nell’Unione Sovietica, e le citasse nei suoi scritti, ciò che costituiva allora una dichiarazione di opposizione al regime di Horthy. Fu un periodo di angosce e di incertezze strazianti. E Radnóti conobbe anche la crisi religiosa. Cercò una via d’uscita al cattolicesimo, nelle soluzioni mistiche del suo angoscioso problema esistenziale, ma senza riflettere mai questa curva della sua strada nella poesia. Anche questo suo rifugiarsi in una coscienza religiosa, sicuramente sofferta con sincerità e serietà profonde, fu breve: probabilmente questa estrema delusione fu quella che, nel suo doloroso itinerario spirituale, cancellò dai suoi versi ogni inflessione di debolezza e, persino nella imminenza della morte, gli proibì ogni accento che non fosse disperatamente e virilmente terrestre. L’unica preghiera che Radnóti pronunciò nella sua poesia fu la preghiera rivolta verso il futuro, ai discendenti del dolore. Quali furono i mezzi espressivi che si offrivano al giovane poeta ungherese incamminato verso una coscienza civile rivoluzionaria, dopo la generazione dominata da Endre Ady e la seconda generazione del Nyugat, dopo Sárközi e Lorinc Szabó, mentre uscivano le poesie di Gyla Illyes e Attila József tentava la strada della poesia filosofica del proletariato ungherese? Radnóti cercò di camminare con le proprie gambe, fin dal suo primo libro. E le poesie di quel difficile periodo di autoapprendistato furono poesie formalmente complicate, turgide nell’aggettivazione a volte, per quanto sempre di una esattezza impressiva rara e sconcertante. Le immagini si affastellavano ancora, le strutture del discorso erano cariche, eppure una sincerità assoluta dominava il discorso, e insieme una severa consapevolezza delle difficoltà del lavoro intrapreso per istituire un suo personale linguaggio poetico. Verso la fine degli anni trenta, quando già aveva dietro di se i primi libri, in un dialogo della sua rara prosa intitolato”Il mese dei gemelli”, scrisse: “ No, non sono ancora poeta… Mi occupa ancora molto il problema linguistico. La lingua innalza ostacoli sul mio cammino, è maligna, ostinata. Si sente ancora nelle mie poesie che sono state “ scritte ”. C’è ancora in esse troppa acrobazia, ci sono ancora troppi giochi di prestigio. Le poesie devono dare poesia, non “ scrittura “, devono esprimerla come un fischio o un grido di dolore, oppure un rutto dopo una bevuta. Non si deve sentire la materia di cui sono fatte, non si deve sentire il loro materiale linguistico. Senti forse la pietra nella cattedrale di Srasburgo?”. Nonostante la sua solitaria scuola di poeta, anche Radnóti ha imparato da maestri di poesia. Molto da Kassak, per esempio, molto da Milan Füst, e anche da Gyula Illyes. Però di fronte alle bravure stilistiche della generazione del “ Nyugat “, Radnóti si rifiutava ai virtuosismi. Il suo ideale restava la poesia libera dai vincoli delle altre forme espressive – e per ciò stesso più di queste legata dalle sue illegiferabili norme interne. Così la poesia di Radnóti si semplificò, depurandosi dei turgori stilistici delle sue prime opere. Non più furono essenziali per lui i particolari della poesia, ma l’insieme della composizione, la sua struttura., le interne corrispondenze del tutto. E immagini, metafore, colori, tutto fu subordinato alla organizzazione strutturale del poema, alla architettura, alla tessitura, al disegno. La storia dei suoi libri è la storia delle sue esperienze umane, delle sue fedi e delle sue disperazioni. Il giovane Radnoti dei primi due libri è un Radnóti violento, eccessivo, la sua lirica è allegra e fiduciosa. Il terzo volume “ Il vento convalescente” , del 1933, risente ancora dell’ottimismo rivoluzionario che andava diffondendosi nelle file del movimento operaio e democratico con la riorganizzazione dell’opposizione, la vivace attività del Partito comunista, le agitazioni dei giovani intellettuali. Ma non durò molto, quella ventata di euforia rivoluzionaria. La polizia di Horthy controllava tutto, e gli arresti disgregarono presto il tessuto della ribellione. Il quarto libro, “ La luna nuova “, del 1935, rispecchia già la mutata situazione. L’elegia subentra al canto, l’esasperazione marca il tono della voce. Seguono “ Su, cammina, condannato a morte “ (1936), “ La strada ripida “ ( 1938) ( la raccolta completa del “ Cielo di Schiuma “ uscirà nel 1946, per una singolare circostanza pubblicata prima che la notizia della morte del poeta venisse accertata ). Sono queste le fasi di una ripida ascesa poetica. Più fonda si fa la disperazione del poeta, più tragiche e dolorose diventano le condizioni della patria, e buie le prospettive dell’uomo, più limpida, di una luce accecante, si fa la poesia di Radnoti. Soltanto la verità della poesia, anche davanti alla morte, sembra ormai la sua sola preoccupazione: consegnare un messaggio di dolorosa rastremata bellezza al futuro. Radnóti si educò da solo alla poesia, in un severo apprendistato formale di cui le traduzioni furono una importante pietra di costruzione. Agli inizi degli anni trenta, già Radnóti si applicava alla versione di poeti stranieri, particolarmente dei poeti espressionisti, e in particolare del poeta tedesco Ivún Goll che studiava allora con passione la poesia dei popoli coloniali; ma già nella metà degli anni trenta la traduzione diventa per Radnóti parte integrante della sua lirica e della sua elaborazione teorica, controllo e verifica di “ poetica “. Una lezione, anche questa, di autodisciplina intellettuale e di studio costante delle correnti della letteratura mondiale, al di là di quel provincialismo di popoli che è il nazionalismo culturale e letterario. La vita di Radnóti è stata una vita tragica, totale. Tranne i primi anni della sua esperienza poetica e il breve periodo fra il ’41 e il ’42 in cui il movimento popolare sembrò rianimarsi, quando la Comunità Operaia Ungherese e il Comitato Celebrativo della Storia magiare deposero pubblicamente corone di fiori sulle tombe di Táncsics e di Kossuth, la manifestazione del 15 marzo 1942 riscosse le coscienze, e gli intellettuali si riunirono ancora in serate clandestine di poesia ( quelle, famose organizzate da Ferenc Hont ), e le forze operaie e il partito agivano di nuovo nella clandestinità, il colore della vita di Radnóti fu quasi sempre oscuro. Fin dal 1936, quando scrisse “ Cammina, condannato a morte “, l’esistenza del poeta fu tutta una lunga preparazione al suo tragico destino. Aveva preso posizione politicamente, guardava senza illusione al futuro, si consegnava ai discendenti che disperatamente si augurava più felici di lui e della sua epoca, ma aveva ormai rinunciato alla sua vita privata, alla speranza personale. Restava solo la poesia, l’eredità da consegnare. E’ stata una lunga corsa alla morte, come quella di Bálint Balassi, come quella di Attila József. József non seppe resistere al fascismo e si suicidò. Radnóti non ebbe fretta , seppe avere la pazienza della morte. József visse trentadue anni. Radnóti ne visse trentacinque… Non gli mancarono amici. Eppure era un poeta solitario. La vita sociale, civile lo aveva rifiutato. Portava una stella gialla sul braccio. La sua epoca non aveva neppure un movimento letterario nel quale avrebbe potuto identificarsi. E nella sua solitudine neppure il partito della classe operaia poteva sostenete il poeta. La cultura e la coscienza di Radnóti erano socialiste, eppure egli aveva perduto ogni speranza nella sua sorte personale; nelle forsennate umiliazioni inflittegli, la sua capacità di resistenza si era avvilita e mortificata, non desiderava ormai altra cosa che di consegnare ai superstiti la sua poesia. Lo ha fatto. La sorte ha voluto che dal fondo della sua tomba ci arrivassero anche le poesie scritte prima del colpo alla nuca. Quei superstiti, quei discendenti cui Radnóti ha consegnato la sua poesia siamo noi. Non deludiamo il poeta. Gabor Tolnay
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