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ALDO GERBINO

 

Per “Attraversare il Gobi” di Aldo Gerbino  

  Per le Edizioni Spirali (Milano 2006), la recente raccolta di poesie di Aldo Gerbino ne rivela l’anima più nascosta, fatta di versi stridenti posti contro una personalità d’incredibile mitezza. Nemmeno la sua aria distaccata e seria, lontana, aveva mai rivelato questo connaturato pessimismo che, come  “deserto”, è  contenitore inerte di tutto ciò che scorre. Anche se i suoi versi hanno sempre evocato i grandi problemi esistenziali: amore, famiglia, povertà. In questi ultimi si manifesta il dramma: da sempre l’uomo ha vissuto, ha viaggiato ha attraversato la vita/deserto, e tutti gli accadimenti che si sono avvicendati hanno alimentato questo ‘deserto’ come se nulla mai fosse accaduto. Come se la vita producesse vita e vita/deserto, in una sorta di monotono assorbimento osmotico, senza fine, senza possibilità di mutazioni.
  Le vite degli uomini percorrono il deserto, cadono come piccoli semi già trasformati in granelli che s’insabbiano, si nascondono, cancellando l’autenticità della memoria. Non quella delle cose che vengono rese fossili, ma pur sempre conservate, ma quella memoria che dovrebbe guidare le vite future. E così i semi, le vite cadono in questo deserto/vita e niente germoglia, ma rimane asfittico, sepolto.
   L’ordito del testo poetico non è il viaggio o un invito al viaggio, ma una galleria di frammenti di vita, inghiottiti inesorabilmente per alimentare il grande inerte contenitore che, immutabile, inghiotte la materia organica per conservarne, soltanto, l’impronta minerale e muta. Potrebbe sembrare un’approccio cristiano al pulvis es et in pulverem reverteris, ma senza una possibilità di giudizio universale. E così il deserto di Gobi un giorno ingoierà “Il campanellino di Sansone” e Sansone stesso, “I mappamondi (del prof. Krauses)”, e il lamento stesso del mondo, che, per la sua ancestrale codardia, diverrà muta e inerte partecipazione cosmica.     

                               

                                            Marisa Buscemi

 

 

Aldo Gerbino

 

DELLA FEROCIA
                                           per Lanfranco


1.[Da questo corpo a corpo]

Da questo corpo a corpo,
esaurita metastasi
avvolta sensazione
di giogo, orlo
senza confine,
dilatato, lacerato,
effondono note mortali.

2.[Dal corpo, dal giogo]

Dal corpo, dal giogo
è segno di luce sanguigna:
un riverbero di catrame
sulla noia, sulla morte.
Si accendono di lacrime
lacci febbrili,
ostili parole.

3.[Trovo qui, prossimo]

Trovo qui, prossimo
l’intestino vorace,
il rivolo di sangue,
l’angosciante
mitografia dell’orrore.
Poi, i sensi non privilegiati,
i tenebrali scopi,
solcano, tutti,
i nostri corpi.

4. Cani

Alla natura ctonia
offre Atteone il sigillo
non riconosciuto del cuore,
l’olfatto sospinto sulle carni,
il retrocedere delle mani
a protezione del viso,
dell’anima,
di ciò che persiste degli dèi.

5.[La ferocia si adagia quieta]

La ferocia si adagia quieta
sulle iridi indenni,
sulle linee della mano
pronte a trasudare negligenza
accumulo di proteine
sudori,
lamentazioni
frammenti disossati.
Cupi singhiozzi tracimano
dal governo serale
al richiamo di un padrone
senza voce,
senza labbra né lingua
né sorriso, se non ira,
cumulo di rancori:
un annaspare ingordo
non proficuo,
vano.  

6. Canaio

Il fiato animale ci sorregge,
pertiene al gusto, al mantello
al pelame; a quel rinoscersi
stessa schiatta
stesso livore, stesse crudeltà.
Siamo condotti, ciascuno,
all’empietà, al gorgo.

7. Branco

L’offerta è l’innocenza,
la stupidità, il perverso
modello dello stupro
sulle carni, sul loro sanguinare
misto al fetore del branco:
vuoto, sorto dal nulla,
al nulla destinato.

8. Divorare

La traccia si offre limpida:
intestini, secreti.
Poi la tenebra colpita dalla luce
da un bagliore luttuoso,
da corse estenuanti
oltre la fine.

9. Lotta

Alzare il velo dal torace
dalle macerie solcate dal tempo;
così, sfiniti, deposti su altrui braccia.
Pencola l’inedia compatta del mondo,
spalma il peso d’un cielo rarefatto.

10. Ali, triomphes

Atteone, vittima d’acqua:
cervo e pastura,
latte, miele, viscere taurine.
Non ebbe ali d’Icaro,
non corde per salire,
non più scale del tempio.
Bensì discendere
al segno umano,
alla sua protervia,
al suo martirio di carni,
al frammento stocastico di suono.


(Palermo-Caltanissetta, 2006)

[da Attraversare il Gobi, Spirali, Milano 2006]

 
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