LETTERA APERTA A LORENZO DE’ MEDICI Egregio messere Dopo aver tergiversato un bel po’, malgrado allettato dalla prospettiva davvero unica (stando a quanto lei mi aveva scritto) di venire a scoprire una delle collezioni private senza uguali, mi ero finalmente deciso a fare uno strappo alla mia proverbiale stanzialità. Pochi giorni sarebbero bastati. Tra una visita alla pinacoteca locale (forte di un Mantegna prima maniera) e un’altra alle colline del Chianti (per una solenne bevuta, non si sa mai) mi sarebbe rimasto il tempo per ammirare e profetizzare un sicuro successo alla mostra da lei prospettata alla Tate Gallery. Lei ovviamente sa bene come in tale galleria non si nuova foglia che io non voglia. Si è documentato. Per indurmi a venire a trovarla ha fatto studi di retorica, di arte del dire e del non dire, di blandizie al punto da offrirmi per ospitalità la camera da letto in cui si sarebbe consumato il martirio di San Sebastiano dopo il supplizio a base di frecce sul costato. Non mi sarebbe dunque costato granché il viaggio e il soggiorno, tutto spesato. Ed infatti, ad accompagnare l’invito ebbe pure l’ardire di includere il biglietto di aereo andata e ritorno (nella forma del classico open): prima classe, altro che business benché tutto farebbe pensare a un incontro d’affari; servizio di porcellana per il tè delle cinque alla moda inglese; champagne a volontà essendo ben nota la mia propensione; tabacco da pipa direttamente importato dalla Martinica; limousine all’aeroporto di Firenze con tanto di gonfalone e sindaco in testa al corteo per augurarmi il benvenuto: manco si trattasse di Benvenuto Cellini. A questo punto non me l’ero fatto ripetere una seconda volta. Informata la direzione della Tate avevo preparato il bagaglio – e per lei acquistato una pregevole riproduzione della torre di Londra dove all’epoca di Shakespeare finivano i caduti in bassa fortuna: segnale premonitore di cosa le sarebbe accaduto se la mia visita si fosse trasformata in un fiasco; ordinato che venisse a prendermi per portarmi all’aeroporto di Heathrow la macchina di rappresentanza, la ben nota Bentley; diramato il comunicato ufficiale di quella che stava per presentarsi come una visita di Stato affinché non mancassero paparazzi e giornalisti vuoi televisivi e vuoi della carta stampata. Non sarebbe mancata dall’ingresso al check in una guida rossa in filo si Scozia sia per tenere buoni gli scozzesi – solitamente permalosi se il successo di una iniziativa potrà andare a beneficio degli inglesi – sia perché son solito camminare su un tappeto volante se diretto in Persia o su uno di seta se diretto in Estremo Oriente, e perciò niente sconti. Insomma, per farla breve, sono in procinto di lasciare casa allorché sopraggiunge trafelato un poney express con un espresso in mano, anzi un telegramma. Mi annuncia a lettere cubitali, il telegramma, che a Enna (Palazzo Pollicarini) stanno per aprirsi i battenti di una galleria senza possibile confronto con altre in materia di Arti Contemporanee. A esporre le proprie opere tra una moltitudine di giovani e meno giovani operatori del settore (tanto per fare alcuni nomi un certo Pistoletto ed un Munari) tale Michele Lambo che si dice essere appena ritornato con il titolo di re del paganesimo dalla Biennale di Venezia. Cosa avrebbe fatto lei, caro il mio sir, se non lasciar perdere la già preventivata visita al suo celeberrimo palazzo Medici-Riccardi? Come avrei potuto perdermi l’occasione di scoprire qualche nuovo talento, considerato che più nessuno viene alla Tate in quanto da noi non c’è più niente da scoprire, niente che non si sappia: e per altro verso noi inglesi abbiamo ancora tanti di quei talenti (cioè a dire le monete d’oro frutto del saccheggio di Francis Drake ai galeoni spagnoli poi affondati dopo l’arrembaggio) da poterci comprare altro che il Louvre o i vostri Uffizi? Non risponde nevvero? Non ha il coraggio di farlo, benché stizzito. Da ciò deduco facilmente come convenga con la mia scelta di annullare la mia partenza per Firenze e dirottarmi verso Enna dove chi sa quali delizie stimoleranno la mia sete di vedere e di sapere. E pensare che ritenevo tale posto semplicemente il punto focale di un’isoletta (a paragone della nostra, molto più grande però: per non parlare dell’intero continente americano), ed invece ecco che da quell’ombelico saltano fuori zampilli e lapilli, magma e lava allo stato incandescente che, manipolati da quel tale Lambo, divengono lettere dell’alfabeto tipografico combusto in forma di totem: per non dire d’altro. Quale non fu la mia sorpresa dunque trovatomi che fui di fronte a cotanto senno? per dirla con Dante. E me lo domanda? Non le è noto quanto si è scritto di me a più riprese, il profluvio di parole spese per districarsi all’interno di una problematica complessa da me portata a contestare sistematicamente ciò che è di pubblico dominio, a cominciare dall’unico valore attribuito al monoteismo contro il nessun valore dato al paganesimo? Qui mi accorgo, egregio e paludato signorotto, che le si arriccia la pelle, fa persino gli scongiuri, ed io che fo’ di tutto per cercare di spiegare. Vede, mio caro signore (e le rammento), finché gli dei nel lontano passato, erano stati tanti si è dato di volta a rappresentarli nelle loro più varie forme di maschi e femmine; di guerrafondai o votati a risolvere i conflitti attraverso la diplomazia; belli e di non comune aspetto; capaci di forgiare scudi e mazze ma anche di popolare mari vivendo tra najadi e sirene messe insieme in una sorta di harem. Poi sopravvenne la trinità e di necessità scomparve una gran parte della fantasia. Per ricrearla le giovani generazioni di pittori ed artisti furono costrette a riprendere il filo del discorso limitandosi comunque fin qui a formulare pensieri allettanti quanto all’enigma e non certo creare opere che di esso fossero interpretazione lampante (e mi perdoni il lampante). Sono stato, sempre caro il mio sir, in tutti questi anni in attesa di vedere rifiorire l’amore per la molteplicità delle figure accompagnata da catene che andavano spezzate per ritornare a rappresentare il mondo nella sua complessità e varietà: prime fra tutte le arcaiche e primitive, quelle che si affidano a una concezione semplicemente percettiva della realtà, da lasciare immutabile, ma carica allo stesso tempo di mistero. È perciò per tale ragione che, stando alle premesse, rinuncio a venire a Firenze e vado a Enna dove, all’Umbilicus – una specie di laboratorio – pare sarà esposto un dissacrante totem di quel certo aristocratico signor Michele Lambo. Non è d’accordo, lo capisco bene. Chi ha fatto affrescare le sue cappelle con scene bibliche o del Nuovo testamento si guarderebbe bene dal contaminare i suoi palazzi, introdurre sia pure a mo’ di esposizione temporanea (non male il mo’) una mole che a paragone quella Antonelliana sarebbe simile a uno gnomo o un pigmeo. Ce ne vorrebbe di coraggio e non so se lei lo abbia visto come le stava andando a finire con la congiura dei Pazzi (che in verità un po’ pazzi lo furono se credettero di poterlo assassinare). Ma tant’è, ormai ho deciso, nella capitale del Rinascimento non ci vengo, ho ben altro da fare che venire a contare i milioni di visitatori i quali ogni giorno vi si affollano per stare al fresco della Cupola del Brunelleschi o per ammirare Firenze al tramonto da Piazzale Michelangelo (metaforicamente parlando). Altri sono ancora gli spazi da riempire di ricette, altre le misture che ci aspettiamo dalla più recente farmacologia. Non si disperi tuttavia. Tempo infatti verrà e la sua città ritornerà ad essere motore della storia dell’arte. Frattanto però lasci che a segnare una nuova tappa del primato italiano non siano più i santi ma coloro che siano capaci di demistificarli così dando inizio al Neorinascimento. Ignazio Apolloni
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