Leggere l’architettura. Il museo. Il collezionismo privato e il mercato delle opere d’arte vengono fatti risalire alla conquista e al saccheggio della Grecia, che portarono a Roma una grande quantità di opere successivamente acquistate da ricchi patrizi per i propri palazzi. Tuttavia i primi edifici costruiti per le collezioni private sorsero in Italia nel 1500 ed erano destinati ad essere visitati solo da studiosi e da ospiti illustri; lo spazio era concepito chiuso su se stesso, con una successione di ambienti raggruppati intorno a corti interne, talvolta illuminati dall’alto tramite lucernari. Tale tipologia rimase più o meno invariata nei secoli successivi fino a che, in periodo illuminista, si affermò il concetto di museo come istituzione pubblica. All’ottocento risalgono soluzioni rivoluzionarie come quella dell’Alte Museum di Berlino di K. F. von Schinkel, che imposta l’edificio su un alto podio come fosse un tempio, pone in facciata un ricco colonnato, ma soprattutto introduce una corte circolare tra due di tipo rettangolare, rimarcandone l’importanza con un maggior sviluppo in altezza; pone cioè l’accento su un luogo che diventa centro di incontro e di scambio come fosse una piazza. A questa planimetria con rotonda centrale fa riferimento J. Stirling più di un secolo dopo (1977) a Stoccarda nella Neue Staatgalerie, dove alla piazza interna si accede attraverso un sistema continuo di rampe, terrazze e percorsi a vari livelli, così che l’edificio si apre sulla città; le superfici murarie sono rivestite con materiali pregiati, pietra e marmo, trattate come reperti archeologici e accostate senza pregiudizi a forme ondulate in vetro e metallo colorato. Riprende il tema del tempio L.Mies van der Rohe con la Neue Nationalgalerie di Berlino (1962). L’alto podio viene spinto però in avanti e intorno così da diventare una ampia terrazza, le colonne non sono solo in facciata ma su ogni lato del quadrato della sala d’esposizione e diventano poderosi pilastri cruciformi, appena otto per sostenere la copertura costituita da una grande piastra in ferro; la sala d’esposizione interamente in vetro è fortemente arretrata rispetto al sistema strutturale così che si crea un porticato tutto intorno all’edificio. Insieme a questi esempi molti altri mostrano come l’architettura museale abbia avviato un linguaggio sempre più approfondito e dialettico con il contesto urbano, in alcuni casi atto a stupire e a emozionare, suscitando un interesse legato non solo a ciò che l’edificio contiene ma anche al manufatto architettonico, tanto da diventare esso stesso opera d’arte, luogo di pellegrinaggio quasi, simbolo della città. Questa tendenza ha uno dei segni più caratteristici e riusciti nella costruzione del Centre G. Pompidou di R. Rogers e R. Piano a Parigi, con l’inserimento coraggioso di una struttura decisamente tecnologica e all’avanguardia in uno dei quartieri più antichi della città, con un dialogo con questa che passa anche attraverso la costruzione della piazza adiacente, molto frequentata e usata in ogni momento della giornata. Il grande merito di R. Piano è stato quello di non chiudere il proprio lavoro in uno stile ma di misurarsi sempre con rispetto e capacità con i contesti diversi in cui si è trovato a lavorare; per questo motivo i musei che successivamente ha progettato sono diversi tra loro e molto influenzati dal luogo che li ospitano. È nota inoltre l’attenzione che l’architetto ha per le periferie, le aree dismesse, il tentativo che compie perché si leghino alla città diventandone poli esterni. A esempio di quanto detto, i musei presi in considerazione sono stati la Fondazione Beyeler a Basilea e la Pinacoteca Agnelli a Torino. Il primo si trova fuori città nel comune di Riehen, in un ampio terreno che comprende una villa antica, ed è costituito da quattro lunghi muri che corrono parallelamente alla strada e che determinano la forma rettangolare dell’edificio. A questo si accede senza nessun ingresso monumentale. L’attenzione è invece catturata da un piccolo stagno che raccorda l’edificio alla quota più alta del parco; dall’acqua emergono direttamente i pilastri rivestiti di pietra rossa di Patagonia, simile all’arenaria locale, dietro questi, vetrate alte quanto le rispettive pareti, mostrano l’interno del museo… Quale emozione a scorgere attraverso il riflesso proprio le “Ninfee” di Monet. Questa superficie d’acqua non solo annuncia uno dei capolavori della collezione ma anche richiama il motivo del tempio, e delle rovine: l’arte è la nuova divinità, chiama visitatori da più parti, suggerisce spazi che si fanno in parte densi, in parte distesi, calmi. Uno di questi, e diametralmente opposto allo stagno, è la galleria delle sculture, una sorta di giardino d’inverno, dove nel tranquilla contemplazione della natura circostante si riesce meglio a godere di quanto si è visto, e a sostare; perché nella lentezza maggiormente si dilata l’emozione e il senso del tempo, tanto che ci si chiede se i lunghi setti murari appartengono davvero al museo o se non sono reperti archeologici affiorati lì tra l’erba, in dialogo fitto con la linea orizzontale della campagna intorno. Il secondo museo si trova a Torino nello Stabilimento Fiat Lingotto costruito da Mattè Trucco negli anni venti. Nella ristrutturazione di questo importante edificio R. Piano si è posto due obiettivi fondamentali: quello di fare della fabbrica un centro polivalente e nello stesso tempo di rispettarne l’identità architettonica e culturale, quale simbolo della città e luogo di memoria storica. Gli elementi completamente nuovi aggiunti alla costruzione si trovano entrambi sulla pista che veniva usata per il collaudo delle macchine posta sul tetto dell’edificio, e sono la “Bolla” una sala conferenza a pianta circolare completamente in vetro e lo “Scrigno”, tutto in acciaio, che contiene la Pinacoteca Agnelli. Quest’ultimo materiale richiama il lavoro che per tanto tempo è stato svolto nella fabbrica, ma anche allude alla forza che deve essere capace di racchiudere e proteggere ciò che è prezioso; sopra l’involucro si stende una copertura fortemente aggettante, simile a un tappeto volante. Da lontano i due oggetti, così diversi tra loro, appaiono come provenienti da un altrove. A un battere di ciglia sembrano pronti a spiccare il volo con il loro contenuto di leggerezza e sogno, aria e arte. Teresa Mariniello 1-Basilea. Fondazione Beyeler . Lo stagno 2-Il giardino d’inverno. 3-Particolare della copertura. 4-Torino. Pinacoteca Agnelli. Lo Scrigno. 5-La Bolla. 6-Interno della Bolla. Leggere una città. Budapest. A tornare da Budapest, a ripensare ai suoi selciati, ai disordini di certi snodi, all’eleganza dei numerosi bagni termali, ti senti invadere da una certa malinconia, come se la città avesse voluto e sognato per se stessa un racconto diverso, e inciampata nella Storia, si stesse riassestando ora, raccogliendo le sue parti, stringendo e insieme allargando i suoi anelli. Qua e là si sentono le differenze, che la natura del luogo, e gli sviluppi in epoche diverse, hanno favorito; la prima è nel colore: grigio, beige, marroncino, ancora grigio, stentato, sui muri delle case, dei villini nei quartieri che furono del socialismo reale; giallo paglierino, ocra carico, azzurro nel centro storico, in quella parte della città che veniva definita, nei primi del “900”, la Parigi dell’Est. E senza dubbio allora il paragone era calzante perché, come nelle altre grandi capitali europee, Budapest apriva cantieri per ardite costruzioni in ferro dalle grandi coperture e luci, si lanciava in ciò che sarebbe stato il futuro impianto urbanistico di tante città : assi di penetrazioni necessari per i trasporti veloci, che sfociavano in grossi poli come piazze o centri rappresentativi, spesso in stile internazionale. L’altra differenza è fra Buda e Pest. La prima, su uno sperone di roccia alto 60 metri e detto Vàrhegy, o la collina del castello, è circondata dalle mura dell’antica fortezza; con un tessuto minuto, tipicamente medioevale, si dipana intorno alla Città vecchia e intorno a Palazzo reale, domina il Danubio, fronteggia il brulicare della moderna Pest sulla riva opposta. La seconda, appunto Pest, nella parte vicina al Parlamento, o all’Operà, o alla stazione Nyugati, o ancora alla basilica di S. Stefano, ha un tessuto a scacchiera attraversato dall’asse Andrassy che chiude in testata col grande parco Varosliget, luogo di attrattive e divertimenti. Lungo le grandi vie la circolazione ha uno scorrimento veloce, soprattutto automobilistico, ma basta svoltare un angolo perché diventi più lenta, tranquilla; si sente, insieme al rumore dei propri passi, un senso di appartenenza, una pacatezza data dal riconoscere gli spazi per ciò che sono e un ritrovare se stessi in una buona dimensione urbana. Intendo questa come quella caratteristica che ci consente di muoverci con agio e sicurezza anche negli spazi costruiti su larga scala, intervallati da piazze che favoriscono gli incontri e gli scambi, con fontane o con testimonianze della memoria collettiva del luogo, segnati da poli ottici con esedre o statue o anche parchi con padiglioni, e infine dalle porte, che nel caso di Budapest leggo nei ponti. Quello delle catene, in particolare, porta sulle due testate opposte statue di leoni, simbolo esplicito di difesa e di guardia. Le due città si guardano attraverso il Danubio, fronteggiandosi mediante la manifestazione più tangibile del proprio periodo di potenza e splendore: la fortezza, diventata poi Palazzo reale, e il Parlamento; ma anche si incontrano, si confondono grazie alle tante fonti di acqua calda che sgorgano dal suolo e confluiscono nelle numerose terme disseminate dovunque, e usate non tanto per curarsi i malanni, quanto per iniziare bene la giornata, con una partita a scacchi e due chiacchiere tra amici. Attraversando Budapest in tram e metrò e tanto a piedi, guardando e osservando, ascoltando le risonanze interiori, è possibile cogliere il particolare, lavorarci con foto o schizzi per meglio cogliere i segni, che nel tempo si depositano sui luoghi, sino a che questi acquisiscono una valenza simbolica forte. Perché come Italo Calvino ha scritto: “ …la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale…”
Il parlamento situato a Pest, visto dai Bastioni dei Pescatori. Il complesso dei Bastioni dei Pescatori sulla collina di Buda. Il Ponte delle Catene congiunge le due parti di città e prosegue con una cremagliera verso Buda. Particolare del Ponte della Libertà. Stazione Nyugati, costruita dal famoso studio Eiffel nel 1874. Bagni termali di Szèchnyyi, fra i più grandi d'Europa. teresa mariniello
Architetture a confronto. C. Scarpa, P. Eisenman . Settembre 2007 L’installazione temporanea di P. Eisenman al museo di Castelvecchio a Verona in occasione della IX Biennale di architettura è stata un’opportunità abbastanza preziosa, sia perché nessuna opera di questo architetto si trova in Italia, sia perché ha offerto la possibilità di confrontare il segno di due maestri. Del resto il luogo non è stato scelto a caso, trascorsi quaranta anni dalla conclusione dell’intervento di restauro e riallestimento del castello scaligero da parte di C. Scarpa, si è voluto un omaggio a questa opera da parte di un architetto particolarmente sensibile al tema delle stratificazioni storiche. Il titolo della installazione “Il giardino dei passi perduti” muove molteplici riflessioni: sulla poetica di entrambi, sulle connessioni tra i due maestri, infine sul luogo; non è il caso di parlarne in modo particolareggiato , ma per comprendere l’emozione, la passione che ha guidato il tracciare di una linea, il linguaggio dei materiali che continuano a narrare una storia, è necessario presentare brevemente i due artefici. L’architettura di C. Scarpa è stata definita come “ la più colta e aristocratica del Novecento italiano”. Aristocratica, a mio avviso, perché il suo processo creativo nasce da una lentissima maturazione interiore in totale solitudine e autonomia, lontana dalla formula facile, dall’ appartenenza a un gruppo, dall’ ideologia. Colta, perché parte dall’elaborazione del dettaglio, sia con la scala 1: 20, sia con schizzi, continuamente revisionati, in maniera che alcuni hanno giudicato maniacale, ossessiva ; considerandoli solo successivamente un’opera completa, convinto come era che il dialogo tra le parti facesse scaturire l’insieme. La sua poetica è come un racconto dipanato, attraverso successive stratificazioni che emergono dalla sua matita, perciò lui stesso diceva: “ Voglio vedere le cose, non mi fido che di questo….Posso vedere le cose solo se le disegno.” Maestro nelle operazioni di restauro di un edificio ( il museo di Castelvecchio a Verona è una delle sue maggiori opere), dotato di grosse capacità di lettura e di interpretazione degli spazi antichi in chiave attuale, imprime il proprio segno in modo deciso, ma senza violenza, con calcolate dissimetrie. Con una paziente calibratura della luce apre gli angoli, gli spigoli, sul cielo, raggiungendo spesso una riuscita integrazione ambientale dell’opera. P. Eisenman è stato all’inizio della sua professione un critico di architettura, ben inserito nell’élite newyorchese, fondatore di riviste, docente, è approdato alla progettazione tardi, lavorando non solo in patria, ma anche in altri paesi. Personalità complessa e inquieta, dotato di un desiderio continuo di sperimentazione non si ferma sulle teorie individuate per il suo progettare, ma continuamente è alla ricerca di nuovi stimoli; così all’inizio della sua produzione il richiamo e lo studio dell’architettura di Terragni è palese e dichiarato: reinterpreta il telaio, sperimenta l’effetto dell’esplosione o dell’ implosione dei volumi. Successivamente i suoi progetti affondano nel terreno; poligoni complessi appaiono come minerali sbalzati fuori da movimenti della terra, fanno riferimento a lontane geometrie del luogo, in una operazione del tutto concettuale che definisce dello “sterro archeologico”, e che si avvale come strumento d’organizzazione di un tracciato, cioè di una griglia, un reticolo ordinatore. E’ il momento in cui studia la teoria dei frattali, la geometria del caos come alternativa a quella euclidea. Infine elabora altri concetti, tra quali quello del “tra” o “between”, spazio tra le cose, inserisce cioè sui percorsi una maglia reticolare tridimensionale che ammaglia gli edifici creando nuovi fulcri e nuovi movimenti. L’installazione temporanea a Verona è insieme un omaggio a C. Scarpa e una presentazione delle proprie idee architettoniche; il suo titolo è insieme poetico e misterioso. E’ inevitabile pensare a M. Proust e alla sua celebre opera “ Alla ricerca del tempo perduto”. Ma quale è il tempo a cui allude il maestro americano? Gli anni trascorsi dal termine del restauro e riallestimento del castello scaligero, o quello più lontano dell’impianto stesso? Oppure, la ricerca del tempo perduto si riferisce a uno ancora più lontano, primitivo e cosmico quasi, dove le masse appaiono come grossi minerali portati alla luce da movimenti sotterranei e tellurici, che sollevano la coltre di prato verde, scoperchiando le sue “piazze”? Come se fossero lì da sempre, testimonianza della storia del luogo, insieme alle griglie rosse, reticoli spaziali ordinatori, che entrano addirittura nello spazio interno del museo, come citazioni; lì dove l’intervento di Scarpa arretra invece rispetto alle preesistenze del castello. Il ribaltare le cinque stanze della scultura del pianterreno, cosi curate dall’architetto veneto, nelle stesse dimensioni, e con l’asse ugualmente orientato, all’esterno; il farle diventare “ piazze”, luoghi di pausa, di raccoglimento lungo il percorso che si snoda tra il verde le fa diventare come sale d’attesa. Certamente lì si muovono i passi perduti Chi o cosa si aspetta? A cosa si assiste? Forse l’intrecciarsi delle operazioni dell’uomo con quelle della natura, l’interpretazione equilibrata e rispettosa del riallestimento di Scarpa, l’omaggio allo stesso da parte di Eisenman, con la sua idea dello “sterro archeologico”, in questo caso ancora più calzante, eloquente. Disseppellire la storia di un luogo, la sua intimità e vocazione, scoprirne le geometrie, abbandonate oppure solo sognate. Metafora, che diventa metodo di lavoro. Il percorso, tra le pause, è di movimento tra onde di prato prima serrate, strette, appena sotto il monumento equestre di Cangrande I della Scala, poi più distese e “pettinate”, si aprono e arretrano di fronte al piano orizzontale di cemento lisciato che affiora, e che porta in corrispondenza della loggia in facciata un solco, una incrinatura. Come segno della lotta tra due materie, naturale e artificiale, dove nessuna si afferma a vantaggio dell’altra, in un equilibrio dichiarato, che si conclude e si arresta circondando la fontana vicino all’ingresso. L’asse di Scarpa all’interno del museo è obbligato dalla successione delle stanze disposte in questo modo; l’artista artigiano si accosta con rispetto alle strutture murarie antiche introducendo materiali come gli intonaci lisci, il legno, il ferro, lasciando sempre un vuoto all’incrocio dei piani. Cura il dettaglio con la maniacalità nota. Lì dove può però, sovverte l’assialità del percorso, rompe la maglia ortogonale, connettendo i corpi dell’edificio con passerelle leggere e ruotate, con innesti che permettono una visuale del complesso non di facciata, ma di scorcio, di angolo. Sul fiume di tetti e di acqua che c’è intorno e in alto, sull’ingresso e il prato, sul sorriso del cavaliere Cangrande della Scala. Benevolo e magnifico. E’ questo il fulcro del restauro di Scarpa. Visibile da ogni punto esterno, il cavaliere guida i passi dei visitatori, fa del passato un tempo ritrovato; li rallenta, li affretta, li ferma infine. Così che gli occhi indugino sul destriero e sulle armi. Così che prendano forma fantasie e memorie, si levano dal labirinto dei segni ripetuti, degli angoli scavati fino allo spasimo, per ritmarsi sulla tensione e poliedricità del suo racconto che diventa poesia. Condivisibile e calda per chi ha passeggiato nelle stanze e nel giardino, e dagli spalti ha infine osservato l’Adige nel suo scorrere antico fra il fare degli uomini. In corrispondenza con l'interno del museo le cinque sale del pianterreno si proiettano in "piazze" esterne. Lo "sterro" archeologico solleva il manto erboso, emerge una pavimentazione analoga a quella delle sale. Si sollevano onde di prato di fronte a immaginari e antichi scavi. I piani si inclinano, si spaccano in corrispondenza della sala centrale della galleria. Un movimento tellurico scopre la griglia rossa, vicino all'ingresso al museo. Una stanza della galleria delle sculture porta tracce della griglia esterna. La passerella conduce alla scultura equestre di Cangrande Della Scala. La scultura sotto e intorno a cui si attestano i percorsi di P. Eisenman e C. Scarpa. Il sorriso del cavaliere Cangrande. Teresa Mariniello Omaggio a Carlo Scarpa. Architetto. Agosto 2007 Naturalmente il cielo è alto, e come sospeso. So, che prima di arrivare al cuore del luogo, devo compiere il giro del muro, seguire i rimandi che dà, percorrere all'interno le direttrici, e da lì giungere ai fulcri nodali. Il recinto fortilizio annuncia sacralità. Il volume chiuso, accentuato dai muri inclinati, si apre a tratti grazie a lunghi stretti tagli, dove lo sguardo viene indirizzato su un solo particolare; il muro è ossessivamente corroso nell'angolo, dove, invece che irrobustirsi si trafora. Recinto fortilizio che ricorda e cita se stesso. Lo ricordo il mattino di alcuni anni fa. Il passo lento come per un'iniziazione, mentre varcavo la soglia del cimitero Brion a San Vito d'Altivole. L'interno richiede silenzio. Non solo perché stranieri in una città non propria, ma perché maggiore diventa l'ascolto verso la narrazione: propilei che con andamento a forbice cingono la cappella, uno dei nodi della composizione, percorsi coperti che inquadrano particolari architettonici, il padiglione della meditazione galleggiante su uno specchio d'acqua, il grande prato su cui posa l'arcosolium; episodi architettonici collegati concettualmente dalla ripetizione di elementi, dagli angoli scavati, alla ricerca di una più profonda verità della materia da scoprire e da svelare. Il mistero è esaltato nell'arcosolium; il maestro tocca, nel punto alto della narrazione, i frattali del nostro vivere, l’amore la morte. Direttamente dalla terra si imposta l’arco ribassato, con una chiara allusione a una continuità e strutturale e simbolica che è sotto, e che non è dato indagare; forse è la parte terminale di un cerchio, motivo che si incontra all’inizio del percorso del cimitero, oppure è una sorta di raffinato dolmen, un “inutile” portale su una porzione di cielo, una soglia cosmica che si vorrebbe saper varcare. Il grande arco non solo, banalmente, protegge e ripara i sarcofagi dei committenti, ma incornicia ed esalta la rotazione che è alla base di questi, e che tende ad avvicinarli eliminando il filo a piombo, come se anche nella rigidità della morte restasse questa tensione verso l'altro, questo amore che non ingloba, ma delicatamente avvicina. Ricordo: lasciai il luogo piena, di emozione , mi diressi con gli amici verso altre mete, ed ecco, mi accorsi, mentre il giorno finiva, di aver smarrito un prezioso orecchino, una sfera d'oro traforata che ne portava un'altra di ambra lucente. Iniziai un'altra ricerca, avvolgendo tra le mani il ricordo della intensa giornata. Tornai ai luoghi attraversati, alcuni noti e altri no, spinta da una speranza infantile o forse dal desiderio di ripercorrere a ritroso le varie tappe, fino alla prima, al cimitero Brion, fino al prato dell'arcosolium. Lì la vidi. La sfera d'ambra affiorava dal terreno riflettendo l'ultima luce . Ecco, io sono certa che si trattò di una magia, che il maestro avesse voluto richiamarmi per regalarmi ancora una volta il suo racconto. Mi inchinai raccogliendola. Promisi che ne avrei scritto.
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