PROVINCIALISMO UNIVERSALE IN G. VERGA La critica letteraria ha in ogni epoca i suoi pregiudizi, che, nel loro insorgere, alimentano miti destinati a sopravvivere, almeno fino a tanto che le prospettive di una nuova problematica non ripropongano determinate indagini nella loro giusta luce e nei loro reali contorni. Uno di questi è legato al momento maiuscolo della narrativa verghiana, sebbene di recente le pagine più autorevoli della critica nostrana ne abbiano fatta giustizia con argomentazioni che andrebbero, quanto meno meditate. Il pregiudizio di cui ci stiamo occupando è quello che, per intenderci, è stato solito configurarsi nel presunto provincialismo verghiano e che, malgrado tutto, persiste ancor oggi in taluni strati di cultura persino al di qua delle acque dello stretto. L’equivoco che denuncia origini lontane, ha molto nuociuto all’arte di G. Verga, ne ha strozzati determinati valori, ne ha compresso il respiro possente, ne ha rimpicciolito la panoramica. Discutere in questa breve divagazione vuol essere implicito omaggio alla memoria dell’indimenticato N. Cappellani che, nella sua celebre monografia su Verga, è stato forse il primo ad intender con rigore di metodo l’europeità del nostro scrittore. Nel secondo volume della monografia ( pag.326 e seguente) leggo: “ A me preme sottolineare che lo spirito e l’arte del Verga trovino fraterne coincidenze in altre letterature, si ricolleghino alla nostra tradizione letteraria: al Manzoni, al Leopardi, e forse, financo all’Ariosto; siano, cioè, animati da interessi artistici comuni a popoli e a luoghi anche diversi della Sicilia. Verga ha cantato motivi di interesse universale; ha dato risposte ai problemi dell’anima universale. Se punti di contatto si possono stabilire tra i problemi della vita così come il Verga li studiò tra i rusticani personaggi della sua isola, e i problemi della vita studiati in ambienti o francesi, o inglesi, o polacchi, o russi, o rumeni, in ambienti rusticani come in ambienti borghesi, è chiaro che cade tutta l’impalcatura critica di un Verga provinciale o addirittura dialettale a meno che lo dialettalità del Verga non sia da porsi vicino alla dialettalità di Omero, per esempio”. Poco innanzi il concetto è riproposto in termini ancora più espliciti: “ Il Verga esula dalla chiusa cerchia degli interessi folcloristici e si pone al centro degli interessi del romanzo europeo, sulla via su cui poco dopo si metteranno maestri come Lawrence e Bernard Shaw”. Seguono saggi comparati su “Leopardi e Verga”, “Dostojevskij e Verga”, “Balzac, Zola e Verga”, “Verga e Galsworthy”, “Verga e Bjer”, “Verga , Zamfirescu, Rebreanu”, che si risolvono in brillanti accostamenti della narrativa europea alle complesse idealità dello scrittore siciliano e che meriterebbero di essere letti e studiati attentamente. E col Cappellani si schierano diversi altri critici con ulteriori accostamenti di avanguardia: Pietro Nardi in “Italia letteraria” del 3 febbraio 1936 con “ Ciò che Lawrence deve a Verga”; De Robertis in “ Progresso” del 19 dicembre 1919 con “Shakespeare e Verga” e “Verga e Fucini”; Gargiulo in “G. D’Annunzio – Napoli 1912” con “Verga e D’Annunzio”; Biondolillo in “Studi verghiani” con “Verga e Leopardi”; Scuderi in “Verga – Catania 1950” con Verga e Blasco Ibanez”; Perroni in “Lunario siciliano – aprile 1919” con Verga e Flaubert”. E potremmo estendere l’elenco delle citazioni al Cecchi, all’Albertazzi, al Di Giovanni, al Raya, al Baldini, al Titta Rosa, allo Scalia, convinti in ogni caso di essere ben lontani dall’avere esaurito una bibliografia verghiana a sfondo europeistico. Del Verga in chiave internazionale parlano, del resto, le molte traduzioni che vanno, per citare le prime che tornano a mente, da quella portoghese di Avellino Fernandes a quelle francesi di Ed. Rod e M. me Charles Laurent; da quella tedesca de Von A. Kellner a quelle inglesi di Mary A. Craig e di O. H. Lawrence; da quella olandese di F. De Jonge a quelle svedesi di Gunhild Bergh e di Melena Nyblom-Lundberg e ci asteniamo di proposito dal segnalare altri noti traduttori americani, spagnuoli, ungheresi e slavi i cui nomi sono facilmente reperibili nel “Catalogo verghiano” curato da Angelo Ciavarella nell’edizione di Giannotta – Catania giugno 1955, in occasione del bicentenario della fondazione della biblioteca universitaria di Catania. Dinanzi a così vasta risonanza di interessi e dinanzi a così nutrita concordanza di giudizi, lascia francamente un senso di sofferto disappunto la tesi opinabile di un Verga provinciale, anche se abilmente patrocinata dalla dialettica di un Luigi Russo che nella sua opera “ I Narratori” (Principato – Messina 1951) chiama “Provincialismo il movimento veristico che si ebbe in Italia”. E sulla scia del Russo disorienta, ci si lasci dire, l’ambigua verbosità del Momigliano che in “Dante, Manzoni, Verga” (D’Anna – Messina 1944) rileva nella lingua del Verga “qualcosa di povero e di scorato, che risponde alla desolazione del mondo verghiano, ma esaurisce presto la sua vitalità artistica” e sottolinea nel contempo come “Mastro Don Gesualdo e i , Malavoglia così potenti nella concezione essenziale hanno qualcosa di intimamente povero”. Da questa accusa di povertà e mancanza di vitalità artistica all’altra di provincialismo il tratto è breve ed il Momigliano sembra tacitamente colmarlo. Sta di fatto, comunque, che dalla dittatura Russo-Momigliano è scaturito un regime di vassallaggio che ha trascinato nell’equivoco verghiano larghi strati dell’opinione corrente. Il cosiddetto provincialismo verghiano è frutto, a parer mio, di un abbaglio di prospettiva nel quale è incorsa una critica di indirizzo impressionistico, incapace di individuare ciò che di profondo e di universale si accentra nelle opere della maturità verghiana, oltre i limiti del colore locale. I sentimenti che ispirano le novelle e i romanzi del ciclo: la sofferenza umana, la poesia della famiglia, il culto del lavoro, l’amore, la miseria, la religione del sacrificio, il fatalismo, la gelosia, la vendetta che a taluni sono parsi tipici aspetti della chiusa spiritualità isolana, costituiscono viceversa momenti psicologici che è assurdo pretendere di localizzare nell’area di una circoscritta Koinè geografica. Considerazione, forse, scontata, ma non pertanto ovvia se nel caso di G. Verga, è stata inspiegabilmente negletta. Si rileggano le pagine del Vecchio Testamento, si accerterà che l’amore, il sacrificio, la gelosia, la vendetta sono sentimenti di origine molto remota e già individuabili nell’età postadamica. Ci si accosti alle fonti omeriche, ai tragici dell’antichità, al Pindaro delle Istmiche e delle Olimpiche, all’Eneide, alle Metamorfosi, alla Tebaide, ai Carmi di Tibullo e di Catullo e si avrà modo di constatare che il sentimento fatalistico della vita, lungi dall’essere monopolio esclusivo di una Sicilia primitiva e superstiziosa, ha tratto origine dal concetto greco della Moira, comune a tutti gli antichi popoli levantini, più tardi trapiantatosi nella civiltà latina che intese identificare il Destino nelle oscure forze delle Parche. Si mediti l’istanza sociale dell’enciclopedismo rivoluzionario e progressista alla fine del secolo XVIII, si richiami a mente l’istanza massimalista di Bakunin e il programma classista di Marx ed Enghels che vollero essere il primo grido di lotta contro la miseria del lavoratori alla metà del secolo scorso e si dovrà convenire con il Sapegno che in Verga anche il sentimento della povertà si sostanziò di esigenze sociali esplose su scala europea e le cui risonanze si avvertivano, in quegli anni, persino nella depressa Sicilia, isolata nelle strettoie di un baronaggio feudale. L’altra non meno grave riserva che sino ad ieri ha in parte pregiudicata una retta esegesi del mondo verghiano, investe la dibattuta questione della lingua. Si è a lungo parlato di dialettalità, di linguaggio approssimativo, di nessi idiomatici vincolati ad una tradizione di provincia, ma ci si lasci dire che è stato trascurato un principio di fondo, quello di stabilire se nel complesso fenomeno della lingua presenti un carattere di preminenza la parola concepita come involucro, suono e scandimento o non piuttosto la parola intesa come espressione della sua carica emotiva e della sua intrinseca realtà umana. Un’alternativa, beninteso, che si regge su un assunto squisitamente polemico, specie oggi che sulla scorta dell’idealismo crociano, il linguaggio si pone se non proprio come l’intende il crocianismo, e cioè momento dell’attività creativa dello spirito, certamente come momento della sua attività costruttiva che, in quanto libera selezione di lessico e di costrutti, a suo modo sceglie, ordina e raccorda in una nuova e originale omogenenìa le sostanze formali dell’espressione. Sicchè il provincialismo linguistico di G.Verga è solo apparente e può trovare tutto al più motivo di credito nel pensiero di coloro che, puntando il dito sulla sua dialettalità, stoltamente riconducono il linguaggio a leggi inflessibili e ad archetipi, dimostrando, come saggiamente afferma il Mariani in “Orientamenti culturali” (Marzorati – Milano 1956), “Incapacità di comprendere l’antiletterarietà dello scrittore siciliano”. L’antiletterarietà va quindi distinta dalla provincialità; ove non fosse, rischeremmo di coinvolgere nell’accusa di provincialismo tutti i poeti popolari, popolareggianti e vernacolisti sol perché una vocazione antiletteraria li porta puntualmente ad accostarsi a un linguaggio di gergo e alla dimessa realtà di un ambiente popolare. Ma l’ipotesi denuncia la sua infondatezza tosto che, trasferendoci nel mondo di Trilussa, di un Di Giacomo o Martoglio, ci accorgiamo che una strumentazione dialettale può non comprimere, come nel caso dei sopradetti, l’universalità degli itinerari spirituali. Posta in questi termini, la tesi di un provincialismo verghiano si restringe a marginali prospettive di sfondo, ad un canovaccio scenico nel quale il cromatismo del paesaggio siciliano fa da riquadro più che da quadro allo sviluppo delle vicende.. Ne consegue che il villaggio di Acitrezza dalle viuzze anguste e sovrappopolate, il porticciolo pullulante di barche, la casa del nespolo, la bottega del farmacista, l’osteria chiassosa e tintinnante di bicchieri, le assolate campagne del vizzinese, i casolari sperduti qua e là sui ciglioni delle tortuose mulattiere, le stalle fumiganti di concime, pur essendo magistrali pannelli di una Sicilia decorativa e pittoresca, si inseriscono su di una ribalta retrospettiva, in funzione di proscenio, rispetto alla perennità dialettica degli orizzonti verghiani. Del resto, a prescindere da ogni distinzione di sorta, non vedo come la demarcata geografia di un paesaggio non possa e non debba trasfigurarsi nell’ideale universalizzazione del ripensamento. Sicchè, anche per questo verso, noi propendiamo per una dialettalità di ambiente che si risolve nell’opera di G. Verga in un generale trascendimento di luoghi e di cose. Un problema del provincialismo, sia ben chiaro, esiste senz’altro in arte, ma, a mio avviso, non è affatto un problema di coordinate geografiche, sebbene una realtà assai più vasta e complessa indissolubilmente legata al destino della genesi creativa. SANTI GIUFFRIDA
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