Alfredo Entità MEDARDO ROSSO PRIMO E PIU’ GRANDE IMPRESSIONISTA PLASTICO DI OGNI TEMPO Il perdurare ancora oggi di una errata valutazione che pone Rosso fra gli epigoni del francese Rodin, sia pure con la longanime concessione di una più tarda ritrovata autonomia; la tanto dibattuta questio non ancora estinta che vorrebbe far derivare il grandissimo Medardo Rosso – il più impressionista di tutto l’impressionismo – dall’impressionismo pittorico e plastico francese, ci ha spinti ancora una volta a rivederne l’opera che conferma con sempre maggiore evidenza la più assoluta validità ed autonomia di tanto insuperato ed originale modellatore. Viene così a cadere certa bibliografia che pretende accodare Rosso ancora al francese, risultando prive di qualsiasi fondamento le suggestioni della scultura di Rodin, il quale adeguò il suo rigido e definito modellare alla larga e morbida, atmosferica visione rossoiana. Il peggio è sì che ragioni di lucro e venali speculazioni, non hanno arrestato neanche l’editoria italiana a prestarsi al giuoco, concorrendo a generare e a perpetuare tanta confusione, tanta inesatta valutazione a danno della nostra arte anche la più personale e indipendente, la più geniale e spontanea qual è quella di Rosso. Se, come per Modigliani, l’opera di Rosso si fosse trovata ancora oggi in prevalenza in mano del mercato francese e nei musei di Parigi e filiazioni, il posto di Rosso sarebbe ben più alto e il suo nome, sia nella letteratura artistica che nel mercato internazionale, ricorrerebbe assai più di frequente. Invece, tocca ancora ascoltare e leggere stridenti confronti con Rodin che nulla ebbe ed ha a che fare con Rosso da cui il francese senza meno derivò quel suo più tardo pseudo impressionismo e la cui scultura, nei confronti del Nostro, può ben dirsi priva di quell’ampio e libero respiro di nativa ed erompente genialità propriamente impressionistica. Il mio primo incontro con tutto Rosso risale al 1950. Prima di allora non avevo visto Rosso che in mostre d’insieme, quasi sempre rappresentato da pezzi isolati, insufficienti ad offrire una visione totale, a darmi una chiara e distinta lezione dell’originalissimo scultore, dell’arte grande del grandissimo artista. L’interesse che Rosso aveva destato in me sin dal primo incontro, attraverso le riproduzioni, mi spinse a cercarlo ovunque vi fossero mostre che comprendevano il suo nome; ma restò insoddisfatto sino a quando non mi trovai al centro di una grande sala allestita dal figlio Francesco in seno alla XXV Biennale di Venezia. Era l’opera che l’amore e la consapevolezza piena del figlio avevano adunata per la gloria d’Italia al museo Rosso di Barzio, trasferita per l’occasione a Venezia. Quella mostra opportunamente allestita, comprendeva tutto Rosso, tranne le assenze d’obbligo, cioè le opere stabili. E vieppiù crebbe in me il desiderio di penetrare lo spirito di quell’arte, di scoprire in Rosso quello che altri, tutti presi da esclusive valutazioni estetiche avulse dalle emozioni che le generano, non avevano indagato in tutta la sua più intima e nascosta essenzialità: la vita. Vi è che Rosso mi aveva di più commosso per quella sua profonda e sincera umanità che svelava attraverso tutta l’opera. Mi riportava, non so perché, ai Vinti del grandissimo Verga, all’esaltazione e sublimazione delle sventure attraverso il canto poetico e musicale dell’arte. Prima ancora di intrecciare il mio dialogo con l’opera viva del Nostro, mettendo a fronte solo le figure, mi urtavano i confronti con Rodin. Vedevo e sentivo palpitare l’originalità indiscutibile della plastica di Rosso, e non tolleravo quel volerlo ad ogni costo accostare a Rodin facendovelo derivare, così come il volerlo far discendere dall’impressionismo plastico francese, se un impressionismo propriamente plastico può dirsi abbia mai avuto la Francia prima di Rosso. Come tutti gli incontri inattesi, quello con l’arte dell’originale lombardo ebbe la forza di scuotermi e di farmi scoprire un Rosso assai più grande di come me lo ero foggiato, di come lo avevo visto attraverso le sole riproduzioni non sempre sufficienti a rappresentarci il vero volto e l’intima essenza dell’opera d’arte. Quella scultura – ma è troppo forte per la atmosferica plastica di Rosso il termine “scultura” – dapprima mi disorientò per quel modellato direi quasi incorporeo, fluido, sfrangiato dalla luce e penetrato da ombre profondissime che scavano e fanno corpo modellando ed animando il soggetto vivo quanto e più del modello. Tutto è di grande e sorprendente effetto, tutto è affidato ad un’abilità sorprendente di dosare la luce, di creare sorgenti luministiche che contornano e modellano, a geniali giuochi d’ombre integrative dell’abito e della carne; e l’atmosfera circostante sembra agiti, rendendole vere e palpitanti, tutte le parti complementari staccate dalla massa centrale, in moto diremmo, perché agitate dal comportamento della figura e dall’atmosfera adeguata al disimpegnarsi e vivere del modello umano; abiti, cappelli, velette, piani mobili e complementari insomma. L’impressionismo di Rosso non è dunque di quei movimenti che s’incontrano ad ogni svolta di secolo, che è dato scoprire anche parzialmente in questo o quell’artista a cui può ricollegarsi un più tardo epigono. Si tratta di una intuizione univoca, isolata nel tempo, di un mutamento radicale del gusto rifacendo radicalmente, tutto d’un fiato, il cammino e l’evoluzione di secoli. E', quella di Rosso, una visione della realtà genialmente avvertita, sentita e trascesa da una singolare spiritualità, da una intelligenza che del mondo e della natura ha penetrato diverse universali vibrazioni, la vita oltre la materia, le percezioni eterne, sensibili, la spiritualità piena svuotata dalla materia, la parte di noi che dura eterna senza disfarsi e modificarsi. Rosso soffre e geme con le sue creature che sente nel sangue, e fermando gli attimi di suprema gioia o dolore, prende parte al loro destino commuovendosi sino alla partecipazione più intima a quella gioia o dolore. Non diversamente possono giustificarsi così profondi stati d’animo ed una così alta sublimazione artistica dell’indigenze, della miseria, della degradazione anche, di tutto ciò che altri non percepisce e scopre arrestando l’indagine della materia, alla massa e ai volumi, ai piani anatomici, alla consistente corposità. Rosso è andato al di là di tutte le tradizioni, ha colto qualcosa di diverso e di più che non tutta la scultura precedente dove manca la simultanea vibrazione dei sentimenti, la vita in potenza e in atto in senso pieno e vero. E, rimosso il pretesto, tutto è creazione che erompe dal di dentro. Il modello di Rosso può essere anche inerte; è l’artista che lo anima, che lo agita, che gl’imprime la sua vita, che lo scuote facendogli manifestare la sua vera natura. E quant’altri con un tono così elevato avevano esaltato, cantato e sublimato il brutto e la miseria? Insistendo sul fatto creativo, bisogna ammettere e sostenete che nessuno prima di lui, ad onta della tradizione millenaria, di greci, etruschi , romani e di tutto il Rinascimento grandissimo, aveva concepito una scultura tutta piani e volumi fluidi ambientati nell’atmosfera, affidata al modellare della luce soprattutto, all’irradiarsi della quale è affidato il compito di definire la figura umana, in una mobilità che si traduce in vita che respira e vive nell’avvolgente cono di una mobile penombra: c’è la tradizione sì ma quella lombarda, leonardesca, nel suo lento svolgersi ed evolversi, ma con un arco ed un distacco che diviene in Rosso intuizione immediata, genialità singola e irripetibile. La serrata intensità dell’espressione è quella fuggevolissima dell’attimo che dilegua, che non si ripete, quasi di un battere di ciglia. Le creature di Rosso sono così di carne e ossa creati dall’arte, anime in pena spesso immerse in ebbrezze che arrestano la vita in espressioni di gioie o dolori e non possono avere altro che quella momentanea espressione di interiore carattere, di balenante sentimento. In sostanza, non sono opera di uno sforzo di osservazione specie del dato realistico colto a volo, di indagini del particolare e del tutto, dell’ansia di renderli vivi nella loro consistenza fisica, poiché inizio e arrivo della sua rappresentazione è l’attimo veritiero di una intensa espressione improvvisamente balenata, il reale di un’attimo che affligge o illumina come per una improvvisa percezione di un universale che gravita si riflette e si specchia in una creatura. Ed è proprio il balenare di un’attimo di felicità espressiva, di un momento di simultaneo dolore o godimento che atteggia nella massima espressione una maschera facciale e il cui volto potrà coglier solo uno spirito di fulminea osservazione dalle intuizioni geniali di Rosso. Sono immagini singole, che non si ripetono, che non è possibile cogliere due volte, che hanno una sola balenante battuta. Sicchè il mondo di Rosso è tutto un tessuto di espressioni fulminee colte dalla fosforescenza delle sue pupille, e che si realizza con materia adeguata, che ubbidisce fulminea alla vertiginosa mobilità del pollice guidato dal fantasma che la pupilla dilatata trasmette allo scorrere veloce della mano che fissa nell’argilla o nella cera l’atmosferica espressione di profonda umanità, di aperta gioia o muto dolore. Tutto ciò che rilutta a fissare l’attimo che coglie, che non cede, gli riesce infatti estraneo e indifferente come materia atta a plasmare e tradurre in vita quel mondo di balenanti sentimenti. E non sono, tutte le sue opere, attimi fugacissimi di espressioni e impressioni, vita colta nell’immateriale e incorporeo balenare della luce e dell’ombra persino nei titoli? Cos’è mai “La Risata”, “ La grande Risata “, “Impressioni di Omnibus”? Nell’incosciente risata della Mezzana colta all’estremo limite di una espressione, nella sonnolenta scena di “Impressioni d’Omnibus”, nella maschera dolente del “Malato all’Ospedale”, nella “Donna che ride”, del 1891 e nella “Grande rieuse” pure del 1891, nel Bimbo all’Asilo dei poveri”, in “Donna dalla veletta”, nel “Bookmaker”, nell’ “Uomo che legge”, nelle “Impressioni del Boulevard”, “Bimbo malato”, “Alla Stazione” e in tutto ciò che è colto in moto, arrestato nella articolazione del volto come in una istantanea, fissa l’ansare del respiro, un batter di palpebra, il battito del cuore, il suono e la luce, s’è possibile dire. Sta qui appunto la grandezza di Rosso, nel cogliere e fissare tipi e caratteri, nel darci le impressioni le più rapide possibili, fuggevoli, fulminee e sopratutto irripetibili di una momentanea espressione sussidiata dalla sua singola genialità artistica.. Non intendiamo con la nostra elencazione escludere qualcosa di Rosso, perché, opere come “Sotto il lampione”, l’”Età d’Oro”, “Il Cantante a spasso”, “Malato all’Ospedale”, “Ritratto del Signor Rouart”, “Conversazione in giardino” e molte altre, tutte direi senza esclusione, sebbene non siano il mondo più proprio di Rosso, fissano e determinano un’epoca della storia dell’arte con l’apparizione improvvisa di un autentico genio, di un geniale creatore, di un artista che non ha precedenti nella più volte millenaria storia delle arti figurative. In mezzo a tanta caotica perversione di oggi, sia pure a distanza di un decennio, la Biennale di Venezia prossima farebbe bene a riproporre l’opera di Rosso. Sarebbe immettere un raggio di tersissima luce nella tradizione grande, oggi in discredito, della più grande e gloriosa rassegna d’arte che mai il mondo potrà sostituire o minimamente imitare: Venezia.
Alfredo Entità da " CROGIUOLO " Trimestrale di Lettere Arti Attualità n. 3-4 Gennaio-Giugno 1961
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