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LA POESIA DI UGO ENTITÀ - articolo di FRANCO SPENA

  LA POESIA DI UGO ENTITÀ di FRANCO SPENA - articolo in “LIBERTANDO”

 

 

       Ci si immerge nella lettura dei testi e ci si accorge  di vivere, di praticare uno spazio metafisico nel quale si è compresi e nel quale ogni tentativo di orientamento è un tentativo di conoscenza. Ci si accorge dunque di praticare un viaggio in una zona di mezzo senza sud e senza nord; ci si rende conto soprattutto del fatto che probabilmente la stessa zona non esiste, perché il viaggio diviene pratica tragica e meravigliosa di altezze e precipizi, voli e cadute, salti in un etere che è buio e anche luce per fare  dei termini dello smarrimento il vocabolario per conoscersi, per costruire i termini della vita, per coordinare i termini del vivere.

       Il viaggio - se di questo termine si può fare, tra virgolette, una metafora della poesia di Ugo Entità - diviene allora occasione per elaborare termini di orientamento, all’interno di uno spazio metafisico che tuttavia contiene origine e fine - quello delle parole quantomeno - un principio e una fine che comunque comprende la poesia, ma anche il poeta. E che dunque ci contiene, che forse ci appartiene, sospesi tra poli magnetici discontinui che continuamente ci attraggono e ci allontanano.

       Per questo sembra che Entità instauri un rapporto insistente tra interno ed esterno, praticando l’evento di entrare e di uscire da se stesso, un se stesso che diviene quasi una zona del sacro nella quale il poeta intesse le parole che di lui dicono, le parole che lo pronunciano, nelle quali riconoscersi, e che divengono segni per connotare il luogo e lo spazio del suo essere o non essere nel tempo, ma anche per cogliere rotte di salvezza e, perché no, anche di fuga astrale.

       In questo senso Entità si inserisce nella migliore tradizione della Poesia del Novecento che eredita dalla cultura occidentale la magica nozione del viaggio. Il viaggio che è segno di avventura, ma anche di riconoscimento della grandezza dell’uomo.

Così il “camminarsi dentro” del poeta è un eremitare, un peregrinare sotterraneo, un percorrere vie interiori a caccia di “regni” per cogliere il senso della terra e della carne, per riconoscerci déi e creatori del proprio cammino ( Siamo, ibidem). E si coglie il senso di una sofferenza che è consapevolezza di destino e, nello stesso tempo proiezione di un evento che si compie ad ogni passo che è compimento di una vita che non è mai l’ultima (Guerriero, ibidem).

       Entità non viaggia dunque per partire, come direbbe Baudelaire e neppure per tornare come vorrebbe Emerson, ma la partenza e il ritorno sono la condizione dannata nella quale si circoscrivono le ellissi della vita, nella quale si svolge o si sconvolge l’esistere, comunque, lanciati come comete - e si coglie un senso di lirica dolcezza – coinvolti ad orbitare mentre scriviamo la storia “ della nostra presenza”( Della nostra presenza, ibidem).

        La parola ha una sua fluidità compassata, ed è  il risultato di una meditazione profonda, di una gravità che la isola quasi nella struttura del verso, ma fluisce nell’espandersi del senso, a determinare quasi inattese coordinazioni nel rapporto tra i significati, nel collegamento che viene a scoprirsi in un sottile e sussurrato gioco di coreferenze, in un primo tempo nascoste, che appaiono poi come una rivelazione.

       Sono luci che emergono e tornano a nascondersi e che connotano quel carattere apparentemente criptico che assume a volte la poesia di Entità, aduso a calibrare spazi, maiuscole e parole quasi elementi di una alchimia preziosa, misteriosa e segreta.

       Si avverte la sensazione di essere quasi alla presenza di un rito bizantino, per il quale il celebrante-poeta entra ed esce dalla stretta porta di una iconostasi al di là della quale avviene l’incontro con la parola che si forma e si rappresenta nella pratica di un esercizio “sacerdotale”. L’uditorio avverte la presenza dell’evento, ma non può contemplarne i segni.

       E’ in questi termini  che si avverte spesso il disegno poetico di Entità, come voce che si presenta e si cela, quasi a velare un paesaggio che scompare per oggetto di abbaglio, per rendere comprensibili i silenzi forse, quei toni di mezzo che determinano tensione e attesa, per mettere in evidenza gli angoli sfumati di luce dove, oltre la vita, “cova la morte” e il mistero ( Finestra, da “Acrocoro” ).

 FRANCO SPENA

 

 

 

 

 
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