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LUIGI FONTANELLA

 

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NOTA  dell’autore

Le poesie qui scelte e raccolte sono scritte nell’arco di trentacinque anni. Nella trascrizione dei testi ho apportato qualche lievissima modifica rispetto alle prime edizioni, cui rimando anche per le eventuali delucidazioni da me espresse nella Nota finale di ogni libro. Vorrei che quest’antologia ne fissasse la versione definitiva ( se mai nulla è veramente definitivo nella vita).

 

Il  poemetto Torpor è uscito autonomamente in una plaquette fuori commercio, a cura di Elio Grasso ( Sagittario, Genova, marzo 2004 ).

    

da ANTOLOGIA DELLA CRITICA

 

Così, con questa voce così definitiva e coerente, Fontanella attraversa in un viaggio temporale e spaziale la sua e nostra vita, in cui l’azzurro è quello degli occhi che guardano e della memoria che è come un vasto mare da cui emergono gli avvenimenti personali e universali, come la vicenda ironicamente rievocata del giovane poeta che incontra il poeta illustre e consulente editoriale e non rinuncia, nonostante il consiglio ( “ ci vuole più distanza “ ), all’amore senza calcoli per la poesia. Attraverso tanti segnali, in cui ogni poesia è come le tessera di un mosaico, emerge un volto umano, come risposta a quell’impulso primario a rappresentare/ un suo simile “, come dice il testo ad incipit dell’intera raccolta. Una poesia quindi totale, che riflette cammin facendo anche sul sé storico ( “ oggi  la poesia rincorre se stessa “ ), sempre al confine col canto, come indicano alcuni testi esemplari tra i quali Gli oggetti che ci sopravvivranno, bello per metrica e per l’intuizione che reca. Un’opera in lotta contro la perdita del reale, a cui rimane caparbiamente abbracciata in lotta contro ciò che scivola via, inghiottito dalla “ nube del tempo “ di fronte alla quale il poeta non rinuncia ad innalzare la sua difesa di memorie e parole.

 

[Gianfranco Laureano, Le azzurre parole di Fontanella, “ Graphie, V, n.2, agosto 2003]

 

 

La poesia di Fontanella si veste allora, pian piano, di un’ansia continua e insinuante […]; “cosa cerco io?”, si chiede, infatti, l’autore, mentre osserva, dall’altezza di un volo meccanico, un campo di nomadi. Così quei “ non luoghi”,  propri dei supermarket, dei drugstore, degli aeroporti, si trasformano in transito inquieto e destruente. La vita, il suo irritato fluire, appaiono quale parata di disaffezioni, di disamori, di incongrue appartenenze, vessate da un desiderio di colmare le proprie commozioni con il commercio di una ragione che non riesce, in fondo, a restituire alcuna spiegazione. Il senso di estraneità, quel non sentirsi adeguati alla dimensione topologica, alla stessa condizione di umana organicità, pone ciascuno nel filamento acceso in continua erosione, che, come nel testo Autodafé, vortica illimitatamente sulla perdita e sull’uso aspro delle affettività. Nel volo, nel viaggio, nella corrosiva non appartenenza alle stazioni d’approdo, nella bipolarità culturale sottesa fra Italia e USA, le ombre si susseguono, si ammassano, si confondono in quel loro essere protese al miraggio della raccolta di visibili fila spinte contro una effimera essenza.

[Aldo Gerbino, Non luoghi di transito, “La Sicilia”, 6 gen. 2004]

     

 

 
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