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ANNA MARIA FARABBI - TERESA MARINIELLO - IN VIAGGIO PER BERLINO: FOGLI DA DUE DIARI

 

 

 

 In viaggio per Berlino: fogli da due diari.


Tra qualche ora il treno. Ognuna di noi due, di nuovo per il proprio binario. Ci si incontra, come al solito, in un crocevia, vivendo insieme il tempo nel luogo scelto. Si coniugano i nostri fili interiori per comporre una treccia narrativa, che è anche il nostro nodo di amicizia, il nostro progetto di camminare e ruminare insieme alcuni cuori del mondo.
Berlino notte.
Il tavolino brilla. Tra il mio indice e il pollice, lievemente oscilla l’asse di cristallo  sotto la concavità trasparente della coppa: il regno lucente rubino dello Spatburgunder dichiara un calore intenso macerato e viscerale. In bocca ha peso e tensione. Agisce in gola. Qui nella sala dell’Imperatore del Grand Hotel Esplanade, siamo entrambe sotto vetro, come dentro custodia, insieme a pochissime facce stanche. Qualche sguardo in un so dove. Penso: che strano dopo aver abitato qui per giorni e giorni è come se non avessi ancora toccato Berlino, o piuttosto è Berlino che non si è fatto toccare,  come se questa città mancasse di ombelico, di un volto unico da cui uscisse un linguaggio continuo, un’identità limpida, riconoscibile e leggibile. A tratti splende, concepito e compiuto dai più grandi architetti internazionali contemporanei (Pei, Ghery, Nouvel, Libeskind, Rogers, Piano, Isozaki, Jahn): luci da un paesaggio multicellulare, senza cuore unico. Senza battito unico. Isole spettacolari animate da un flusso turistico stupito che si meraviglia abbagliato da tagli e composizioni geniali di forme. Penso tra tutte a Postdamer Platz. Qui, dentro Berlino, dentro la notte, dentro lo Spatburgunder, il Sony Center pulsa, la fontana scintilla parabole liquide. La cupola inventa l’andare fermo delle vele. Da qui, per esempio, potremmo ancora prendere un taxi e attraversare le arterie orientali, rigorose e severe, create dal comunismo in un dettato di  pulizia e gelo. O potremmo tornare a casa a piedi, a braccetto , fino alle pietre sfregiate del Museumsinsel, l’isola dei musei, dove silenziosamente trema ancora la guerra,  interiormente, dentro i passanti.  Anche lì ho ricevuto nell’orecchio, in corpo, l’eco zitto di quanti e quanti corpi...crollati giù per terra. Ma rimaniamo ancora sedute, sature, mosse, congiunte nel ridere e ruminare Berlino attorno al cerchio del tavolo.
Teresa, dietro gli occhiali, s’immerge a voce alta tra i dettagli di una cartina urbanistica, mi narra gli strati del passato, le variazioni, il corpo di questa metropoli esposto lucidamente a nuovo, almeno per alcuni arti. Il fumo della sua sigaretta mi torna rosso in gola, un nodo. O sarà l’odore di cenere umana che dalle fogne s’infila nelle mie narici, malgrado i profumi della nuova architettura, o forse  l’incendio del 10 maggio del 1933 (Bebelplatz) che ancora continua. Se non qui, da qualche altra parte del mondo. Il quadrato pavimentale di vetro, in piazza, offre di notte la profondità illuminata del vuoto, l’assassinio della memoria scritta. Ecco forse lì, l’unica testimonianza della tragedia, sopra cui si è ricostruito. La visibilità del buco, del lutto. La pronuncia del vuoto voluto.
Per favore, chiedo al cameriere, Marlene Dietrich. La prego me la trovi e che canti qui, ora, la sua nostra Cherche la rose. Mi basta la voce che poi il corpo viene in me da solo. Dentro lo Spatburgunder. In gola, più che nell’orecchio.
Stiamo zitte ascoltando Berlino, mentre lei, in noi,  da qualche parte canta, cominciando con ...nella sabbia del deserto, sulle dune del mare. Il timbro caldo e lento, la leggerezza rallentata del pianoforte, ci trasportano ancora per le vie del tempo e degli spazi di questa città. Ecco vedo dentro me “la rosa amaranta”, irriconoscibile, appesantita dalle pietre, riemergere dalle acque del Landwehrakanalil. E’ il 31 maggio 1919. Vedo Mathilde Jacob, fedele collaboratrice della Luxemburg, che può identificarla solo dai brandelli del vestito, dai guanti, dal medaglione. 
Mi giro, la testa in giostra, la sala del caffè è piena: siedono ai tavoli maestri e maestre a me carissime, che hanno segnato la storia, segnati violentati loro stessi dalla storia. Kathe Kollowitz, con la testa china tra le mani, ripete drammaticamente E’ un anno fa che ebbi per la prima volta quella sensazione in testa, che adesso provo spesso, la sensazione delle mie meningi. E’ una sensazione che confluisce in un punto centrale. Non dolore. Sensazione. Di qualcosa che si solleva e punta verso il centro…un magnete messo lì (20 agosto 1909...dal suo diario- Voglio segnare questo tempo, La Luna, 1989).  Dal primo decennio del secolo scorso, gradualmente, il centro della città si sposta, si moltiplica, scomparendo nel fuoco. Brecht …si trasferisce qui a Berlino nel 1924, anni in cui i fermenti culturali vibrano oro. Ricordo il suo incontro decisivo con Kurt Weill. …Dal nulla in te questa fiumana scroscia/da un dettaglio, da un pout pourri,/là ceneri tu prendi, là le fiamme, e le spargi, le spegni e custodisci.//Lo sai, non puoi tutto afferrare, dagli un confine, la verde siepe/a questo e quello intorno, distaccato/sei, ma pur sempre esiliato nel dubbio ./…(Apréslude) Canta per me anche Gottfried Benn con l’amarezza tragica di chi ha visto tutto e ha passato tutto, dalla sua iniziale adesione al nazionalsocialismo allo scostamento definitivo, scrivendo la sua tensione inquieta e solitaria; Grosz, Lang, Murnau, Sharoun, Anna Seghers, Karajan e un uomo con la lanterna che fa luce alle suole ustionanti di Hitler.
Mi prende improvvisamente la spalla la mano calda di un ragazzo. Di colpo torno ferma in terra, nel presente: è il simpatico tenore conosciuto stamattina in autobus, proprio mentre si recava a cantare Moses und Aronne  nella magnifica pancia della Philarmonie di Sharoun. E’ venuto a salutarci. Sapeva di trovarci qui per l’ultimo brindisi prima della partenza. Intanto, Teresa raccoglie le sue foto scattate e sdraiate sul tavolo, tra bicchieri, occhiali e  mappe: gli risponde. Lui chiede. Gli diciamo a turno della nostra soffitta altissima, appena sotto sotto il cielo di Berlino, affittata per questo viaggio insieme. Narriamo qua e là piccole grandi cose vissute tra un passo e l’altro per la città. Mentre ascolta mi guarda. Mi sembra che nasconda un peso, dietro, sulle spalle, sotto la giacca.  O forse lo Spartburgunder detta allucinazioni o effettivamente nasconde le ali angeliche che gli ha inventato Wenders. Mi invita ad un ultimo incontro con la città: perché a quest’ora c’è un luogo, un organismo, un tempio bucato per obliquo, tragicamente mitragliato, dentro cui andare a vegliare gli ultimi secondi prima della partenza del treno. Saluto l’amica, un bacio, accetto il dono: torno con lui emozionata, in volo, davanti al museo ebraico concepito da Daniel Libeskind. L’angelo tenore canta la scena finale del ”Mosé”, in cui, come dice lo stesso Libeskind, l’azione agisce muta, nel dissidio tra due forze contrarie e complementari: Aronne  e Mosè. Il primo non capisce ciò che vive ma riesce a comunicare con la gente, il fratello, invece, battezzato dalla grazia, non ha la capacità né il permesso di portare verbalmente la propria esperienza alla comunità. Forse Schonberg, lacerato da questo stesso dissidio, ha rinunciato a compiere il finale dell’opera. Bloccandosi definitivamente.
L’angelo tenore mi insegna la corrispondenza tra l’arte di Schonberg e l’ architettura di Libeskind, soprattutto in questa costruzione. Nel dire dare cantare creare spazialmente, culturalmente, storicamente, attorno alla corrente emorragica di un intero popolo...se non porgendo come protagonista solo parzialmente attraversabile, camminabile, il vuoto. Il vuoto dell’Olocausto tra una folgore zigzagante di 140 metri per 22 di altezza. Fessure dentro cui la luce. Accessi non percorribili, in cui non è permesso respirare. Un tempio sacro.  Una cassa di risonanza con pochissimi oggetti. Il vuoto come spazio di elaborazione ed evocazione di genialità ebraiche come Mies, Shonberg, Benjamin, Celan, E.T.A, Hoffmann ma anche di corpi corpi corpi anonimi anonimi anonimi sul pavimento obliquo, sulle pareti inclinate, fuori dall’edificio, dentro il lampo elettrico.
L’angelo mi bacia. E penso: che si congiungano i popoli così, come lui a me, rispettando ciascuno la propria identità in movimento. 
Mi da uno strappo alla stazione, alle mie valige, ai miei binari, ai miei taccuini di viaggio, ai miei treni su cui ri/nascere e diventare ogni volta, invecchiando.
Sopra le rotaie, penso a Teresa,  alla prossima, lontanissima, soffitta, via da qui.

anna maria farabbi    

 

 

 

 

In viaggio per Berlino: fogli da due diari.

 

L’ultimo giorno eravamo ancora al Sony Center; per la terza volta chiamati dai tanti riflessi di specchio, riverberi di luci, lembi di cielo visti attraverso gli spicchi della grande cupola decentrata che copre la piazza.
Un senso di velocità dato dagli ascensori trasparenti sulle pareti  di vetro, un senso di spettacolo dato dal grande schermo con proiezioni continue, dalla vasca d’acqua in parte sporgente sul sottostante museo del cinema, dai tanti bar, caffè, ci faceva sentire maggiormente il battito febbrile e pulsante della nuova Berlino, che vuole farsi e si dichiara capitale.
In particolare un caffè attirava l’attenzione, a prima vista una scatola di vetro, un involucro discreto da cui appaiono, avvicinandosi, bianchi stucchi in alto, specchi con cornici lavorate e dorate. Entrando ci si trova nella Kaisersaal o sala dell’imperatore, piccolo frammento dell’Hotel Esplanade, che ricorda con il lusso degli addobbi lo splendore di un’epoca, la vivacità di uno dei luoghi di divertimento più trafficato  d’Europa negli anni 20, Postdamer Plaz: famoso crocevia, che la guerra, e gli eventi connessi, hanno distrutto ad eccezione appunto della sala.
Considerata rovina protetta, è stata tagliata e poi spostata, grazie a  un complesso impianto idraulico, di settantacinque metri; messa in vetrina, esposta come un oggetto di lusso, quasi un antico diadema, ammicca alla grandezza passata, riannoda il filo spezzato riproponendo un nuovo splendore, quello moderno del Sony Center.
La cui grande cupola, composta di strisce, quasi teli da circo sulla piazza del complesso, da bianca di giorno, la sera cambia colore; sotto l’effetto delle luci e dei tramonti, diventa cangiante, mutevole.
Così Berlino, città dai tanti volti,  tesa nello sforzo di curare le proprie ferite, di rammagliarle nell’animo collettivo e nei quartieri, espone se stessa in simboli nuovi e antichi.
L’operazione di restauro e d’organizzazione del Reichstag è in questa chiave di lettura; nel 1995 il Parlamento, in contrasto con il progetto originario di N. Foster, decide di riedificare la cupola, anche se in dimensioni ridotte.
La trasparenza del vetro non solo la rende un luogo panoramico da cui si ammira la città, ma allude anche ad una visibilità dell’operato  della democrazia, così minacciata e distrutta nel 1933 da Hitler con il famoso rogo che coinvolse gran parte dell’edificio.
La  percorribilità, con una doppia rampa, permette scorci vari sulla riunificazione e sul nuovo assetto della città: la vecchia porta di Brandeburgo liberata dal muro, la nuova porta costituita dalle tre torri di Posdamer Plaz,  l’isola dei musei, i nuovi quartieri sulle sponde dello Spree e limitrofi al Tiergarten.
Operazione di riaffermare se stessa, in un intento liberatorio verso il passato, chiaro già nel 1991 quando si decise di trasferire la capitale a Berlino utilizzando la sede del Reichstag. E cosa era questo palazzo se non la espressione della potenza del Reich tedesco rifondato dopo la sua proclamazione a Versailles nel 1871, e cos’è anche adesso per la Germania che si solleva dalle ceneri dell’olocausto con la trasparenza del vetro da una parte, e con la barriera luccicante del metallo dall’altra.
Parlo dello zinco del museo ebraico. Libeskind architetto.
Profondi e lunghi tagli percorrono l’edificio, lacerazioni ancora più espresse in pianta, dove la stella di David è spezzata, stirata, distorta in saetta.
La costruzione ha volutamente un percorso labirintico e simbolico.
Nella parte sotterranea è chiaramente espresso nelle tre “vie del destino”, assi distributivi che ricordano la storia degli ebrei a Berlino e che conducono alla torre dell’olocausto, al giardino dell’esilio, alla convivenza giudaico-tedesca. Nelle altre parti, il simbolo è più allusivo a ciò che non può essere colmato, i vuoti.
Li si incontra durante il percorso, sono spazi che si sviluppano su più piani, su cui ci si può affacciare da alte finestre. Sono pause spettrali che impongono il raccoglimento, il silenzio.
Ma a tratti irrompe il suono, freddo, di metallo.
La splendida, intensa, agghiacciante distesa di piccole facce di ferro, che battono l’una sull’altra; la bocca sbarrata in un urlo che il proprio passo, di visitatore che diventa testimone, esprime.
Berlino, luce e ombra, spettacolo e sobrietà, rigore nel tenere i capi del filo del passato e del futuro, dei tratti che distinguono una personalità e che si traducono in riti, in simboli.
E ritorno alla cupola del Reichstag che porta all’interno, come elemento strutturale e simbolico, un cono rovesciato, rivestito di specchi, su cui le immagini della città si riflettono, si rompono, o si moltiplicano in un solo particolare, ossessivamente ripetuto. La bandiera, un uccello sul fiume, la mongolfiera che si leva in Posdamer plaz, l’aquila imperiale sulla porta di Brandeburgo, la stessa che si trova all’apice del cono, sospesa sulla grande aula parlamentare.
La porta di Brandeburgo è un altro dei luoghi molto coinvolti dalla trasformazione subita dalla città dopo la grande guerra, uno dei punti più drammatici della divisione del 1961; ripresa, dipinta sul muro, in un paesaggio che ancora oggi ci mostra come fosse diventato spettrale e grigio, con un’unica nota vivace, il rosso delle bandiere dell’armata; più in là l’asse prospettico del famoso Unter der Linden, privato dei suoi tigli dai nazisti per meglio permettere le sfilate.
Oggi la porta chiude otticamente ancor più questo asse, filtra il verde del Tiergarten, e costituisce la quinta importante della Parisien Plaz, pausa quasi salottiera nel passaggio sull’altro asse, quello all’interno del Tiergarten.
Centro mondano di Berlino prima della guerra,  è stata riedificata mantenendo le antiche proporzioni, le destinazioni d’uso e una certa percentuale di superficie vetrata, così da risultare accentuata e valorizzata la proporzione tra pieni e vuoti della porta.
Gehry traduce la normativa nella DG-Bank con una facciata molto rigorosa, con forti setti murari intervallati da finestre balconate, ma, con una mossa da giocoliere, inclina la superficie del vetro in uno degli ultimi piani e, in parte in basso.
Così che la grande porta che si specchia appare anche essa inclinata, fuori asse, quasi un divertimento, o una irriverenza giocosa rispetto all’iconografia classica che ancora oggi si vuole dare del simbolo per eccellenza di Berlino.
All’interno della banca, l’atrio ha una scansione ugualmente severa e elegante con le sue pareti in legno rosato, con la copertura reticolare che copre la sala delle conferenze. Oggetto scultoreo, rivestito di metallo, sembra sospeso con la sua enigmaticità, il suo richiamo a forme antiche e zoomorfe.
Un fuori razionale e normativo, un dentro onirico e fantasmatico; come nella sala dell’imperatore all’interno del Sony, una gemma di diversa fattura racchiusa ancora in una scatola.
Immagini che associano canzoni, parole che si sono dette sulla poliedricità e il divenire di questa città; ci si ricorda dello sguardo dell’angelo di Wim Wenders, raccolto sui pensieri della gente con com-passione, sia nella profondità dei tunnel metropolitani, sia dall’altezza della statua della Vittoria alata, e ci si affianca al regista nel suo dire oggi: “…Berlino è un’astronave perduta in un sistema solare sconosciuto dove tutto è possibile, più possibile che altrove .”

teresa mariniello
                                                     

 

 

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