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LO SPAZIO DELLA TERRA E DELL'ANIMA, di FRANCO SPENA

 

 


E’ difficile, nel caso di Francesco Carbone, separare il critico dall’artista, così come non è possibile separare questi due modi di essere dall’uomo. Poiché quella di Carbone è la figura di operatore  artistico e culturale, "libero battitore", come si definiva egli stesso, produttore di stimoli calato a tutto tondo in una realtà per lui sempre capace di cogliere , nel rapporto e negli eventi, nuova carica per fare della vita e dell’arte una ricerca continua.
Una ricerca che trae sempre fondamento  dalla profonda carica affettiva che sa infondere, per cui ogni evento creato da lui e assieme a lui si configura sempre come una esperienza di grande umanità. Umanità che nasce fondamentalmente dal suo attaccamento alla terra, ai luoghi dai quali nasce la sua cultura, una terra aspra e forte come quella di Godrano i cui segni saranno sempre presenti nelle sue opere. Una terra che è uno spazio e un luogo della mente, che è un teatro e anche un palcoscenico attraverso i quali apparecchia in maniera totale il suo lavoro – si pensi a Godranopoli – di cui sicuramente si parlerà e si pensi anche agli eventi realizzati a Godrano e con la sua gente.
E’ con questo spazio che realizza un continuo rapporto del cuore ma anche del ricercatore.
Ne studia attentamente i segni e costruisce con essi un vocabolario tutto personale che gli serve per elaborare le immagini della sua poetica, una pratica che nasce dalla storia della sua vita. Penso alle lotte contadine, al suo trasferirsi in America latina e al suo tornare a lavorare con sempre maggiore entusiasmo in un territorio che diviene metafora di desiderio, di riscatto e che compone la matrice arcaica del suo fare arte, il fare arte di un uomo che dirige il suo lavoro su più fronti, investendo di versificati ambiti di linguaggio, dalla performance sul territorio dalle forti motivazioni sociali al teatro per strada, alla land art, alla riflessione sulla storia, alla antropologia all’insegna di una ricerca come pratica spaziale, ovunque e dovunque, in una configurazione globale, totale dell’uomo.
Conobbi Francesco Carbone agli inizi degli anni settanta , ma mi lego sommariamente al periodo ecologico e costruttivista degli anni sessanta poiché in essi si trovano molti elementi, meglio molti interessi che caratterizzano la sua produzione successiva.
Mi riferisco al forte impatto materico delle opere, nelle quali “elementi trovati” si inseriscono in un impianto pittorico, partecipi di una materia aggettante e pastosa, così come il filo spinato, le cartucce, le molle, gli orologi che sembrano immersi in un universo la cui galassia ha un sapore di terra, di quotidiano.
E’ emblematica di questo periodo “La spiaggia” del ’64, con un pacchetto di sigarette, i resti di una lattina di Coca Cola, la rete e i galleggianti attaccati a una corda. L’immagine del mare, denso come una macchia d’olio, sembra farsi ricettacolo di rifiuti come la spiaggia stessa realizzata attraverso accumuli intensi di sabbia.
Cito questo quadro soprattutto perché pone l’accento sull’opera intesa come spazio nel quale agisce l’artista attraverso il suo muoversi fra le cose, fra gli oggetti; opera-ambiente, dalla intensa tattilità quasi da esplorare fisicamente; nella quale agisce, in fondo, quello stesso spazio nel quale continuerà ad operare in maniera interdisciplinare, nei luoghi, come nell’astrazione della superficie o nelle strutture-ambiente del suo periodo costrutttivista nelle quali coniuga spazio, struttura, luce e architettura come, ad esempio, nell’opera “Struttura ambientale” nella quale indaga soluzioni ottiche in una grande installazione di cubi resi trasparenti, quasi leggeri come l’aria, da grandi cerchi ritagliati nelle facce. In quest’opera, che può definirsi una sinfonia di vuoti, i cerchi di specchio mostrano un piano illusorio sospeso tra le nozioni del bianco e del nero.
Si coglie a questo punto quella relazione tra spazio, natura, cultura e astrazione che lo interessa i cui segni troviamo anche nella sua indimenticabile azione sul lago di Godrano del 1972, “Lago rovesciato” per la quale ha sistemato, con l’ausilio dei contadini della zona, lunghi teli di plastica che circuitavano percorsi intorno al lago fra trasparenza, realtà e assenza aggiungendo a un luogo fortemente connotato quella sottile ambiguità che, attraverso l’estetico, diviene forma di poesia ma anche forma di denuncia come, sempre nel 1972, nello stesso territorio, “Fauna al negativo”, operazione di Land Art per la quale sistema nel bosco conigli di polistirolo.
E’ del 1977 l’azione svolta a Palermo utilizzando un lungo rotolo di tubo di plastica, quello usato per irrigare i campi che, partendo dalla sede del Teatro Libero in via Santo Ufficio, andò srotolando, con l’aiuto della gente, fino alla Cala dove attendeva, su una barca, un pescatore. Caricata sulla barca, la cima del tubo fu portata al largo. Realizza in questo modo un legame invisibile, per la trasparenza del tubo, tra Palermo e il suo mare, in una operazione di continuità, ma anche di unione, ma anche di risistemazione ombelicale di una relazione quasi dimenticata.
Nel 1980 realizza all’Accademia di Belle Arti la mostra “Rapporto Arte Città Territorio” col collettivo Ex Foglio d’Arte di Caltanissetta, nella quale propone il territorio come  termine di comunicazione “ridotta” e “contestuale” che esprime il concetto di “quadro di vita” poiché “esso genera, consolida, avvalora, sommuove, provoca, ribalta, natura, cultura, storia”. Raccorda cioè spazi topograficamente articolati e vitali in cui il “frammento” della “creatività del luogo” nel momento in cui si pone come occasione fondante di una condizione più generale e integrante (pittura, scultura, arti visive, scrittura, immagine, parola, voce, suono, gesto, ecc.) diviene anch’esso, dialetticamente e ideologicamente, momento di confronto contestuale”.
In questa occasione coinvolge nuovamente lo spazio del territorio, il luogo dell’esposizione con la gente, uscendo con una lunga corda dall’Accademia e percorrendo la via Papireto collegando concettualmente interno ed esterno, creando u rapporto di continuità tra la mostra e il fuori, dilatando nella strada lo spazio dell’evento che diventa azione nel luogo, evento tra la gente.
“Nello spazio e nel tempo del luogo” – viene a proposito – è il titolo di un suo saggio inserito nella pubblicazione “Godranopoli”, nel quale analizza “Lo spazio utilizzato e la prossemica  di Edward T. Hall”. Dal rapporto tra lo spazio preordinato, lo spazio semideterminato e lo spazio informale nascono le coordinate della cultura, coordinate che divengo i presupposti della “Nuova arte antropologica” per la quale l’utilizzo di manufatti dell’agro contadino dell’interno della Sicilia, viaggiando per nuovi percorsi di senso, mette in relazione storia, cultura e immaginario, passando per operazioni di riciclaggio, ma anche di assemblaggio e di scrittura visiva.
La memoria dell’oggetto si fa presente ma anche progetto e dannazione poiché attraverso la trasgressione della pertinenza si stabilisce con l’oggetto un rapporto magico, e impossibile da dimenticare, al di là delle usure che il tempo pratica nella storia.
Le sue cassette antropologiche sintetizzano la sua visione dell’arte. Contengono i segni del viaggiare dell’uomo fra i segni della terra e i segni del tempo. Sono cassette che contengono oggetti, immagini e anche scrittura, anzi è la scrittura a connotare il senso, a indicare il percorso ottico ma anche dell’anima che conduce a riscoprire le matrici attraverso le quali progettare nuove vie per l’immaginario.
Le cassette antropologiche contengono parole colte all’interno del sistema dei segni della comunicazione che agisce nella cultura del territorio. Segni che non si manifestano semplicemente nei vari livelli del comunicare, ma che investono sia i manufatti ripresi dalla cultura materiale, sia lo spazio che finiscono col determinare.
Uno spazio che ritorna come un’ossessione, uno spazio di azione dell’uomo che Carbone continua a studiare attentamente per il suo utilizzo prossemico  quanto per il suo essere elemento indispensabile che concorre alla realizzazione delle sue opere. Spazio magico della parola, spazio-teatro, quello delle cassette antropologiche che, superando le descrizioni analitiche di Hall, si configura come luogo nel quale si sintetizza il farsi evento della storia.
I contadini e i pastori di Roccabusambra costituiscono in questo senso la memoria della parola, quel tracciato semantico che sottende lo strutturarsi dei segni che rimangono sospesi tra astrazione e documento, mantenendo il legame culturale con la terra, col territorio.
Il continuo richiamare, attraverso la scrittura a stampo, Roccabusambra, è testimonianza di un vissuto, ma nello stesso tempo dichiara il godimento per la forma che, nel suo sistemarsi nella composizione, connota ulteriormente lo spazio sul piano della ricerca estetica o meglio sul terreno della lettura estetica dell’esperienza.
La parola, mentre viene traslata sul piano della metafora, rimane carica di realtà e si sposta sul terreno ampio del concetto che è frutto di un processo di astrazione.
La scrittura è dilatata per essere percepita come immagine, ed è citata insieme a quelle forme di annotazione e di trascrizione rappresentato dalle tacche segniche sul legno o sulle canne o sulle ferle prelevate dalla cultura pastorale.
Le cassette appaiono così un apparato di segni, iconici e scritturali, segni-oggetto che stabiliscono tra loro rapporti stranianti, “legami affettivi” che, spostandosi dalla realtà, concorrono a creare le immagini della “visione”, come gli animaletti, i giocattoli di caciocavallo che, mentre riconducono ad una ludicità dell’esperienza, citano un rapporto quasi fisiologico dell’opera col corpo e col territorio.
Si comprende così l’inserimento nella composizione di carte di identità con le impronte digitali dell’artista o con la citazione e ripetizione del segno di croce come firma di chi non sa scrivere, una sorta di ambiguo percorrere il segno dello scrivere che connota le immagini al di là della scrittura.
Roccabusambra nelle cassette e nelle sue esperienze di scrittura visiva è una tautologia, è un archetipo, un’immagine mitica, un totem e un desiderio, una nozione che vuole lanciare e fare partire come messaggio che prolifera altrove i segni del riscatto.
Alcune cassette contengono così, nella finzione di un viaggio probabile, la busta, la ceralacca, il sigillo di piombo.
Un viaggio forse verso la memoria i cui elementi si compenetrano e compongono fra loro quasi attraverso un rito attento ad apparecchiare qualcosa di sacro.
Tra l’oggetto e la parola di Carbone c’è un legame intenso e la stessa scrittura, densa di elementi appartenenti alla cultura materiale, si connota come scrittura antropologica che continua a mantenere sapore di terra e che continua a ripetere come una litania Busambra, Godrano, Godranopoli.
Sul versante della scrittura visiva sono significative alcune esperienze che abbiamo condotto insieme.
La mostra “Immagine riscritturale” del 1981 all’Università di Pavia è significativa poiché permette al gruppo nisseno di confrontarsi in un luogo quasi deputato a questo genere di esperienza .
Lo stesso Carbone dice nel testo: “Sul versante della Nuova Scrittura Visiva che soprattutto in questi ultimi anni va assumendo fisionomie e atteggiamenti sempre più spregiudicati e decisi, va ora (ma non da ora) registrata la presenza di un gruppo di operatori siciliani, con epicentro più consistente a Caltanissetta e più isolatamente a Palermo”.
Egli stesso dice di sé: “Francesco Carbone, coi suoi assetti iconici e di scrittura dati come vedere NATURALE e POVERO”. Continuando aggiunge: “Una presenza quella siciliana, caratterizzata da una certa ‘ontologia  regionale’  o territoriale significativamente capace di una sua peculiarità di scrittura, di un suo apporto ‘perimetrale’ che avvantaggia e arricchisce il contesto di questa ricerca fondata anche sul suo incessante divenire”.
Gli stessi motivi, che servono a chiarire il senso della sua scrittura visiva, sono ripresi e precisati nel testo che ha scritto per la cartella di serigrafie “La Nuova Scrittura” che abbiamo realizzato insieme col gruppo nisseno nel 1982 in occasione dell’Incontro tra i popoli del Mediterraneo realizzato a Mazara del Vallo da Rolando Certa. Eravamo Angelo Buscema, abilissimo serigrafo, Francesco Carbone, Michele Lambo, Salvatore Salamone, Franco Spena. Nel testo di presentazione lo stesso Carbone analizza le forme dello scrivere e il significato che assumono nello storico incontro mettendo in evidenza il senso antropologico culturale e il ruolo dello scrivere oggi, le sue forme, i suoi contenuti, i significati di comunicazione a vari livelli di partecipazione, di ricezione e di collocazione etnografica.
Egli stesso dice: “Una scrittura intesa nelle sue proposizioni sia di ordine formale che semantico”.
“La Nuova Scrittura non mira più ad essere la traduzione fedele del parlato, ma a collocarsi in una dimensione tutta propria, dove gli assetti semiotici della scrittura stessa riflettono le reali connotazioni dell’universo segnico e non più quello prevalente (prima) della parola”.
Ancora: “Una scrittura, insomma, che non è più per la voce ma per la mente”. “Se ciò è accaduto e accade, e se la scrittura sarà destinata ad altre trasformazioni nel suo divenire, insediata e condizionata da molti altri fattori che prima essa ignorava, perché ritenuti estranei alla propria natura; l’artista del nostro tempo non può non registrare sia consapevolmente che nell’inconscio, l’universo di segni e segnali, di simboli che gli sta attorno e nel quale egli si trova totalmente immerso, finendo così, ‘per produrre segni in forma di scrittura’”.
“Parola e immagine sono entrati in simbiosi con la creatività e l’immaginario del nostro tempo, stabilendo tra l’altro un diverso rapporto d’intesa con le nuove forme di scrittura volte ad essere espressione di multigrafie, di più linguaggi insieme, e a superare il concetto di esteticità e artisticità di una volta, per stabilire in definitiva una nuova dimensione antropologico-culturale della scrittura”.
Da questi frammenti possono estrapolarsi gli elementi che stanno alla base della scrittura “post-estetica” di Francesco Carbone i cui contesti fonosemantici e idosemantici lo renderanno partecipe del movimento teorizzato dal critico padovano Rossana Apicella che è la “Singlossia”., territorio dello scrivere visivo che tanto ha influito nel pensiero degli operatori storici della scrittura visiva della Sicilia.
Francesco Carbone è stato entusiasta compagno di viaggio nell’avventura singlossica insieme con Michele Lambo, e Salvatore Salamone coi quali abbiamo curato le mostre in Sicilia. Animatori impareggiabili e coinvolgenti sono stati Ignazio Apolloni e Vira Fabra. Tale esperienza, nel vederci insieme nel curare la mostra nelle sue tapper siciliane (Palermo, Caltanissetta, Enna, Trapani), ha segnato anche una svolta per la rivista “Intergruppo” che si è spostata sempre più verso questo versante fino a chiamarsi “Intergruppo Singlossie” e attualmente “Ecriture et Singlossie”.
La singlossia di Francesco Carbone non sfugge al dettato antropologico sia per la scelta delle immagini riprese dalla quotidianità, quanto per il carattere scarno, essenziale, povero di una scrittura che appare un resoconto, quasi appunti sparsi in una pagina che non perde quasi mai il suo originario candore.
Nella mostra “Sensi di pace annunciata” che ho curato a Montedoro nel 1993 e che abbiamo spostato a Bagheria, a Palermo, a Sambuca di Sicilia e al Museo di Gibellina, Francesco Carbone installò un’opera emblematica del suo lavoro, affascinante insieme per l’onestà spiazzante degli oggetti utilizzati.
L’installazione, dal titolo “Nuova oggettualità”, è composta da una balla di paglia appoggiata alla parete, quasi un’ara agreste, e su di essa sono poggiati uno staglio, un tridente di legno. Sulla destra è sistemata una pala di legno. Fa da pala d’altare un grande setaccio con delle mensole con sopra un lume e una bottiglia piena di vino. Questa installazione è una variante di una precedente opera esposta, nel maggio dello stesso anno, nella mostra da lui curata ad Alia dal titolo “Antropotecnia”.
“E’ un’espressione”, scrissi allora, “dai forti contenuti antropologici. Gli oggetti, che provengono dalla civiltà contadina, sono recuperati, con profondo rispetto, ad altri livelli di connotazione che comunque richiamano la loro pertinenza originaria. Il loro linguaggio, infatti, oltre ad essere quello delle forme, è quello della loro memoria che continua a parlare di un rapporto intimo con la terra e con gli uomini. Immagini di storia dell’uomo – attraverso l’utilizzo di strumenti della cultura materiale – che, nel nuovo equilibrio compositivo di cui fanno parte, continuano a mantenere la loro intensa carica evocativa e simbolica, che non vuole essere tradita seppure nella diversa sistemazione estetica che la legittima.
Riconduce l’espressione all’origine dei suoi segni per restituirla ad una condizione “immacolata”, in bilico tra memoria e riprogettazione dei sensi che più la legano alla terra. Nella nudità delle cose, forse, la grazia della restituzione della parola a nuovi segni di vita?”.
Un’altra tappa importante del mio incontro con Francesco Carbone è la mostra Lumina/Limina che ho curato sempre per il Comune di Montedoro e che abbiamo spostato alla Pinacoteca Civica di Praia a Mare (CS) e al Centro Culturale Francese di Palermo.
Nell’installazione “Dipingere e scolpire il tempo” è sempre presente il rapporto spaziale che caratterizza la relazione tra le cose.
Come nell’opera precedente, interagiscono il pavimento e la parete.
Sul pavimento un grande cerchio di pietre fa da confine a zolle di terra umida e nera nella quale casuali fili di paglia sembrano spandere luminescenze misteriose. Al centro del cerchio un paio di scarponi vecchi. Alla parete fa da contraltare una cornice all’interno della quale sono appesi due scarponi. Si apre un gioco di rimandi tra l’icona composta in parete e gli scarponi umidi di terra. E’ una l’effigie dell’altra o l’icona alla parete diviene simbolo astratto di una rappresentazione altra della realtà?
Anche se il richiamo ai campi, alla terra è evidente, l’installazione propone uno spazio comunque impenetrabile, circoscrivendo quasi una zona del sacro ove possano fermentare rigeneranti energie che introducono alla soglia – il riferimento è a Lumina/Limina – che è passaggio verso la verità.
In fondo è un sacello che contiene i segni della terra e i segni dell’uomo.
Alla parete gli scarponi incorniciati traslano il senso sul piano dell’icona, della chiave attraverso la quale si può realizzare quel transito che è vicino all’origine e alla rivelazione.
“Fhysis” è l’ultima mostra realizzata insieme, nel 1998, nelle sale del Convento dei Cappuccini di Mazzarino con la Sovrintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta e poi spostata, nel 1999, a Caltanissetta nelle Sale di Esposizione del Comune con Italia Nostra. La mostra si legava a un’esposizione di oggetti della civiltà contadina.
In quell’occasione tornò ad esporre le sue cassette antropologiche.
Nel cogliere la relazione tra il ricercatore etno-antropologico e l’artista, in quell’occasione scrissi per il catalogo: “La cura che dedica al Museo è segno della sistematicità di ricerca che caratterizza il suo lavoro artistico che fa assurgere ad elemento godibile esteticamente ogni oggetto più umile, dimenticato nelle pieghe della quotidianità o lasciato nell’oblio per l’avanzare delle nuove tecnologie, dalla balla di fieno agli scarponi, alla zappa, alle zolle – per citare qualche elemento delle sue installazioni – con una cura classificatoria, nella sistemazione delle composizioni, attenta alla gerarchia dei reperti che colloca calibrando gli spazi e gli equilibri.
Per questo dalle sue installazioni emerge quasi un grande senso di sacralità che offre allo spettatore la sensazione di trovarsi davanti ad uno spazio inaccessibile nel quale ogni oggetto è scelto seguendo le stazioni di un rito che percorre vie dell’anima. Per cui, anche se povere, le installazioni o le sue cassette antropologiche o le sue “scritture”, rappresentano una dimensione all’interno della quale  la storia dell’uomo è disegnata e classificata seguendo tappe significative del suo processo sociale e umano.
L’oggetto, come una cifra, è citato come facente parte di un ciclo illimitato, resocontato e conservato come una reliquia.
Le sue composizioni, dal meticoloso asseto museografico, si fanno compendio di tracce e segni i cui elementi si agganciano spesso ad eventi, a fatti del suo territorio al quale è fortemente legato. Così divengono resoconti non solo dai forti contenuti antropologici, ma anche finiscono per abbracciare perenni problematiche legate al cammino dell’uomo e del suo riscatto sospeso tra sapore di terra e cielo assolato che brucia e addensa le zolle come i segni scarniti di scrittura che ripetono come un rosario BU-SAM-BRA, la rocca che sovrasta Godrano, ove trova rifugio e conforto tra la gente e i luoghi della sua memoria, un territorio, spazio fisico e mentale, ma anche spazio della terra e dell’anima.


FRANCO SPENA

 

 

 
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