GLI OGGETTI DI FRANCESCO CARBONE La visione dell’oggetto investe tutta la produzione di Francesco Carbone nel senso che il manufatto assume nel suo essere ri-tratto dalla realtà. Dalla realtà che, mentre lo destina all’uso, lo affida al tempo che lo consuma, ne decreta la fine e la sostituzione. Dopo la sua fine storica, l’oggetto può essere salvato in diversi modi. Può essere considerato un reperto e quindi destinato alla conservazione e allo studio; può essere citato perché portatore di contenuti, di storie, di narrazioni, di forma; può essere riportato alla realtà “intenzionato” di ulteriori sensi; può subire un processo di riduzione dei suoi elementi costitutivi e può essere riciclato o riassemblato in diverse situazioni formali e spaziali; può, ancora, costituire maceria e può essere “oggetto” di accumulo, vittima del tempo, di dissolvimento, di abbandono, disfacimento, o di riduzione a materia; può essere esaltato e affidato all’iperbole e all’enfasi, può far parte di una possibile mitografia storica; può essere amato e tenuto con sé, portatore di relazioni affettive per le vie del sentimento. L’oggetto “trovato” di Carbone non è il redy made di Duchamp. Duchamp affida l’objet trouvè ad intenzioni di senso stranianti che riconducono all’oggetto stesso per le vie del concetto, di un possibile senso “oltre”, se si vuole, che nel nuovo assetta visivo, gli si affida. L’oggetto in sé non possiede ciò (le categorie) di cui “parla” l’artista, assume un significato perché l’artista lo decreta. Né tantomeno la nuova oggettualità di Carbone può fare pensare al repechage di motivi ripresi dalla Pop Art. A parte la differenza sostanziale della scelta di campo, (il mondo contadino – il mondo industriale) la mancanza di ironia permette a Carbone di approcciare la poetica dell’oggetto, non ultima quella relativa alla artisticità, alle ragioni della forma, alla manualità. Sono soprattutto le figure dell’iperbole e dell’enfasi, proprie dell’oggetto fortemente legato alla comunicazione, (l’oggetto della Pop Art) che mancano a Carbone. Il suo poverismo di base è distante, comunque, dalle operazioni dell’arte povera. Gli assemblaggi e gli accumuli dell’arte povera possono portare a una sorta di annullamento dell’oggetto, ad un azzeramento, anche possibile, della valenze compositive. L’oggetto di Carbone è presente nella sua nudità; è la sua essenzialità che prende a fare parte dell’opera e ciò che conduce al suo ri-utilizzo è lo stesso processo che conduce alla poesia. Con quel tanto di messa a distanza che permette di fare dialogare fra loro la natura “inestetica” dell’oggetto con la forma. Nell’elaborazione delle sue opere Carbone non mette in atto tecniche di straniamento, ma accelerazioni o rallentamenti o riequilibri coinvolgono la percezione per via di una diversa messa a fuoco della visione che avviene su altri contesti. E’ la mutazione di contesto che finisce col ridimensionare il punto di vista che determina la lettura dell’oggetto. In questa direzione l’artista e l’antropologo coincidono, poiché nell’opera assistiamo allo stesso procedimento di assetto classificatorio che utilizza nell’allestire il museo. Per cui la geografia visiva della composizione non dimentica mai l’obbedienza ad una grammatica del vedere che è ripresa dalla vita. Per questo la sua non è una operazione concettuale. Un manufatto, mentre è un oggetto storico, per Carbone è anche un oggetto poetico. Da sussurrare, da contemplare, da amare, da ordinare, da calibrare in un possibile assetto visivo. L’oggetto ha un suo silenzio, una sua metafisica. Qualcosa che lo pone su un piano “altro”, in una zona anche di mistero, nella quale non è possibile penetrare o, meglio, che l’artista non vuole profanare. L’oggetto appare senza tempo e sopravvive all’uomo e Carbone lo rispetta, lo adora quasi, come una cosa sacra. Così, mentre teorizza la nuova arte antropologica, attraverso l’utilizzo di quegli oggetti che appartengono alla cultura materiale di quel sapere contadino al quale è estremamente legato, paradossalmente non è capace di tradire i manufatti che attenziona, di farne altro da sé, di utilizzarli cambiandoli per uniformarli in un a composizione (si pensi alle rielaborazioni antropologiche di Calogero Barba o di Giusto Sucato). Gli oggetti sono amati a tal punto che divengono opera, che danno poesia, semplicemente attraverso la loro citazione. Gli assemblaggi di Francesco Carbone non alterano il dettato linguistico degli oggetti; essi rimangono tali e quali la loro funzione storica li ha generarti; essi continuano ad appartenere alla loro pertinenza. La bottiglia di vino, la pala, il pane, il “crivo”, la scala, continuano ad essere etno-reperti, cioè oggetti di vita vissuta che non rinnegano né il loro dettato di appartenenza, né la loro memoria. A Carbone gli oggetti interessano per il loro vissuto e per la loro forma. Sono portatori di storie, di emozioni, di eventi, di affetti e la loro forma è quella e nessun’altra possibile ed è con questa categoria che crea analogie, allestendo composizioni come altari, sistemando i manufatti in una immobile assenza di tempo nella quale possono essere quasi contemplati consacrati al silenzio e alla storia. E all’arte. FRANCO SPENA
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