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CORRADO ALVARO: AVVENTURA NOTTURNA

 

 

AVVENTURA  NOTTURNA


Quand’ero a Parigi, precisamente quattro anni fa, frequentavo un caffè dove non c’erano altro che forestieri. Sedevo tutte le sere allo stesso tavolo, e tutte le sere mi trovavo accanto una donna con cui non mi riusciva mai d’attaccare discorso. Ricordo che per molto tempo non feci altro che sbirciare il suo braccio posato sul tavolino. Aveva una mano nodosa e bianca, lievemente punteggiata di macchie gialle. Vedevo tutte le sere questa mano posata sul marmo, come vivente per se stessa, con una espressione e una fisionomia sua. La mia vicina indossava un pastrano quasi maschile. Del resto, non m’era mai riuscito di guardarla in viso. Mi pareva che fosse ravvolta in una veletta densa come una ragnatela. Una sera, fingendo di raccattare qualche cosa, mi ero curvato in terra. Così potei dare un’occhiata alle sue gambe: le caviglie ossute come il polso, e un paio di scarpe fini e strette che contrastavano con tutta la sua figura maschile.
Accadde che una sera di carnevale, fra le altre maschere indifferenti che a tratti aprivano la porta per entrare, una singolare figura apparve dietro i vetri. Tutta la sala del caffè si volse dietro la porta, senza una ragione apparente. Era una figura di uomo vestito di nero, con un cilindro in capo. Ma lo strano era che egli aveva il viso come scolpito in un frutto rotondo e verde. Si distinguevano benissimo gli occhi neri, le labbra pallide, il naso sottile, ma tutto come annebbiato sotto un verde velo aderente. Fu allora che la mia vicina si volse improvvisamente verso la porta ed io potei guardarla. Non era troppo graziosa ma i suoi occhi gialli di animale domestico le davano una tale espressione di sofferenza che io, naturalmente, ne fui incuriosito. Parlava poco e male il francese, e in tutto sapeva una decina di parole. La sua voce sottile, i suoi gesti di donna fragile contrastavano in modo vaghissimo coi suoi polsi e le sue caviglie forti: si vedevano attraverso il pastrano le spalle ossute e la pelle bianchissima e ruvida..
Le sue idee erano molto limitate, e quando si accorse che io le capivo perfettamente, divenne sorridente e m’invitò ad accompagnarla alla porta di casa. Discorremmo così, per il viale bianco di neve, nel suo gergo. Si chiamava Viera ed era di non so che paese del nord dell’Europa, dove i giorni sono lunghissimi e le notti durano metà dell’anno. Non so se me l’abbia descritto o ma lo sia figurato. Mi pare che il suo paese sia di un colore grigio viola, e che l’aria sia così molle che le cime degli alberi dalle foglie sottili sembrano rapprese dalla nebbia rosata e piovigginosa. Mi pare che ella abitasse una casa in un orto con un cancello bianco su un viale scuro e umido, attraverso il quale si sente l’imminenza del mare sospeso sulla duna alta.
Ella sorrideva col labbro superiore a punta come un cuore, e fu forse questo che m’invitò a entrare in casa sua. Era una vecchia casa dalla scala di legno stretta e ripida fiancheggiata da pareti ugualmente di legno. Pareva di non dover arrivare mai, ma quando la mia apprensione era al colmo mi trovai in una sala grande rischiarata da una debole lampada. Su un tavolo un’arancia grossa e solitaria come un mondo lunare stava nel mezzo d’una tovaglia bianchissima. Nella parete in fondo, un ritratto di donna animava la parete vuota. Viera aprì una porta e scomparve. Qualche minuto dopo, mentre io esaminavo attentamente la stanza, ella ricomparve e si pose sotto la luce in una immobilità assoluta.
Ella indossava lo stesso costume del ritratto, la stessa collana, lo stesso anello. Pareva che vi si specchiasse.
Doveva già essere passata la mezzanotte. Lo vidi dall’aspetto della strada, attraverso la finestra. I caffè si chiudevano uno dopo l’altro e il lamento della metropolitana si spegneva sottoterra come un gigantesco trapano cui venga a mancare la corrente.
Occorre dire che io sono un pessimo conquistatore. Difatti quando ella sedette sul divano con l’aria malinconica di simili circostanze, come se si preparasse ad ascoltare una musica, io non riuscii ad infilare che una serie di frasi stupide e banali.
Le dissi: “Un momento fa vi avrei abbracciata”.
Ella non si spaventò e rispose: “Perché non l’avete fatto?”
Così passò qualche minuto. Alla fine ella si levò di scatto, andò verso la porticina e tornò trascinando sotto la lampada un cesto enorme  coperto d’un panno bianco.

Era un cesto di figure di stoppa , grandi un braccio, messe per diritto e senza testa. Viera cominciò a disporle in terra, allineate. Avevano tutte lo stesso atteggiamento: le braccia e le gambe rigide.
Quando ebbe disposto così una cinquantina di figure, cominciò a tiare fuori le teste che erano in fondo al cesto, munite ognuna di uno stecco al posta del collo. A una a una infilò su tutte le figurine la testa, spingendo in giù forte. Lavorava velocemente. I corpicini nudi fra le sue mani si contorcevano, le teste sorridenti si schiacciavano sotto la sua stretta.
A mano a mano che ogni figurina aveva la sua testa, Viera la scaraventava in un angolo. Alcune avevano ancora il collo troppo lungo e parevano sul punto di soffocare. In breve l’angolo della stanza fu un cumulo di piccole creature con le braccia distese, sorridenti d’un sorriso ebete.
Viera aveva compiuto questo lavoro febbrilmente. Doveva essere tardi. Si sdraiò sul divano. Aveva ripreso il suo aspetto cupo e segreto di quando io l’avevo accanto al caffè, e mi voltava le spalle. La sua solitudine era disperata. Senza guardarmi mi raccontò qualche cosa della sua vita. Ella era stata sposa a un noto conte polacco e l’aveva abbandonato per ragioni che non voleva confessare. Egli riappariva di quando in quando a chiederle perdono, sbucando dai luoghi più insoliti: dalla finestra, dal lucernario del suo studio.
Era assai tardi e io dissi con voce lamentosa: “Io abito all’altro capo della città, e a quest’ora  non troverei il mezzo per andarmene. Stasera sono in uno stato di animo confuso. Domani vi abbraccerò, ma permettetemi di dormire qui, magari nella stanza accanto”.
Ella rispose: “Tutti così dicono”.
“Come tutti?”
“Tutti. Finisce sempre così”.
Allora ella si alzò, aprì la porticina, e mi disse: “Dormirete in questa stanza. E’ il mio laboratorio. Io dormirò sul divano. Buona notte”.
Chiuse la porticina dietro di sé ed io sentii, nel buio, che si toglieva le scarpe.

Quando toccai il bottone per accendere la luce, la stanza fu inondata da una luce abbagliante. Nella grande sala, percorsa da un cornicione bianco in alto, centinaia di lampadine splendevano. Le pareti della sala erano rivestite da una serie di vetrine coperte da tende verdi. Ho detto che era notte inoltrata. Avevo i nervi stanchi dopo quella veglia curiosa, e nello stato d’animo di chi teme le apparizioni improvvise. Perciò stetti qualche minuto in dubbio se aprire o no le tende di quelle vetrine. Mi assicurai che la porta fosse chiusa. Viera l’aveva chiusa di fuori e aveva tolto la chiave. Nella sua stanza ella aveva spento la luce. Stavo per gittarmi sul divano quando sentii un mormorio indistinto. Ero sicuro che non avrei dormito. Provai a dire le preghiere della sera per sedare le inquietudini; a dirmi che ero debole di nervi da qualche tempo; che le ore notturne mi davano da un pezzo l’impressione di un disastro imminente. Ma la mia inquietudine aumentava. Allora, mi avvicinai in punta di piedi a una vetrina, con un gesto rapido e improvviso come chi voglia sorprendere qualcuno, scostai la tenda.
La vetrina era ampia e profonda.  Là erano raccolti insieme, immobili, alcuni modelli di cera grandi come persone. Si vedeva una signora seduta nel mezzo, presso un tavolinetto dorato, in una semplice toletta di seta bianca. Presso di lei era curvo un giovane vestito in frak. L’abito non pareva tagliato sul suo dosso, e gli stava rigido e greve. Tutt’intorno una folla di donne si pigiava in atteggiamenti incantati. Ma tutta quella folla era nuda, portava soltanto, attorno alla vita, una stretta maglia gialla. E questo non pareva imbarazzarle. Avevano, anzi, alcuni gesti graziosi come quelli che si vedono in società o nei modelli delle vetrine di mode.
Il vero oggetto dell’attenzione di tutti non era né la signora seduta né l’uomo in frak, ma un’altra signora vestita appena di una combinazione di merletti finissimi e fasciata d’uno stretto busto di seta dorata. Ella stava nel fondo, in una bussola di vetro, e sollevando il braccio da mostrare l’ascella bianca e lucida girava attorno a se stessa.
Io non sono un uomo pauroso, ma quando vidi tutti quei visi rassomigliare a persone che frequentavano il mio solito caffè, fui preso da una specie di terrore. Sarei stato incapace di muovere un passo. A un tratto, attraverso il vetro, vidi le labbra della signora in combinazione muoversi lentamente; le sue sopracciglia si levavano e si abbassavano lentamente, le sue palpebre battevano impercettibilmente, ma sicuramente. Una di quelle figure, sdraiata su un divano, con la mano poggiata sull’anca su cui notavo le graziose venature della cera , mi disse: “E’ la signora che vuol parlare”. Non me lo disse distintamente, ma appena muovendo le labbra, senza suono. Tant’è vero che il vetro tra me e lei si appannò lievemente.
“ Ebbene? ” ebbi la forza di rispondere.
“ Ebbene – disse lei – è una cosa che la fa soffrire. Tutti noi soffriamo. E’ un dubbio atroce il nostro.  Né più né meno che il dubbio dell’esistenza. Voi sapete che cosa è la logica delle cose? Noi ci siamo ribellati tutti ad acquistare questa forma”.
“ Non capisco “.
“ Noi  sapevamo che il giorno in cui avessimo assunto forme di persone sarebbero cominciate le nostre sofferenze. Un usignolo artificiale, che canta quando è caricato, un giorno tentò anch’esso di cantare per conto suo. Così, noi, siamo costretti, co-stret-ti a tentare di vivere, perché è legge.
Questo ci fa soffrire molto. Noi ci ribelliamo ma non possiamo. Anche perché tutto quello che facciamo è soltanto l’immagine della vita, e non la vita. Non possiamo né vivere né morire: ecco tutto. Apriteci. Vorrei stare un poco con un uomo. Forse riuscirei a vivere davvero ”.
Ella disse queste cose in modo indescrivibile. Le sue labbra si muovevano appena come in una preghiera veloce. Di quando in quando, contemporaneamente al battito delle mie, battevano le sue ciglia..
Timidamente aprii la vetrina. Quello che accadde poi mi parve tanto straordinario che ancor oggi m’è incredibile.
Quelle figure si sporsero in fuori, tentarono un primo passo, ruzzolarono in terra, si ruppero in mille pezzi. Chinandomi vidi il volto della donna che m’aveva parlato, rotto e concavo come una maschera.
Ormai non era più che un pezzo di cera dipinto sfacciatamente.


                                     Corrado Alvaro

 
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