NEL CENTENARIO AL PETIT PALAIS Mostra per Baudelaire l’inventore della moderna critica Parigi dicembre Al Petit Palais, mostra dedicata a Baudelaire, poeta e critico d’arte. Per la prima volta il poeta considerato dai più come il padre della critica d’arte viene presentato con le opere che ha giudicato. Circa ottocento pezzi, manoscritti, lettere, quadri di Delacroix, Ingres, Corot, Manet, ecc. fanno di questa mostra un avvenimento eccezionale che chiude splendidamente l’anno Baudelaire per il centenario della morte. Ad essere precisi bisogna dire che il poeta morì nel 1867. La chiara presentazione delle opere in dieci grandi sale del Petit Palais ci aiuta a comprendere l’infanzia di Baudelaire, la famiglia,, i suoi primi passi nelle lettere, nella critica d’arte. Ci soffermiamo con Antoine Blondin davanti a una fotografia di Baudelaire: “questa testa messa a taglia, ne conosciamo il viso. Appartiene al bagaglio dell’adulto civilizzato. E’ un ritratto senza età, un viso per l’eternità che vi scruta a sua volta, con freddezza, amarezza, ironia, appena lo si interroga”. C’è molta eleganza nella cravatta annodata come un foulard, ma uno sgomento di lunga lena chiude la bocca sottile, quasi incurvata da un singhiozzo. Il naso carnoso spunta un po’ ma le guance glabre sono di un asceta sfinito da esercizi terribili. L’occhio è acuto sotto una fronte vasta, ma questa fronte è ostinata sotto i capelli rasati. E’ il viso di un prete, ma spretato, la faccia del prossimo ma murata, la maschera di un provocatore ma umiliato. Ci si dice: “ Ecco dunque ciò che la vita ha fatto di Baudelaire”. Poi apriamo la sottile raccolta di “Les Fleurs du mal”, si aggiunge: “Ed ecco ciò che Baudelaire ha fatto della sua vita”. I manoscritti de “Les Fleurs du mal” sotto vetro, le prime edizioni, ci commuovono. Ma è soprattutto a Baulelaire critico d’arte che con questa mostra si è voluto rendere omaggio. Con la pubblicazione de “Le Salon 1845”, il suo primo Salone, si manifesta subito maturo nei suoi giudizi. Ma è col successivo, nel 1846, che abbozza una filosofia dell’arte. Certo, dice René Huyghe, Baudelaire non è l’autore di questa profonda rivoluzione che, rifiutando i sistemi di idee sui quali posava il concetto che si aveva dell’arte, ha aperto la strada alle scuole moderne. Ha soltanto avuto coscienza della sua natura e della sua ampiezza con una chiaroveggenza prima sconosciuta e che solo Delacroix aveva avviato. Ma il grande pittore romantico aveva, per la sua cultura e il suo carattere, troppi legami con la tradizione per misurare e accettare tutta l’importanza delle idee che enunciava, si pure già con fermezza. Baudelaire, bisogna ammetterlo, le ha raccolte dalla sua bocca; spesso ne ha ripetuto l’espressione quasi con le stesse parole; ma c’è in lui una aspirazione fremente verso l’inatteso del’avvenire che gli permette di conferire loro un valore inedito. Con lui, e con lui soltanto, entriamo con passo risoluto in una era nuova che Delacroix ha preparato ma che Baudelaire, col lato del suo carattere che inquietava e allontanava il suo grande maggiore, ha orientato verso le sue più risolute audacie. Salone 1845. Primo salone di cui Baudelaire ha fatto un resoconto. Qui, al Petit Palais, non ci sono certo le 2332 opere che allora furono esposte. C’è un gesso di Lorenzo Bartolini, “La Ninfa e lo scorpione” di cui Baudelaire scriveva: “Certo i nostri scultori sono i più destri, e questa preoccupazione eccessiva del mestiere assorbe oggi i nostri scultori come i nostri pittori; - ora, è appunto a causa delle qualità un pò dimenticate dai nostri, cioè: il gusto, la nobiltà, la grazia – che guardiamo l’opera di Bartolini come il pezzo capitale del salone di scultura. – (…) nessuno di essi ha saputo trovare un motivo così grazioso; nessuno di essi ha questo grande gusto e questa purezza d’intenzioni, questa castità di linee che non esclude affatto l’originalità…”. Con la scultura di Lorenzo Bartolini, ritroviamo, delle opere che furono esposte al Salone del 1845, un marmo di Bosio, un paesaggio di Brascassat, il celebre califfo di Chassériau, quadri di Clésinger, Corot, Dantan, Dauzats, De Bay, Debon, Drollings, Flandrin, Gleyre, Granet, Haussoullier…come possiamo constatare alcuni ancora presenti mentre altri completamente dimenticati, a volte anche ingiustamente. Ma in questo Salone è presente anche Delacroix. E del pittore romantico ci sono in questa sala due quadri “Ultime parole dell’imperatore Marc’Aurelio” e “Il sultano del Marocco Muley-Abd-Err-Rahamannnn ricevente lo ambasciatore di Francia”. Guardiamo il primo con Baudelaire: “…Quadro splendido, magnifico, incompreso. Siamo in pieno Delacroix, vale a dire che abbiamo innanzi agli occhi uno dei più completi saggi di ciò che può il genio nella pittura “Questo colore è di una scienza incomparabile, non c’è un solo errore, - e tuttavia sono soltanto ‘tours de force’ – sforzi invisibili a sguardi distratti, perché l’armonia è segreta e profonda; il colore, lungi dal perdere la sua crudele originalità in una scena nuova e più completa, è sempre sanguinario e terribile. Questa ponderatezza del verde e del rosso piace alla nostra anima. Delacroix ha perfino messo in questo quadro, almeno lo crediamo, alcuni toni di cui non faceva uso abitualmente. Gli uni mettono in evidenza gli altri. Il fondo è serio come conveniva a un simile soggetto. “Infine, diciamolo, perché nessuno lo dice, questo quadro è perfettamente disegnato, perfettamente modellato. – Il pubblico ha una idea delle difficoltà che s’incontrano nel modellare col colore? La difficoltà è doppia. – modellare con un solo tono è modellare con uno sfumino, la difficoltà è semplice; - modellare col colore, è in un lavoro spontaneo, complicato, trovare in partenza la logica delle ombre e della luce, in seguito l’esattezza e l’armonia del tono; In altre parole, se l’ombra è verde e una luce rossa, trovare subito una armonia di verde e di rosso, l’uno scuro e l’altro luminoso, che rendono l’effetto di un oggetto monocromatico e girante”. Baudelaire iniziava la “carriera” di critico. Gli capiterà spesso di parlare di Delacroix, “il pittore più originale dei tempi antichi e moderni”. Molti sono d’altra parte, i Delacroix esposti al Petit Palais. “Rebecca rapita”, di una “perfetta disposizione di toni, toni intensi, fitti, serrati e logici”, l’Autoritratto, “La Barca di Dante”, “…vero segnale di una rivoluzione” – “Scene de massacro di Scio” – “L’Imperatore Giustiniano” – “ Donne di Algeri”, “questo piccolo poema interno” come lo definiva Baudelaire – “Una odalisca” – “Il Tasso” – “Lotta di Giacobbe con l’angelo” – La morte di Sardanapalo”, a proposito del quale scriveva il poeta: “spesso i miei sogni si sono empiti delle magnifiche forme che si agitano in questo vasto quadro, meraviglioso come un sogno”. Di Ingres al Petit Palais, oltre “Francesca da Rimini e Paolo Malatesta”, “Edipo” e “Giovanna d’Arco” troviamo la “Odalisca” che suscitò le risa del pubblico, per le sue forme allungate, che veniva esposta nel 1846 alla mostra del Baza-Bonne Nouvelle. Baudelaire scriveva allora “il posto ci manca, e forse la lingua, per lodare degnamente la Grande Odalisca di cui Raffaello sarebbe stato tormentato”. Dal “Marat” di David, esposto anch’esso nel 1846, “una delle più chiare testimonianze del genio di David”, ai paesaggi di Corot di cui “quasi tutte le opere hanno il particolare pregio dell’unità, che è uno dei bisogni della memoria”, ai Courbet per cui la stima e l’affetto dovevano dovevano subire col passare degli anni alcune scosse che tuttavia non impedivano a Baudelaire di scrivere, di riconoscergli una selvaggia e potente volontà che “ha contribuito non poco a ristabilire il gusto della semplicità e della franchezza e l’amore disinteressato, assoluto, della pittura”. Dai quadri, e purtroppo ne citiamo solo alcuni, alle caricature, ai Daumier, Costantin Guys, di cui d’altra parte possiamo vedere alcuni eccellenti disegni che in pochi tratti rivelano oltre che un acuto osservatore di costumi, di scenette parigine, un virtuoso del disegno, alla Vernet, Pigal, Chalet, Gavarni, Trimolet. Di Daumier scriveva nel 1857: “Voglio parlare di uno degli uomini più importanti, non dirò soltanto della caricatura, ma dell’arte moderna, di un uomo che ogni mattina, diverte i parigini, che ogni giorno soddisfa i bisogni della gaiezza pubblica e dà loro il pasto…” Di Manet, al Petit Palais, possiamo vedere “Etude pour la musique aux Tuileries” “Chanteur Espagnol” “l’Olimpia”. Baudelaire fu uno dei primi ad aver capito il genio di Manet. Lo considerava inoltre un amico. Eppure, nel 1863, quando il giovane pittore era impegnato nella dura battaglia del “Dejeuner su l’herbe” il poeta non si schierò ufficialmente accanto a lui. Stesso atteggiamento quando due anni dopo scoppiava lo scandalo “Olimpia”. All’epoca dello scandalo il poeta era in Belgio. La fine si avvicinava. Rientrava a Parigi per morirvi poco dopo. Era il 31 agosto del 1867. Moriva il grande poeta e colui che “andando in giro”, guardando,osservando, era diventato per Maurice Serullaz, conservatore al Louvre, il primo grande esteta moderno, con un’opera lentamente tessuta, dal Salone del 1845 fino all’ ”Arte romantica”, fino allo sforzo di mettere assieme gli scritti critici che sono oggi “Curiosités esthétiques”. Le passeggiate senza meta, i giudizi sugli artisti del tempo, rientrano in una filosofia dell’arte coerente e sistematica a suo modo. La “flanerie”, in ciò che ha di avventuroso, incontrava i segreti cammini dell’arte di un secolo. Ma non parliamo di “sistema”. Baudelaire stesso scriveva nel suo resoconto dell’Esposizione del 1855: “Ho provato più di una volta, come tutti gli amici miei, di rinchiudermi in un sistema per predicarvi a mio agio…Sempre un prodotto spontaneo, inatteso, della vitalità universale veniva a smentire la mia scienza infantile e vecchiotta”. R.S. il patio Critica d’arte gennaio 1969 ( anno II n. 1 )
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