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PASQUALE HAMEL: TROUBLE- PRESENTAZIONE DI ALDO GERBINO

 

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TURBAMENTO IN VAGOLA SOLITUDINE

Eppure qui, in questo esistenziale manuale odeporico firmato da Pasquale Hamel, sembra che la parola ruoti, si arrovelli, s’impenni nel cerchio inesistente della memoria, nella volontà che viene manifestata in chi voglia carpire un segreto, il nocciolo imperturbabile di essa; e quanto di questa affiori , anche spontaneamente, nella sua dimensione di verità, per quel voler trovare, a tutti i costi, una giustificazione valida alla vita. «Cerco qualcosa che schiodi dal freddo della pietra la memoria», sottolinea, con strenua semplicità, Hamel nel testo “Attraverso il Parco Yourcenar”, frammento d’un tessuto più vasto di questo percorso temporale elaborato, come una ironica (quindi nel modo della interrogazione) e tranquilla catena d’appunti, sottesa tra Bruxelles, la Sicilia e Milano. E dalla Sicilia emergono le città di formazione intellettuale ed affettiva: Palermo, la splendida Aziz, l’irridemibile e ossomorica Palermo, innanzi tutto; poi tracce, pigmenti: da Siracusa, all’ambito etneo, a Capo D’Orlando (il luogo tirrenico, il montaliano capo d’Olifante, che fu di Lucio Piccolo), e, per le sue terre d’origine, la pirandelliana Porto Empedocle. In questo scavo, posto alla ricerca d’una immagine ristoratrice, si delinea, in una ‘volontà di poesia’, l’angosciante presenza della solitudine, un turbamento lungo la sua acida essenza che vagola per cuori gelidi, per fluttuanti umane passioni. Ora il viaggio segna inequivocabilmente, la sua improrogabile esistenza lineare; un tempo che travolge e sconvolge, e che è – egli stesso scrive - «appassimento e poi caduta, morte…» Cadere, quindi, come morire, abbandonare la strada, o riempire, in altro modo, il vuoto? Il senso cocente della solitudine si offre, così, agli spigolosi assalti della memoria, si avverte come in realtà nessuna fuga possa preservarci da questi pungenti e dolorosi aghi, quasi a raccogliere il grande messaggio di Armand –Jean Le Bouthillier de Rancé, fondatore del severissimo ordine dei ‘trappisti’, e che, travasato nella Vita di Rancé dello Chateaubriand, ne segna, opportunamente, la monumentalità del trascorrer del tempo, della solitudine e della memoria. Tempo, solitudine e memoria sono, allora, accolti da Hamel nella loro dimensione inquieta, gemmati, non da grandi eventi, né da sconcertanti capovolgimenti esistenziali, bensì dallo stillicidio continuo della quotidianità, dallo scorrere infruttuoso di estenuanti giornate, dal trillo vacuo e impertinente di giovani fanciulle in amore, dal movimento insperato d’un indumento fugacemente pencolante al soffio di quel vento impalpabile, quanto ansiogeno, d’incerta provenienza, dalla stessa abbacinante pietra della Grand Place, in un fluire cromatico acceso, vibrante. In trenta step (composti tra il 2000 e il 2004, ma soprattutto centrati e solidificati nel 2003), nella struttura dell’ipermetro punteggiato da quinari e ternari, si visitano modelli d’una varia messe di letture; e, nel folto delle dimensioni poetiche, enucleati tropi a favore di un minimalismo narrativo, lo smalto pascoliano trova la sua collocazione metaforica (“La piuma”) e dispone possibilità e vocazione al racconto, alla così detta poesia in prosa (“Il tamburo”), al dispositivo loico-descrittivo del bisogno poetico, per rispondere a quella necessità d’ispirazione cui Alberto Casadei nel suo Poesia e ispirazione (2009) vi annota, appunto, quanto sia ‘fondamentale…la connessione fra poiesis e nuove potenzialità ermeneutiche indicate dalla linguistica, dalla cognitive poetics e in generale dagli studi su mente e cervello’. Nell’incertezza del sentimento Pasquale Hamel allora si proietta nella “vita”, «attraverso un frullare d’ali ora ritmico ora scomposto», nel planare armonioso delle rondini (quasi un vagheggiare, nei temi, i versi ornitologici del pittore e poeta Beppe Bongi), limitato subito da un senso dolente di sconforto, per quell’avvertire il peso d’una oppressiva prigionia, di «canti solare filtrati da nostalgia» (così come si recita nel componimento “Villa Piccolo”) , dove la identificazione dell’essere costituisce un «disperato quesito». A volte l’incipit ludico segnato dal tocco chiuso della rima («brezza/carezza») si scompagina presto alla impressione prodotta dalle tessitura urbana, dagli interni desolanti e che ci riportano alla versificazione del futurista Giovanni Gerbino e al suo rapporto conflittuale con la città di Milano. Una Milano ora visitata per la scomparsa degli affetti familiari («Zia Adele») in cui si azzerano le categorie temporo-spaziali, le stesse, in fondo, che vengono percepite nei frequenti incontri con la città di Bruxelles, una città «dove c’è il nulla che tutto divora». Altra città del diniego, Palermo, teatro sanguinoso di lutti mafiosi (“21 marzo, per le vittime della mafia”; “Palermo”; “A Piersanti Mattarella”) dalla quale si secerne doppiezza, esuberanti contrasti. Nel sogno, il lievito, per Hamel; e, con esso, ineluttabile, un filo di nausea, un fluviale silenzio.


Aldo Gerbino

 
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