Giuseppe Castelli
Giuseppe Castelli Nato nel '50, a undici anni riceve in dono dai genitori una Eura Ferrania. Riceve i primi rudimenti dalla fotografa Maria Attualità che lo instrada verso un uso consapevole e non solo documentaristico del mezzo. Mentre porta a compimento gli studi di architettura ed Urbanistica, per anni accumula immagini sia con finalità creative che per uso documentario. Ha insegnato storia e tecnica della fotografia e tecnologie fotografiche presso un Istituto profes- sionale e come fotografo della Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali ha realizzato numerosi cataloghi di musei e grandi mostre partecipando a decine di pubblicazioni su grandi eventi a carat- tere culturale ed artistico, sia in Italia e all'estero. Da tempo alla fotografia documentaristica e da catalogo ha associato una intensa ricerca sull'uso creativo del colore e sulla elaborazione di immagini composite e stratificate cui fanno seguito ela- borazioni digitali di certa ricercatezza fino a rendere poco riconoscibili i soggetti originali od a sfumare nel surreale o nell'astratto. Immagini inusuali e cariche di suggestioni cromatiche e simboliche sono il risultato dei suoi lavori dei quli è solito distruggere tutti i passaggi preparatori per non avere modo di ripetere due volte lo stesso percorso creativo. Ha frequentato quasi tutti i generi fotografici e si ocuupa specificamente di foto di opere d'arte, di architettura e di viaggio. BRAINCHROME Ci chiedevamo cosa pretendere ancora dallo strumento fotografico ed adesso che gli abbiamo messo le ali ai piedi, grazie ai computers ed ai suoi accessori, non sappiamo se abbia ancora senso tracciare confini ed autonomie tra discipline e tecniche di rappresentazione visiva e convincersi della necessità di nuove convergenze espressive. Di tanto ci aveveano avvertito dei signori che si chiamavano Degas e Bonnard, ed ancor più Balla, Depero, Bragaglia e, decisamente, Man Ray e Duchamp. Con Stieglitz, attraverso Strand, Cartier-Bresson ed Adams, ci eravamo convinti che il problema non sussistesse poichè altro e diverso era l'uso della fotografia degli Hausmann, Grosz, Ernst, Moholy-Nagy fino a Warhol o Rauschenberg. Ma adesso? Ricordate la polemica, tutta italiana, tra il crociano Cavalli e l'impegnato Monti? Beh, se Monti, il grandissimo Monti, ha vinto la battaglia del nuovo nella fotografia italiana, il suo amico-nemico Cavalli, oggi, come dice il mio amico Scianna, ha vinto la guerra. Pertanto, di fronte all'opera nuova di Giuseppe Castelli, è d'uopo ricapitolare la storia della fotografia e, con essa, quella dell'arte e delle categorie di gudizio estetico (senza dimenticare, ed è il nostro semplice consiglio, che ogni immagine ne evoca pur sempre altre, ed a sfogliarle, una dietro l'altra, magari non si troverà l'immagine primigenia ma si sarà incontrata l'esperienza, questa esperienza, con la quale l'Autore aveva interesse a metterci in relazione). Pippo Pappalardo SOGGETTI SMARRITI
L'intenzione di Cézanne che vuole cogliere la realtà senza trovarla già fatta, ma creandola da sé, potrebbe essere la chiave di lettura della ricerca di Giuseppe Castelli che, dilatando i confini della rappresentazione fino a ridurre la realtà ai limiti della percezione, opera un'invenzione di recupero del soggetto per le vie della luce e del colore. Fin qui l'azione fotografica che agisce attraverso la luce potrebbe essere il conduttore di un modo di vedere del dato che si ''presenta''o si cerca, se non fosse per un inatteso senso di straniamento che sopravviene quando ci si accorge che è sul piano dell'evocazione che il suo discorso si modula. Poiché del ''soggetto'' sembrano essersi perse le tracce e che il ''soggetto'' non è più tanto il dato da rappresentare quanto lo stesso modo di vedere, l'abbandonarsi ad uno sguado che mentre si mette a distanza per delimitare le inquadrature, si lascia circondare da ciò che osserva fino a perderne le dimensioni e la forma, fino a godere della magia di ciò che attraverso l'obbiettivo, si fa solo luce e colore. Fino ad azzerare le nozioni dello spazio e del tempo per imprimere sulla carta il gioco delle sue emozioni. Uno street photographer al contrario che filtra l'esperienza quotidiana del vedere non per coglierne gli elementi insoliti, le piccole vicende in chiave poetica, ma per cogliere direttamente la poesia attraverso una purificazione dei dati, una riduzione all'essenza, che non diviene elemento di astrazione, ma si fa gesto di pittura che prende forma attraverso la materia della luce. Poiché, in effetti, il risultato pittorico che, nelle sue fotografie, Castelli ottiene, è tale da spingere la riflessione oltre la ''materia'' del fotografare svolgendo una vera e propria azione di pittura, di manipolazione della forma, attraverso un gioco di composizione e di liberazione di cromie che non è dato dalla distribuzione o dalla sovrapposizione di pigmenti, ma dall'illusorio e impalpabile modularsi della luce che in maniera virtuale impressiona la carta e dà voce all'espressione. In questo gioco al contaminare, Giuseppe Castelli sembra sistemare le sue ottiche in una sorta di stargate, una linea di confine al di là della quale la realtà diviene il suo oltre, si mescola col ricordo di se stessa, diviene immagine possibile di un sogno, dialoga con altre realtà, quelle che appartengono a tempi diversi, e che costituiscono l'inverosimile formarsi di un corpo di memorie che vive la dimensione della contemporaneità. Così, soggetti diversi ripresi in situazioni, tempi ed eventi diversi, decontestualizzati dalla loro pertinenza storica, divengono strumenti di una memoria che li ''ri-vive'' in un'unica situazione temporale e che li colloca in una medesima sistemazione spaziale mescolandoli, facendoli divenire quasi fantasmi, apparizioni che si contendono i piani di visibilità o di invisibilità, votati più alla scomparsa che alla comparsa, ectoplasmi quasi che compongono un magma informale ricondotto a un presente che lo evoca per un incontenibile conato di emozioni che ne fa oggetto di bellezza. Non sono dunque immagini della realtà quelle che Castelli mette in scena nel non tempo di un improbabile teatro di rappresentazione, ma ricordi di realtà, lacerti di un vissuto sedimentato nell'anima e che, nella memoria produce meraviglia e incantamento. Immagini interiorizzate e riviste attraverso una prospettiva straniante, poiché protagonisti divengono il colore ed il segno. Segno non come elemento che definisce, separa o dissipa le superfici, elemento architettonico che scandisce una successione di piani, non per rendere evidenti le dimensioni, ma come gesto che sottolinea la continuità delle immagini, la contemporanea presenza sulla retina, il succedersi di livelli visuali che costruiscono, se si vuole o decompongono il loro formarsi, il loro prodursi all'interno di un'unica iquadratura per farne unico spettacolo di visione. Perchè ciò che fondamentalmente interessa l'artista è il colore e la stretta relazione che le cromie hanno con le emozioni. Per questo appare lontana dalla sua forma espressiva ogni intenzione descrittiva: il suo rapporto con le immagini finisce col delineare spazi intimi ri-vissuti e ri-letti da chi cerca e vuole cogliere attorno a se provocazioni che gli permettono di continuare a praticare l'esercizio rivelatore della stupore. Per cogliere quei regstri segreti che stanno oltre l'apparire delle forme, che oscillano e si modellano tra il tendere dell'artista verso la leggerezza e l'amalgamarsi del colore che, oltre la luce, si fa anche ombra e mistero. Alla percezione dello sguardo si sostituisce così un modo di vedere che appartiene all'anima, che sfuma verso un invisibile che è sostanza, che è verità e che è raggiungibile per le vie di un procedere che scardina e azzera i contorni nell'intento di cogliere la leggerezza dell'essenza. Castelli scopre così innumerevoli vie di mezzo, facendo attraverso la fotografia pittura e formulando attraverso la pittura vie di luce che sottendono alla fotografia. E in questo si avverte la ragione gestuale di un'affidarsi a un colore che sborda dal suo dettato originario per offrirsi ai registri purificati della luce che mentre lo modula, lo modella e anche azzera. Cosa rimane del soggetto? Il vago sapore di uno smarrimento, la dispersione di un dato anagrafico che forse non serve più perchè è impresso nell'anima e dall'anima procede per porsi allo sguardo come spettacolo, magico, illusorio, senza tempo, inverosimile formarsi fra le trame di una retina purificata che accoglie l'informe caleidoscopio di una realtà che si percepisce come purezza e incantamento. I monumenti, le case, gli oggetti, i personaggi appaiono allora più che ''soggetti'', magici scenari d'apparizione, impalpabili presenze, illusorie comparse di un emozionato spettacolo che anima colori e forme per farci rileggere il reale come ''visione'' - direbbe Duchamp- attraverso la magica immateriale, informe, levità della luce. Franco Spena
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