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FRANCO SPENA, di Giuseppe Ingaglio

 

 

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Franco Spena è un artista che opera ormai da molti anni nel campo della scrittura visuale all’interno della quale ha costruito i suoi segni sospesi tra la dimensione intimista dell’esecuzione dell’opera lenta e silenziosa e l’immagine ampia e gridata della dilatazione del segno che invade anche lo spazio  assumendo intriganti valori oggettuali. In particolare la sua attenzione si rivolge alla scrittura industriale, presente nel packaging o nelle  lattine di bibita, che ritaglia in minuti frammenti e  che ricompone in superfici dal sapore informale. Questi lacerti di scrittura costituiscono l’elemento minimo, la tessera che si azzera e si ricompone,  con la tecnica del cut-up,  secondo una planimetria che ne scardina i processi semantici per attuare procedure che liberano il senso sul versante della composizione e del ritmo. Sul versante della scrittura stessa che finge un illeggibile altro da sé quando l’artista la risistema in righi costruendo pagine che alludono a testi improbabili, rivolti solo alla visione, in superfici che mettono in tensione la fragilità decadente della carta impastata a mano e la fredda luminosità dei ritagli di lattine. 
In MySelf è il corpo dell’artista che si fa pagina, non tanto per ospitare il segno-scrittura offrendo una superficie diversa, quanto perché il disporsi dei segni si risolve in agglomerati di ritagli di lettere che  divengono parte del corpo, impossessandosi dello sguardo, della bocca, delle orecchie, della lingua, proponendosi come corpo ulteriore che invade, penetra o fuoriesce.
Franco Spena espone una serie di autoritratti fotografici che mettono in contrasto l’immobilità dell’artista col ritmo degli addensamenti  dei lacerti di lattine, secondo un’azione performativa che si esaurisce nel tempo della posa e che connota spesso l’improbabilità della scena di un silenzio metafisico e distante. In fondo l’operazione diviene metafora – giocosa e ironica a volte - di una scrittura, anche urbana, mutevole e varia, che avvolge e condiziona, che si muove attorno a noi, che diviene parte di noi, che spinge lo sguardo ad operare continui adattamenti percettivi e che si propone sempre più come spazio mobile e provvisorio all’interno del quale compiamo le nostre azioni, realizziamo i nostri gesti e pronunciamo le nostre parole. Nel quale diveniamo noi stessi parola che ci pronuncia e ci fa ulteriore discorso, luogo dell’attraversamento e dell’esercizio di una serie infinita di alfabeti nell’informe villaggio del comunicare.


Giuseppe Ingaglio

 

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