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CORRADO CALABRO': LO SGUARDO TRASFIGURANTE DELLA POESIA

 

 

CORRADO CALABRO': LO SGUARDO TRASFIGURANTE DELLA POESIA. 

Il verso nel mito e sul filo della storia

 

Abbiamo avuto modo di leggere su “L’illuminista” (n° 8/9 anno III) di Walter Pedullà un saggio molto articolato e ricco di riflessioni sulla crisi della società contemporanea e della letteratura, a firma di Corrado Calabrò. Un’occasione che ha dischiuso al mio pensiero le zone forse più riposte della poesia dell’intellettuale calabrese. Il suo Excursus critico che egli intesse partendo dalle radici della nostra civiltà, la cui scaturigine è nel Verbum, accosta poesia e riflessione storica, filosofica, scientifica così da farne un’unica folta trama da cui, poi, emergono temi e motivi che ritroviamo nella sua poetica. Nel senso che essi si svelano come apparentati alle intuizioni del suo pensiero poetico, come se l’indispensabile avantesto poetico del Nostro avesse una sua incubazione nel testo critico e solo più tardi pervenisse al travaglio poetico del testo tout-court. Mi sembra sia questo il crogiuolo nel quale viene lavorato il magma poetico prima di essere filtrato nella materia vera e propria della poesia, secondo un processo di osmosi che dall’intuizione critico–poetica passa e dà forma agli elementi squisitamente poetici che ritroviamo in tutta l’opera di Calabrò.

 

Mi piace introdurre questo discorso su Corrado Calabrò con le parole di Josif Brodskij: “L’opera complessiva di un poeta è una testimonianza resa  al miracolo dell’esistenza ed è sempre,  in un certo senso, un vangelo i cui versetti convertono il loro stesso autore più radicalmente di quanto non convertano il pubblico”. Una premessa, ritengo, opportuna, perché ancora una volta confermata dall’antologia Una vita per il suo verso. Poesie.1960-2002 (Oscar Mondadori, Milano 2002): uno scrigno che racchiude quarant’anni di vita e di intensa attività poetica.

Ma veniamo al punto: Una vita per il suo verso. Quale “verso”, la faccia nascosta del verso -l’altra faccia­- o l’andare per la propria strada, quella della Poesia? Nel “verso” del titolo c’è tutta l’ambiguità della poesia, la sua natura anfibologica: “verso” come misura ritmica; “verso” come indicazione di luogo e di movimento; “verso” come voce verbale e verbum; “verso”, infine, come cronologismo, dunque indicazione anche di tempo. Titolo semanticamente già ricco per la presenza di dinamiche che ne significano la  plurisemanticità e la polisemia, insomma l’ampiezza e la profondità del contesto, che affiorano dalla sovrabbondanza dei contenuti mai, però, suscettibili di degenerare nella ridondanza della forma o in talune cadute, banalizzanti, che purtroppo abbiamo avuto modo di rilevare in tanta poesia enfaticamente e rumorosamente proposta e celebrata dal nostro talora superficiale, ma più spesso ipocrita e interessato Novecento.

Parlavo di “ricchezza” di questa poesia, come già il titolo lascia intendere,  e certamente il riferimento è anche o soprattutto alle voci tematiche presenti nel tessuto poetico, a partire dai due lessemi “mare” e “nostos”, nei quali è implicito il concetto di “viaggio”. Due topoi ricorrenti che si fanno misura della prova e del rischio, cioè della seduzione e della sfida all’Ignoto grazie alla parola-metafora che vela e disvela. Il mare resta la grande pagina su cui Calabrò orchestra sinfonie esistenziali, nel senso anche della filogenesi e dell’ontogenesi del destino della specie umana e del destino-oltre del singolo, così che la realtà possa essere vissuta nella stessa condizione mitopoietica che questa poesia ricerca ed esprime. Per esempio, l’epifania primordiale del mare: un archetipo che il poeta rappresenta attraverso l’immagine dei Bronzi di Riace. Il mare- verbum che sembra voler definire il discrimine fisicità-metafisicità,  parola-silenzio, essere ed essere-oltre. Si comprende allora come l’Ignoto possa essere a un tempo parola  perduta e parola ritrovata: una parola che sfida il silenzio e in questo si ritrova allorché realizza la magia degli archetipi che possono spingersi a connotare, per metafora, finanche  l’uomo contemporaneo, il suo destino, gli inganni, le sopraffazioni. Naturalmente, la sua storia, il nostos, invece, lo si ritrova, come urgenza e come spinta emotiva, già nel moto pendolare anabasi/catabasi, fuga/ritorno, movimento a quo/ad quem. Anche l’apparente buio di certi passi o passaggi può avere, qui, la funzione di disgelare la natura ambigua di questi versi, tanto più versi quanto più, dal poeta, è perseguita l’ambiguità.

Calabrò ha il vantaggio di essere anche un teorico della propria poesia, e questa sua capacità lo pone in condizione di ridefinirla di volta in volta criticamente, nel senso che, a differenza di altri poeti, può scorgerne alcuni limiti e intervenire, ma soprattutto è in condizione di alimentare le proprie immagini poetiche anche attraverso un uso adeguato del lessico critico, essendo la terminologia specialistica spesso di ausilio al pensiero poetico. Non solo, ma egli conosce bene, da servirsene  con disinvoltura, l’importanza dei campi semantici e del linguaggio, che ricava a livello linguistico e psicolinguistico, alcune risorse dalla grande famiglia  delle metafore: si pensi a certi ricorrenti paradossi ossimorici (“La penuria di te mi affolla l’anima”), all’uso delle figure metrico-stilistiche e di pensiero, e poi all’impiego di avverbi che il poeta deriva da aggettivi anche poco consueti e a interventi, qua e là, attraverso esercizi sinonimici del tipo, poniamo, “liquido-equoreo” e altro ancora; per non dire di una possibile ricerca frequenziale di neologismi per prefisso:”allingua” ne è un esempio. Ora, tutto questo ci dà la dimensione – il temperamento, la temperatura – della poesia di Corrado Calabrò, la quale si colloca sempre tra i tempi del cuore e i tempi del respiro: una poesia vitale e vitalistica della quale solo un esame stratigrafico attento potrebbe mettere in evidenza la natura complessa e composita che si spinge sino ai livelli profondi della scansione interiore, per riemergere col dono della sapienzalità: “Aspetta ancora un poco, facci caso: / l’attesa sa filare un lungo filo” (Il filo di Arianna). Il poeta, insomma, ricerca la parola come grazia e trova la grazia della parola. Questo Calabrò è un guerriero – lui davvero in carne e ossa – della Magna Grecia, direi poeticamente condannato a risalire il tempo grazie al proprio verso, onde rivisitarlo e riproporlo alla contemporaneità. Ma il tempo,qui, è anche paesaggio che si apre nella liquidità marina e dà il senso della sospensione, come del resto l’aria su cui plana e veleggia il gabbiano. Il mare, poi: esso resta certamente il centro emotivo fondamentale di tutta quanta l’opera poetica di Calabrò, come accade alla poesia “mediterranea” (per esempio, Cattafi e D’Arrigo), che si apre alla universalità per la ricchezza e complessità dei motivi storici ed esistenziali che l’attraversano insieme al Mito. Pertanto, questa poesia non può che alimentarsi anche alle cromie ( un corrispettivo, direi, cromatico dei sentimenti) del paesaggio, come se il poeta volesse sottolinearne uno stato d’animo: una personificazione, dunque, del paesaggio che , come creatura, soffre e vive il proprio stato d’animo e lo trasmette e lo condivide con l’uomo. Calabrò ama i particolari del paesaggio con la passione del pittore che interagisce col soggetto della propria tela. Si legga in questo senso Prima attesa, il testo del 1960 che apre l’antologia: “ Ecco uno scoglio – scabro – / ecco una vena azzurra / nell’acqua scolorita”. Nella luce, nei colori, nelle immagini (possibili forme del sentimento?) il poeta ricerca la realtà svanita, il tempo trascorso: il mito dei luoghi di infanzia e adolescenza, nei quali ritrovare gli affetti perduti. Diciamo allora che egli ricostruisce la memoria attraverso l’uso dei particolari analitici del paesaggio ormai “lontano”: così in Distacco:”… E tutto il cielo sento allontanato, / per la sua sola altezza avido e intento”. Ci si potrebbe  soffermare a lungo sulla tendenza del poeta di insistere sulle forme del paesaggio, così come anche sui momenti di empatia che ne accordano i fremiti e gli abbandoni dell’idillio, ma soprattutto sull’abilità dell’autore nel concepire il flash del frammento, allorché viene travolto dalla esaltazione da innamoramento, sempre classificabile tra le pene d’amore, come qui, in Natura fredda (1976): “Sei apparsa sul mio sentiero / come una nuvola fredda/ che in un istante è grande nel cielo”; o come nella folgore epigrammatica di Liaisons (1984): “Non è me che detesti/ ma questo laccio così dolce e tenace . // Non è te che – forse – amo / ma questo laccio sottile e tenace / che ci strangola insieme a occhi aperti”. E siamo già nella selva d’amore, le poesie raccolte e riproposte nel 2004 dalle edizioni Newton Compton col titolo Poesie d’amore. Corrado Calabrò è vocazionalmente, ossia per vocazione naturale, innamorato dell’innamoramento e dell’amore – lui, calabrese – naturalmente come un greco antico della Magna Grecia. Vediamone gli approcci e gli sviluppi, le vibrazioni e i fremiti, insomma il dolce malessere nell’uso ricercato e insistito della metafora cosiddetta continua, cioè l’allegoria, attraverso il sovrasenso dei miti greci. E qui è di scena il mare ( il mare-vita nei suoi aspetti più segreti): il luogo o la pagina immensa su cui è incisa  la ventura dell’uomo, la storia della sua esistenza. Gli amori, la pena di essere sulla terra, le ossessioni, le malie, i sogni, le illusioni, le disillusioni, gli inganni, le sopraffazioni, la violenza: tutto è trama nel tessuto equoreo e mobile del mare e tutto appare e svanisce come certi miraggi nello Stretto. Il poeta è nello stesso tempo cantore dell’incanto e del disincanto d’amore ed è di suggestiva intensità – e nuovo – l’impasto che egli riesce a fare  allorché mette insieme, in un unico stravolgimento dei sentimenti e dei sensi, l’esperienza d’amore e il turbine, il ruggito, il rantolo, l’urlo, il buio, la storia, la luce come partecipazione cosmica del risentimento  e del sentimento. E’ sempre corale, nella poesia di Calabrò, la partecipazione degli elementi naturali, sia quando si infuriano che quando testimoniano della memoria del dolore e del disamore che ritrovano nel ricordo  lo struggimento per gli attimi perduti, lo smarrimento per il sogno infranto d’amore. Questa la connotazione più profonda e persistente di tutta quanta la poesia d’amore di Calabrò, fatta di albe e di tramonti, di raggi di sole e di corruschi e di solitudini, che tornano a rimarcare l’esuberanza e il limite della passione d’amore. A questo punto, lo stile affabulatorio dell’autore segue il filo della narrazione poetica, allo stesso tempo gnomica e gnoseologica, così da poter viaggiare nel tempo del Mito e della Storia e assumerli come categoria dell’esistenza e dimensione umana mai affrancata dal male della terra :”La privazione di te / ora si stinge –diacronicamente – / in questa vastità senza orizzonte / del mare che nel cielo trascolora […] // Un sasso inanimato sulla roccia:/ ma – gemello di quelli che stanotte / piovevano da spazi siderali / con scie incandescenti - / questo sasso conserva per sé solo / la memoria impietrita / d’aver sfiorato il volto di una stella” (Gli occhi di Circe). 

Mi soffermerei, adesso, su Il vento di Myconos (1992), che leggo allo stesso modo di un racconto di mare e di vita, intrecciando, esso, il privato e il personale – come ricordo e come nostalgia – con la scena naturale del paesaggio marittimo e marino che nella metafora si fa teatro esistenziale su cui appunto il mare – come malia e come mistero-scandisce i ricordi  e gli affanni di un’esistenza che trova nel fascino dell’avventura la forza e il desiderio dell’approdo, prova e sfida insieme. E potremmo incontrare, in questi versi, senza punto sorprenderci, anche i personaggi e/o le tensioni che muovono e giustificano la letteratura del “viaggio”, da Omero a Dante, da Baudelaire (“annegar nell’Ignoto pur di trovare il nuovo” – Il viaggio, da I fiori del male) a Coleridge (“E tu sempre amerai, uomo libero, il mare – “L’uomo e il mare, da La ballata del vecchio marinaio). Per non dire dell’ Odisseo pascoliano di L’ultimo viaggio. Ma sentiamo Corrado Calabrò: “Dell’acqua rigonfia d’ignoto […] “/(Ho gli occhi pieni di mare, 1980). E vorrei ricordare il Nobel caraibico Derek Walcott in Mediterraneo: “Viaggiatore che sul mio petto sollevo / Oltre il saper mortale, la nostra vita un lungo sonno/ Finché ci si svegli a Itaca sotto lunghe lance del sole” (da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 2006).

Parlavamo prima di “scena esistenziale”, direi di più: di storia che viene  da lontano, da altri tempi–da confondersi con la poesia del Mito – per parlare alla contemporaneità. Insomma, il “racconto” mitopoietico di Corrado Calabrò vuol ricordarci, anche, che nulla può insegnare, all’uomo, la Storia, se non ahimè il prevalere e il persistere dell’errore onnipresente nei suoi corsi e ricorsi (Vico docet) : “La verità è che il filo ha un solo capo/e che il labirinto e senza uscita”: così il poeta ne Il vento di Myconos. E’ a questo punto che ci si sente toccati dalla saggezza aforistica del verso di Calabrò, dai tratti profondi di una sapienzialità che ci ripropone, per emblemi, i vissuti dell’uomo della terra. Qui affiorano la cultura e il temperamento di un personaggio magnogreco che rivive la ricapitolazione della Storia, a dimostrazione che nulla, spesso, muta nel cuore e nella mente dell’uomo.

Non è il caso di rivisitare i grandi filosofi esistenziali e metafisici della Grecia classica né i Presocratici avvertibili negli elementi naturali che popolano la poesia dell’intellettuale calabrese, la quale si muove e cresce per tensioni cosmogoniche, forse alla ricerca di una teogonia che in questi versi fa sentire da un lato la dolorosa lontananza da/di Dio, dall’altro l’impellenza di ritrovarlo (cfr. Gemellaggio, Le braccia in croce, nonché i riferimenti all’A.T. e poi a Paolo e Matteo). Tutto, in questa poesia di Calabrò, è mosso dai furori e dai languori dell’io autobiografico, anche quando questo si addentri nei labirinti della Storia o affronti l’inganno malioso del Mito: tutto, insomma, l’io soggettivo riporta ai grandi motivi, eterni, dell’esistenza dell’essere. Si legga in proposito uno dei testi più intensi e struggenti, e strutturalmente forti della raccolta, Precorrimento (2002): “Io, io … vorrei percorrere il mio tempo/ in spazi/ di curvatura pressoché infinita/ se esiste un’astronave che mi porti / fuori di me/ a occhi aperti, per quanto mi allontani”.

Qualche volta nei suoi excursus immaginifici, Calabrò ci ricorda l’immaginismo “mediterraneo” di Walcott, e altre l’immaginismo surreale del messinese Bartolo Cattafi (il poeta calabrese condivide con lui e con D’Arrigo lo stesso mare, come qui, nel cattafiano Tirreno e Jonio: “Si cambiano sovente i connotati / diventando violenti / schiumano sul luogo dello scontro[…]; o in quest’altro componimento darrighiano: “La voce, la sua voce che ci chiama / nelle notti di luna sullo Stretto, / quando piangere s’odono i delfini […] – da Codice siciliano). Anche Corrado come Bartolo Cattafi distilla in gocce d’acqua marina la vita o la desume e definisce dalla pagina liquida del mare, dalla scrittura di una aguglia che serpeggia nell’azzurro dell’acqua. Egli modella il suo verso sulla fisicità dell’acqua, onde accostarsi a una dimensione autre o farsi portavoce di una istanza metafisica o celebrare la metafisicità. Insomma, l’elemento naturale, ma anche antropico, ancorché non conduce apertamente a Dio, nel senso dell’invocazione chiara e scoperta, però apre al pensiero di Dio.

 

Ragusa, lì 5 maggio 2007

                                                                                                          Giovanni Occhipinti

 

 
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